1.4.19

Quel romantico di Leopardi (Franco D’Intino)

Il sito “Il primo amore”, per scelta di Antonio Moresco pubblica due brevi stralci da un recente libro sul Leopardi, La caduta e il ritorno. Cinque movimenti dell’immaginario romantico leopardiano di Franco D’Intino, editore Quodlibet. Dai brani, tratti dall'introduzione del libro, mi pare che l'autore affronti con piglio deciso e soluzioni originali temi di grande interesse critico e storiografico. Non sono d'accordo con diverse affermazioni perentorie, ma riprendo - senza note – il primo. Il dibattito su Leopardi deve riprendere e questo lavoro può essere di grande aiuto. (S.L.L.)



Per buona parte del secolo XX si è cercato di allontanare Leopardi, spesso per motivi ideologici spurî, da questo paesaggio e da questi problemi, isolandolo con un cordone sanitario dal romanticismo – fenomeno di cui in Italia si è sempre compreso assai poco – per costringerlo entro fuorvianti opposizioni categoriali. Materialismo, per esempio, non solo non significa razionalismo, ma può ben conciliarsi con una «incombenza» e «centralità dell’io» filosoficamente inevitabili in quel giro di anni. E ancora: che Leopardi sia e si professi ateo non ci autorizza a trascurarne l’immaginario teologico, con coloriture talvolta mistiche, ché proprio l’innesto dell’uno sull’altro elemento è il combustibile del suo genio. E così via. Altre categorie, dunque, ci aiutano a comprendere Leopardi: quelle che hanno trovato compiuta, anche se talora incoerente e frammentaria articolazione nelle opere dei romantici europei, non certo di quelli italiani. Oltre alle cinque che danno il titolo ai capitoli, eccone alcune: l’infinito, l’incompiuto (il frammento), il vago (o indefinito), il desiderio, il salto, la velocità, la mutazione, la complessità (o contraddittorietà), il pericolo, l’azzardo, il conflitto, l’esilio, il sacrificio, lo sdoppiamento, l’(auto)distruzione e l’(auto)creazione, l’impulso vitale, l’organico, il potenziale. Altre ancora se ne potrebbero aggiungere, generate dai due fuochi di quella ellisse – usiamo la metafora scelta da Curtius per il suo capolavoro (Letteratura europea e Medioevo latino) – attorno a cui si raccoglie la materia di questo libro: la caduta e il ritorno. Tutto questo universo è messo in moto dall’energia, che, come Michel Delon ha ben visto nel suo libro sull’Idée d’énergie en France au tournant des Lumières (1988), è la sostanza che dà fuoco all’epoca, liquefacendo le fragili barriere fra tardo-illuministi e romantici, materialisti e spiritualisti, scienziati e mistici, fisici e metafisici, e costringendo gli scrittori a quelle innovazioni formali radicali che inaugurano l’epoca moderna, molte delle quali ricadono all’interno della galassia del sublime.
Anche da questo punto di vista, le evidentissime tensioni (strutturali, stilistiche e linguistiche) che percorrono l’opera edita e inedita di Leopardi sono state spesso ignorate, e talora ricondotte al passato. Un rigoroso “senso della forma” è stato evocato per etichettarlo come “classicista”, come se, per esempio, Wordsworth, Coleridge, Keats, Shelley, Kleist, Baudelaire e Flaubert – puri romantici – ne fossero sprovvisti. Leopardi, ha scritto di recente Gilberto Lonardi (il quale pure rifugge dall’etichetta “romantica”), è «al di là di ogni lettura neoclassica e anzi di ogni classicismo». Innegabile è la sua pulsione verso la sperimentazione e l’incompiutezza, e verso, dirò così, un ondeggiamento, che fa leva sulla poetica dell’infinito/indefinito/indeterminato, centralissima in tutti i romantici: «La malinconia, il sentimentale moderno ec. perciò appunto sono così dolci, perché immergono l’anima in un abbisso di pensieri indeterminati de’ quali non sa vedere il fondo nè i contorni». Una ricostruzione non parziale, è evidente, dovrà fare interagire queste due polarità gerarchizzandole dinamicamente. Lo fa Gramsci quando, in uno dei suoi sintetici e folgoranti giudizi, scrive che Goethe «esprime in forma serena e classica ciò che nel Leopardi […] è ancora torbido romanticismo». A patto di intenderci sul significato di «torbido», il giudizio è più o meno esatto, nel senso che il dato primario, in Leopardi, è la tensione, persino distruttiva, verso l’incompiuto/infinito/inconcludibile che si scava entro un senso della “forma” come faticosa e combattuta conquista. Una nuova misura dinamicamente in bilico sul precipizio di una riflessività che, come dice egli stesso molto chiaramente, sprofonda in se stessa: «Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un’immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica».
A questa temporalità inabissata e indeterminata, che si costituisce nella rimembranza – il recupero di un qualcosa di scomparso, il doloroso e stratificato ricucirsi di una ferita – Leopardi dà il nome di romantico. Se forma romantica si dà, essa è, per definizione, un movimento di ritorno. Come Benjamin dimostra nelle ultime pagine del Concetto di critica nel romanticismo tedesco, l’esito ultimo della poetica schlegeliana e novalisiana potrebbe sembrare “antiromantico”; è, cioè, una sobrietà, ma una sobrietà nell’infinità (forse qualcosa di simile alla sobria ebrietas di Filone): non già, dunque, adesione a modelli dati, ma un ritrovato rapporto tra soggetto e oggetto. Una nuova misura, appunto, che Benjamin vede realizzata in Flaubert e addirittura nei parnassiani. Impossibile, allora, comprendere – solo per fare un esempio – la radicale novità e modernità dei Canti (per non parlare delle “capricciose” Operette morali e di quel “caos scritto” che è lo Zibaldone) se non li collochiamo su questo sfondo.
[...]
In generale, questo libro è assai diverso dai miei precedenti. L’idea fondamentale risale agli anni Novanta, e non l’ho voluta troppo sfigurare: ho raccolto materiali per oltre vent’anni, di recente li ho rifusi, rielaborando tutto in modo radicale e scrivendo parti nuove. Ho trattenuto qualcosa, tra le dita, del modo romantico di pensare e scrivere: romanzesco, rapsodico, per variazioni, o trasformazioni, ognuna delle quali mostra il tema sotto una nuova luce (di qui il sottotitolo musicale: “movimenti”). Per contro, la struttura è estremamente coesa: ogni elemento ha una sua funzione precisa all’interno di un disegno unitario e organico, la cui chiave si trova, come in certi racconti polizieschi, alla fine, e in particolare nell’ultimo paragrafo (che riconduce al primo) e nell’Epilogo. Un disegno che si costruisce pian piano anche attraverso una rete di lemmi, di cui si registrano e studiano le parentele, le sovrapposizioni, i ritorni e le intime vibrazioni. Un metodo di lettura che si ispira a fondamentali lavori di semantica come quelli di Spitzer, Benveniste e Onians, e che da anni cerchiamo collettivamente di sperimentare nei seminari del Laboratorio Leopardi Sapienza e nel progetto del Lessico Leopardiano. Idealmente, il libro richiederebbe una lettura continua, dall’inizio alla fine, perché tutto ciò che cade, prima o poi ritorna. Ma chi ha più il tempo di leggere libri interi, e di seguito? Molto lavoro è chiesto dunque al volenteroso lettore, cui spetta il compito di ricostruire in sé, in modo sympathetisch, la trama della tela, ampliando virtualmente all’infinito il cerchio delle citazioni pertinenti, di cui si dà qui solo quel minimo che serve all’insieme. Lo scopo non è raccoglierle, ma attrarle tutte magneticamente verso un sistema di senso che le illumini; un sistema che però non dà mai risposte frontali, mirando invece a gettare su alcune questioni topiche una luce laterale, obliqua. Con l’affettuosa ironia auto-denigratoria di Carlyle a proposito del suo alter ego, il bizzarro professor Teufelsdröckh, si potrebbe dire che questo libro, con le sue mancanze e oscurità, con i suoi fluidi “movimenti”, vorrebbe attivare l’energia del lettore, e modificarne il modo di pensare: «we admitted that the Book had in a high degree excited us to self-activity, which is the best effect of any book; that it had even operated changes in our way of thought». Una critica propriamente romantica ha, d’altra parte, «la necessaria incompiutezza dell’impeccabile».

dal sito "Il primo amore", postato il 9 marzo 2019


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