4.6.10

Baroni e ladroni (di Roberto Monicchia - "micropolis" settembre 2005)

Cornelius Vanderbilt
La recensione di Roberto Monicchia (dio ce lo conservi!) è un appuntamento fisso di "micropolis". Questa è stata pubblicata nel settembre del 2005 e, con un titolo lievemente diverso, è entrata nel bel volumetto della collana "I Pamphlet" che tali recensioni raccoglie: Il mondo a pezzi, Crace-Giada, Perugia, 2005. Come sempre non è solo una recensione, ma una ricognizione che consente l'individuazione di un problema, storico, teorico o politico. Qui si parla del modello economico statunitense, del capitalismo "deregolato" e nondimeno ultraprotetto che accompagnò la nascita della grande potenza USA. Chi legge si accorge, man mano che procede, che non si parla di cose antiche, fino alla citazione finale, del commodoro Vanderbilt.

Fra il 1865 e l’inizio del ‘900 l’economia statunitense ha un impetuoso sviluppo, alimentato dall’immigrazione di massa e della colonizzazione del west, che fa degli Usa una potenza capitalistica di dimensioni mai viste, pronta al ruolo mondiale del XX secolo. Ferrovie, carbone, petrolio, derrate alimentari, sono i settori di punta, accanto ad una vertiginosa crescita del mercato finanziario e delle dimensioni societarie.
Gli spregiudicati magnati protagonisti di questa grande corsa sono descritti in questo celebre libro del 1934, solo adesso disponibile in italiano, che li ha consegnati alla storia con il titolo di robber barons (Matthew Josephson, Capitalisti rapaci, Orme editori, Milano 2004). Da Cornelius Vanderbilt a Jay Gould, da Jim Fisk a Pieropont Morgan, da Andrew Carnegie a John Rockefeller, questi profeti dello sviluppo e del mercato, banditori della corsa all’ovest e dell’immigrazione, attori di operazioni di borsa mirabolanti, conducono il capitalismo americano attraverso le diverse ondate di crescita e depressione ad una conformazione fortemente monopolistica. La guerra civile è il loro trampolino di lancio: prima di tutto fornisce una serie di occasioni di impiego della spesa pubblica, dai prestiti al tesoro alle forniture all’esercito, che permettono un’accumulazione consistente e costruiscono un circuito di relazioni e connivenze tra poteri pubblici e magnati. E’ ciò che consente a questi ultimi di partire da una posizione di vantaggio pressoché incolmabile nella corsa all’Ovest che si apre subito dopo la guerra, e che in un periodo di tempo brevissimo (1865-1872), realizza un balzo produttivo sbalorditivo, paragonabile all’industrializzazione sovietica degli

anni ‘30.

Mentre l’Homestead act apre la strada della frontiera a masse di contadini e immigrati, gli arricchiti di guerra si buttano a capofitto nell’affare del secolo – le ferrovie - puntando dal nord, dal centro, dal sud della restaurata Unione in direzione del Pacifico. Anche in questa operazione il governo federale e quelli statali identificano il progresso con i favori ai costruttori d’assalto, concedendo interi territori a titolo quasi gratuito e leggi ad hoc. Si genera così un gigantesco trasferimento

di ricchezza e di potere a favore dei baroni, che realizzano una vera e propria forma di accumulazione feudale (come sottolinea Veblen nella sua Teoria della classe agiata), fondata cioè sulla forza e sulla collusione. La furibonda lotta tra le compagnie ferroviarie è basata sull’accesso ai privilegi, e instaura un sistema di potere economico pressoché inattaccabile, basato su un duplice meccanismo. Da un lato le società di gestione si espandono (a partire da risorse pubbliche concesse con larghezza) con il ricorso sistematico all’”annacquamento” dei capitali, con cui scaricano sugli azionisti i rovesci di borsa. Dall’altro le costruzioni ferroviarie - che procedono in maniera del tutto irrazionale - recuperano il peso di gestioni antieconomiche con tariffe escluse da ogni regolazione. Il sistema si estende progressivamente a vari settori manifatturieri. Le voci di denuncia e le rivolte operaie contro le prepotenze dei baroni trovano un’eco solo durante le acute fasi di crisi, il cui effetto principale è la selezione dei più forti operatori di ogni settore.

Così, nel clima di “febbre da sviluppo” che coinvolge milioni di persone, la tendenza alla concentrazione produttiva e finanziaria avanza in tutte le sue varianti: dagli accordi tariffari segreti ai cartelli di vendita, dal trust verticale alla holding finanziaria. Gli esempi più cospicui sono la costellazione finanziaria di Morgan, l’impero dell’acciaio e del carbone di Carnegie, la Standard Oil di Rockefeller, che unisce estrazione, raffinazione e distribuzione del petrolio.

All’inizio del XX secolo questo processo è consolidato. E’ vero che un ennesimo crollo borsistico porta, durante la presidenza di Theodore Roosevelt, a una famosa sentenza contro i monopoli della Corte suprema; fatto sta che il capitalismo americano resta fondato sulla miscela di oligarchia e progresso tecnico almeno fino alla crisi del ‘29, che un altro Roosevelt affronterà anche con una rigorosa legislazione antitrust. Pur con i suoi difetti di costruzione, il libro di Josephson ha la qualità degli affreschi balzacchiani, e riesce a tradurre narrativamente le teorie di Marx, Weber, Schumpeter: i magnati che pregano fervorosamente prima e dopo aver truffato clienti, azionisti e politici; la corsa sfrenata a nuove acquisizioni, svincolata da ogni logica “produttiva”; l’oscillazione tra spirito di innovazione e rendita monopolistica, restituiscono plasticamente le figure concettuali dell’etica protestante, dell’imprenditore-innovatore, dell’accumulazione originaria.

Scritta nel pieno della grande depressione, l’opera si presta a diversi paragoni con la situazione odierna. Un primo elemento da considerare è il dibattito sui limiti “sociali” all’azione delle imprese, che oggi ritorna con l’etichetta di corporate governance. Un’altra analogia è nella capacità di fornire un’immagine della situazione del tutto diversa dalla realtà, ovvero nel saper fare ideologia. Proprio come i “baroni”, Kenneth Lay, il presidente della Enron, propagandava il libero mercato con afflato religioso, mentre stroncava la concorrenza, truffava gli azionisti, organizzava l’elezione di Bush. Non si tratta solo di “falsa coscienza”, ma di una costruzione ideologica coerente, che considera la “legge del più forte” il motore economico ed etico della società.

La storia dei robber barons sfata alcuni luoghi comuni diffusi nell’analisi del modello economico statunitense. Prima di tutto l’idea di un capitalismo “originario”, libero da posizioni precostituite: gli enormi profitti della guerra civile tendono a definire una vera e propria aristocrazia industriale e bancaria, chiusa e impenetrabile, che assume anche i tratti esteriori della “nobiltà”. Altro mito da rivedere è quello del “capitalismo democratico” delle public company; tra i meccanismi che consentono le rapide fortune dei baroni vi è certamente il ricorso a fantasiosi strumenti finanziari

che coinvolgono masse enormi di azionisti. Questi ultimi, attirati dalle ondate di entusiasmo, sono poi abbandonati nella risacca delle crisi, da cui i baroni emergono più ricchi e potenti. In altri termini il capitalismo diffuso diventa un fattore di mobilitazione di risorse in favore dei monopoli. Si arriva così al paradosso per cui il capitalismo statunitense, il più avanzato tecnicamente, quello che dispone di maggiori risorse di territorio e materie prime, ha una struttura di potere più simile del capitalismo europeo al sistema feudale.

A questo proposito, Giuseppe Turani nell’introduzione, dopo avere sottolineato come il capitalismo non sia mai un pranzo di gala, poiché lo sforzo di accumulazione necessario al “salto” sprigiona spinte violente difficilmente controllabili, commisura la maturità dei diversi sistemi capitalistici alla capacità di reagire a queste spinte. Ciò rende impietoso il confronto tra gli Usa, dove la stagione dei robber barons provocò una seria legislazione antitrust, e l’Italia, che ha reagito a Tangentopoli con la depenalizzazione dei reati societari.

Tale conclusione rivela solo una parte di verità: non solo negli ultimi vent’anni la legislazione antitrust è stata quasi del tutto smantellata negli USA, ma, a livello internazionale, la capacità di sfuggire ad ogni controllo appare uno dei punti cardine del capitalismo post 1989.

L’epopea dei “baroni” rivive a livello globale, con effetti altrettanto globali di disordine sociale e incertezza “sistemica”, che ripropongono il dilemma dell’efficacia della razionalità capitalistica. Sulla bocca dei baroni di oggi sembra risuonare l’antico motto del commodoro, Cornelius Vanderbilt: “Perché dovrei occuparmi della legge? Non ho forse il potere?”.

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