Per buona parte del
secolo XX si è cercato di allontanare Leopardi, spesso per motivi
ideologici spurî, da questo paesaggio e da questi problemi,
isolandolo con un cordone sanitario dal romanticismo – fenomeno di
cui in Italia si è sempre compreso assai poco – per costringerlo
entro fuorvianti opposizioni categoriali. Materialismo, per esempio,
non solo non significa razionalismo, ma può ben conciliarsi con una
«incombenza» e «centralità dell’io» filosoficamente
inevitabili in quel giro di anni. E ancora: che Leopardi sia e si
professi ateo non ci autorizza a trascurarne l’immaginario
teologico, con coloriture talvolta mistiche, ché proprio l’innesto
dell’uno sull’altro elemento è il combustibile del suo genio. E
così via. Altre categorie, dunque, ci aiutano a comprendere
Leopardi: quelle che hanno trovato compiuta, anche se talora
incoerente e frammentaria articolazione nelle opere dei romantici
europei, non certo di quelli italiani. Oltre alle cinque che danno il
titolo ai capitoli, eccone alcune: l’infinito, l’incompiuto (il
frammento), il vago (o indefinito), il desiderio, il salto, la
velocità, la mutazione, la complessità (o contraddittorietà), il
pericolo, l’azzardo, il conflitto, l’esilio, il sacrificio, lo
sdoppiamento, l’(auto)distruzione e l’(auto)creazione, l’impulso
vitale, l’organico, il potenziale. Altre ancora se ne potrebbero
aggiungere, generate dai due fuochi di quella ellisse – usiamo la
metafora scelta da Curtius per il suo capolavoro (Letteratura
europea e Medioevo latino)
– attorno a cui si raccoglie la materia di questo libro: la caduta
e il ritorno. Tutto questo universo è messo in moto dall’energia,
che, come Michel Delon ha ben visto nel suo libro sull’Idée
d’énergie en France au tournant des Lumières (1988), è la
sostanza che dà fuoco all’epoca, liquefacendo le fragili barriere
fra tardo-illuministi e romantici, materialisti e spiritualisti,
scienziati e mistici, fisici e metafisici, e costringendo gli
scrittori a quelle innovazioni formali radicali che inaugurano
l’epoca moderna, molte delle quali ricadono all’interno della
galassia del sublime.
Anche da questo punto di
vista, le evidentissime tensioni (strutturali, stilistiche e
linguistiche) che percorrono l’opera edita e inedita di Leopardi
sono state spesso ignorate, e talora ricondotte al passato. Un
rigoroso “senso della forma” è stato evocato per etichettarlo
come “classicista”, come se, per esempio, Wordsworth, Coleridge,
Keats, Shelley, Kleist, Baudelaire e Flaubert – puri romantici –
ne fossero sprovvisti. Leopardi, ha scritto di recente Gilberto
Lonardi (il quale pure rifugge dall’etichetta “romantica”), è
«al di là di ogni lettura neoclassica e anzi di ogni classicismo».
Innegabile è la sua pulsione verso la sperimentazione e
l’incompiutezza, e verso, dirò così, un ondeggiamento, che fa
leva sulla poetica dell’infinito/indefinito/indeterminato,
centralissima in tutti i romantici: «La malinconia, il sentimentale
moderno ec. perciò appunto sono così dolci, perché immergono
l’anima in un abbisso di pensieri indeterminati de’ quali non sa
vedere il fondo nè i contorni». Una ricostruzione non parziale, è
evidente, dovrà fare interagire queste due polarità
gerarchizzandole dinamicamente. Lo fa Gramsci quando, in uno dei suoi
sintetici e folgoranti giudizi, scrive che Goethe «esprime in forma
serena e classica ciò che nel Leopardi […] è ancora torbido
romanticismo». A patto di intenderci sul significato di «torbido»,
il giudizio è più o meno esatto, nel senso che il dato primario, in
Leopardi, è la tensione, persino distruttiva, verso
l’incompiuto/infinito/inconcludibile che si scava entro un senso
della “forma” come faticosa e combattuta conquista. Una nuova
misura dinamicamente in bilico sul precipizio di una riflessività
che, come dice egli stesso molto chiaramente, sprofonda in se stessa:
«Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle
cose, non è un’immagine degli oggetti, ma della immagine
fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o
riflesso della immagine antica».
A questa temporalità
inabissata e indeterminata, che si costituisce nella rimembranza –
il recupero di un qualcosa di scomparso, il doloroso e stratificato
ricucirsi di una ferita – Leopardi dà il nome di romantico. Se
forma romantica si dà, essa è, per definizione, un movimento di
ritorno. Come Benjamin dimostra nelle ultime pagine del Concetto
di critica nel romanticismo tedesco, l’esito ultimo della
poetica schlegeliana e novalisiana potrebbe sembrare “antiromantico”;
è, cioè, una sobrietà, ma una sobrietà nell’infinità (forse
qualcosa di simile alla sobria ebrietas di Filone): non già,
dunque, adesione a modelli dati, ma un ritrovato rapporto tra
soggetto e oggetto. Una nuova misura, appunto, che Benjamin vede
realizzata in Flaubert e addirittura nei parnassiani. Impossibile,
allora, comprendere – solo per fare un esempio – la radicale
novità e modernità dei Canti (per non parlare delle
“capricciose” Operette morali e di quel “caos scritto”
che è lo Zibaldone) se non li collochiamo su questo sfondo.
[...]
In generale, questo libro
è assai diverso dai miei precedenti. L’idea fondamentale risale
agli anni Novanta, e non l’ho voluta troppo sfigurare: ho raccolto
materiali per oltre vent’anni, di recente li ho rifusi,
rielaborando tutto in modo radicale e scrivendo parti nuove. Ho
trattenuto qualcosa, tra le dita, del modo romantico di pensare e
scrivere: romanzesco, rapsodico, per variazioni, o trasformazioni,
ognuna delle quali mostra il tema sotto una nuova luce (di qui il
sottotitolo musicale: “movimenti”). Per contro, la struttura è
estremamente coesa: ogni elemento ha una sua funzione precisa
all’interno di un disegno unitario e organico, la cui chiave si
trova, come in certi racconti polizieschi, alla fine, e in
particolare nell’ultimo paragrafo (che riconduce al primo) e
nell’Epilogo. Un disegno che si costruisce pian piano anche
attraverso una rete di lemmi, di cui si registrano e studiano le
parentele, le sovrapposizioni, i ritorni e le intime vibrazioni. Un
metodo di lettura che si ispira a fondamentali lavori di semantica
come quelli di Spitzer, Benveniste e Onians, e che da anni cerchiamo
collettivamente di sperimentare nei seminari del Laboratorio Leopardi
Sapienza e nel progetto del Lessico Leopardiano. Idealmente, il libro
richiederebbe una lettura continua, dall’inizio alla fine, perché
tutto ciò che cade, prima o poi ritorna. Ma chi ha più il tempo di
leggere libri interi, e di seguito? Molto lavoro è chiesto dunque al
volenteroso lettore, cui spetta il compito di ricostruire in sé, in
modo sympathetisch, la trama della tela, ampliando virtualmente
all’infinito il cerchio delle citazioni pertinenti, di cui si dà
qui solo quel minimo che serve all’insieme. Lo scopo non è
raccoglierle, ma attrarle tutte magneticamente verso un sistema di
senso che le illumini; un sistema che però non dà mai risposte
frontali, mirando invece a gettare su alcune questioni topiche una
luce laterale, obliqua. Con l’affettuosa ironia auto-denigratoria
di Carlyle a proposito del suo alter ego, il bizzarro professor
Teufelsdröckh, si potrebbe dire che questo libro, con le sue
mancanze e oscurità, con i suoi fluidi “movimenti”, vorrebbe
attivare l’energia del lettore, e modificarne il modo di pensare:
«we admitted that the Book had in a high degree excited us to
self-activity, which is the best effect of any book; that it had even
operated changes in our way of thought». Una critica propriamente
romantica ha, d’altra parte, «la necessaria incompiutezza
dell’impeccabile».
dal sito "Il primo amore", postato il 9 marzo 2019
dal sito "Il primo amore", postato il 9 marzo 2019
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