Nel quarto volume de Il Capitale Karl Marx aggiunse alle Teorie del plusvalore un breve scritto dedicato agli effetti economici del crimine, che per paradossi ne proclama la funzionalità al siatema di produzione capitalistico. Nel 2007 venne ripreso e pubblicato autonomamente, con il titolo Elogio del crimine dalla casa editrice Nottetempo, che vi accompagnò una prefazione di Andrea Camilleri. Offro alla lettura dei frequentatori del blog un assaggio del testo marxiano con un ampio stralcio del commento dello scrittore empedoclino.(S.L.L.)
Il delitto e la produzione
Karl Marx
Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un pastore prediche, un professore manuali ecc. Un delinquente produce delitti. Se si esamina più da vicino la connessione che esiste tra quest’ultima branca di produzione e l’insieme della società, ci si ravvede da tanti pregiudizi. Il delinquente non produce soltanto delitti, ma anche il diritto criminale, e con ciò anche il professore che tiene lezioni sul delitto criminale, e inoltre l’inevitabile manuale, in cui questo stesso professore getta i suoi discorsi in quanto “merce” sul mercato generale. Con ciò si verifica un aumento della ricchezza nazionale, senza contare il piacere personale, come [afferma] un testimonio competente, il professor Roscher, che la composizione del manuale procura al suo stesso autore. Il delinquente produce inoltre tutta la polizia e la giustizia criminale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati ecc.; e tutte queste differenti branche di attività, che formano altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano differenti facoltà dello spirito umano, creano nuovi bisogni e nuovi modi di soddisfarli. La sola tortura ha dato occasione alle più ingegnose invenzioni meccaniche e ha impiegato, nella produzione dei suoi strumenti, una massa di onesti artefici.
Il delinquente produce un’impressione, sia morale sia tragica, a seconda dei casi, e rende così un “servizio” al moto dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non produce soltanto manuali di diritto criminale, non produce soltanto codici penali, ma anche arte, bella letteratura, romanzi e perfino tragedia, come dimostrano non solo La colpa del Müllner e I masnadieri dello Schiller, ma anche l’Edipo [di Sofocle] e il Riccardo III [di Shakespeare].
Il delinquente rompe la monotonia e la banale sicurezza della vita borghese. Egli preserva cosi questa vita dalla stagnazione e suscita quell’inquieta tensione e quella mobilità, senza la quale anche lo stimolo della concorrenza si smorzerebbe. Egli sprona così le forze produttive. Mentre il delitto sottrae una parte della popolazione in soprannumero al mercato del lavoro, diminuendo in questo modo la concorrenza tra gli operai e impedendo, in una certa misura, la diminuzione del salario al di sotto del minimo indispensabile, la lotta contro il delitto assorbe un’altra parte della stessa popolazione […].
Le influenze del delinquente sullo sviluppo della forza produttiva possono essere indicate fino nei dettagli. Le serrature sarebbero mai giunte alla loro perfezione attuale se non vi fossero stati ladri? La fabbricazione delle banconote sarebbe mai giunta alla perfezione odierna se non vi fossero stati falsari? Il microscopio avrebbe mai trovato impiego nelle comuni sfere commerciali (vedi il Babbage) senza la frode nel commercio? La chimica pratica non deve forse altrettanto alla falsificazione delle merci e allo sforzo di scoprirla quanto all’onesta sollecitudine per il progresso della produzione? Il delitto, con i mezzi sempre nuovi con cui dà l’assalto alla proprietà, chiama in vita sempre nuovi modi di difesa e così esercita un’influenza altrettanto produttiva quanto quella degli scioperi (‘strikes’) sull’invenzione delle macchine. E abbandoniamo la sfera del delitto privato: senza delitti nazionali sarebbe mai sorto il mercato mondiale? O anche solo le nazioni? E dal tempo di Adamo l’albero del peccato non è forse in pari tempo l’albero della conoscenza?
Il Mandeville, nella sua Fable of the Bees (1705), aveva già mostrato la produttività di tutte le possibili occupazioni ecc., e soprattutto la tendenza di tutta questa argomentazione: “Ciò che in questo mondo chiamiamo il male, tanto quello morale quanto quello naturale, è il grande principio che fa di noi degli esseri sociali, è la solida base, la vita e il sostegno di tutti i mestieri e di tutte le occupazioni senza eccezione […]; è in esso che dobbiamo cercare la vera origine di tutte le arti e di tutte le scienze; e […] nel momento in cui il male venisse a mancare, la società sarebbe necessariamente devastata se non interamente dissolta”. Sennonché il Mandeville era, naturalmente, infinitamente più audace e più onesto degli apologeti filistei della società borghese.
Il Rinascimento e l’orologio a cucù
Andrea Camilleri
L’antichissimo detto popolare “non tutto il male viene per nuocere” nel primo settecento ebbe a subire un duro colpo ad opera di un medico inglese, Bernard de Mandeville, che, tra un paziente e l’altro, si dilettava a scrivere acute osservazioni sulla società del tempo. Nel suo saggio intitolato La Favola delle api, ossia vizi privati, pubblici vantaggi, del 1714, sostenne la tesi che un vizio privato come l’egoismo (con tutti gli annessi e connessi che da esso derivavano, fino alle azioni criminali alle quali di necessità quel vizio conduce) era la forza propulsiva che portava a un pubblico vantaggio, cioè al benessere e al progresso, mentre l’altruismo operava in senso inverso, vale a dire che faceva da deterrente ai processi di sviluppo ed era assolutamente negativo.
Quindi il detto popolare andava riscritto: “il male porta sempre bene”. Siccome a quel tempo si amavano molto le tesi paradossali (tanto per fare un esempio, è di pochi anni dopo la Modesta proposta di Swift dove, usando un tono da serio economista, l’autore proponeva di utilizzare i bambini poveri come cibo per i ricchi), anche il saggio di Mandeville venne intruppato con gli altri.
Ma non doveva poi essere tanto paradossale se un economista come Adam Smith ne restò in qualche modo influenzato. Naturalmente Marx non poteva trascurare il saggio di Mandeville e infatti si muove dalle sue conclusioni [...] per arrivare ad una sorta di sintetico esame del crimine e del delinquente come elementi fondamentali per lo sviluppo della “forza produttiva". L’elenco che Marx fa, con singolare, inattesa ironia, di tutti coloro che da un fatto criminale traggono beneficio materiale forse andrebbe aggiornato. Temo però che i tempi nei quali viviamo porterebbero troppa acqua al mulino di Marx.
Il travolgente progresso scientifico della seconda metà del novecento ha infinitamente allargato le possibilità e le varietà (direi persino le qualità) del crimine e quindi ha esponenzialmente elevato il numero di coloro che attorno al crimine ruotano, sia come complici sia come avversari. Porto qualche esempio: si pensi a quanti e variati crimini oggi si possono commettere attraverso il telefono o meglio attraverso Internet (pedofilia, pornografia, vendita d’armi e di veleni, spaccio di droghe, truffe, ecc.). E quanta facilità di spostamento da una parte all’altra del mondo c’è oggi per un criminale. E quante truffe si fanno attraverso le televendite? E a proposito di televisione: non se ne fa un uso criminale quando attraverso di essa si mostrano false prove per scatenare una guerra?
Lasciamo perdere, l’elenco si allungherebbe a dismisura.
Infine, c’è un’affermazione di Marx che tra tutte è quella che ho trovato più stimolante ed è quando sostiene che il delinquente produce “arte, bella letteratura, romanzi e perfino tragedie”. Che produca romanzi non c’è dubbio e un Marx redivivo certamente gongolerebbe davanti all’odierno diluvio di romanzi polizieschi, noir, gialli, horror, giudiziari, spionistici e via di questo passo. E confesso che mi piace assai di più questa concezione attiva e produttiva di quella sterilmente estetizzante di De Quincey nel suo L’Assassinio come una delle belle arti, del 1827.
Mentre leggevo proprio queste righe sul delinquente come produttore d’arte, m’è tornata prepotentemente alla memoria una splendida immagine cinematografica. Il volto intensissimo e l’espressione ironica e divertita di Orson Welles nel film Il terzo uomo di Carol Reed (1949) quando dice a Joseph Cotten una battuta divenuta leggendaria. E’ suppergiù questa: "Prendi, per esempio, l’Italia. Ha avuto secoli di guerre, morti, sangue, rovine, assassinii, e cosa ne è venuto fuori? Il Rinascimento. Prendi la Svizzera. Secoli di pace, tranquillità, serenità, armonia…E cosa ne è venuto fuori? L’orologio a cucù".
1 commento:
Gli Stati Uniti, a conferma della tesi di Marx, si lasciarono alle spalle la crisi economica iniziata negli anni Trenta grazie all'entrata in guerra e, in seguito, intervenendo nella ricostruzione dell'Europa...
Non c'è "affare" più consistente di una guerra e non c'è orrore più grande. Però perché non investire nella ricerca potenziando ospedali, fornendo servizi alle donne (asili per i bambini, aiuti per gli anziani)mettendole nella condizione di lavorare senza affogare nei problemi e nei sensi di colpa?
Forse perchè il male esercita una sua inconfessabile attrazione sull'essere umano?
Ho sempre avuto il dubbio che non fosse caratteristica di pochi ma presenza inquietante all'interno di ognuno di noi... Non ho mai creduto al "raptus" , ma allo scatenamento di quella parte di noi che abitualmente, con l'educazione, la cultura e, peché no anche l'amore! - teniamo a freno
...
Posta un commento