Leggo la traduzione, recentemente ristampata, che Clemente Rebora fece, una trentina di anni addietro, di un grande racconto di Tolstoi: “La felicità domestica”. Traduzione, dice l’editore, bellissima, “frutto di un incontro unico e irripetibile, fra uno scrittore grande come Tolstoi, colto nel momento in cui era giunto nella vita ad un approdo provvisorio e sereno di equilibrio…e un poeta come Clemente Rebora, anche lui in un momento particolarmente felice di equilibrio, ed al culmine di una educazione finissima di vita e di letteratura, prima di una svolta, e di una più intima e segreta vicenda”. La svolta cui la nota allude, la vicenda, è stata quella che ha portato Rebora a vestire la tonaca di scolopio o di servita, non ricordo bene; ma è di ciò che qui mi importa. Voglio confessare invece una cosa: che la bellissima traduzione mi ha dato un certo disgusto: “Da ogni parte più intensamente si espanse il profumo dei fiori: copiosa rugiada l’erba irrorava: un usignolo non lungi, nel folto delle serenelle, prese a ciangottare, e udite le nostre voci, si tacque: stellato il cielo quasi fosse disceso su di noi”. “Non appena mi sono avvicinato a voi, dopo tutto quel polverio, caldo, sfaticare, ecco venire un alito di mammola. E non della violetta olezzante, ma di quella primaticcia, brunettina, che odora di nevicella fusa e d’erba primaverile”. E saranno senz’altro di Tolstoi queste serenelle, queste mammole, questa nevicella; ma alitano un Pascoli di seconda mano che con Tolstoi non ha niente, proprio niente, a che fare. E il racconto prende un che di lezioso, di cinguettante, per cui si finisce col rimpiangere di esserci imbattuti in questa bellissima e poetica versione, invece che in una dura, grigia, anonima e magari sgrammaticata traduzione. Perché Tolstoi è uno di quegli scrittori che non può essere distrutto da una brutta traduzione (e nemmeno da una sceneggiata televisiva, come abbiamo visto), ma da una traduzione bellissima sì.
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