4.6.10

Senza aureola. Walter Cremonte spiega Dino Frisullo.

Ricordiamo bene come allo sconforto per la morte tanto prematura di Dino Frisullo, all’inizio della scorsa estate, erano seguite da più parti lamentazioni, sia pure sottovoce, per l’apparente freddezza della città di Perugia verso uno dei suoi figli più cari e più nobili. Era apparsa quasi un’assenza di pietas.

Dobbiamo ora riconoscere che s’è trattato di un falso allarme: c’è stata prima l’apposizione di una lapide (“A Dino Frisullo - pacifista rivoluzionario”) sul muro che segna il punto di partenza storico della marcia della pace; poi un gesto dal valore simbolico forse ancora più grande: la messa a dimora in suo onore di un albero, uno splendido ulivo, nel bosco didattico di Ponte Felcino, a un passo dal Tevere, a metà strada tra un asilo nido e una scuola elementare; il luogo giusto dove crescere e durare, per un bambino come per un albero, la memoria.

Ma la cosa più importante, più capace di consolarci doveva accadere su un piano più ampio, con la ripresa del dibattito intorno ai temi su cui Dino ha lavorato e si è battuto fino alla fine; e ciò grazie soprattutto alla pubblicazione e alla distribuzione capillare (con “il manifesto”, “Liberazione”, “Carta”) del libro Con lo sguardo delle vittime, Edizioni Alegre, 2003, che raccoglie suoi scritti, quasi tutti piuttosto recenti, su “guerre, migrazioni, solidarietà”: dal settembre 1997 (sul naufragio “fantasma” del Natale 1996 nel mare di Sicilia, in cui morirono almeno 289 clandestini) al novembre 2002 (la denuncia degli orrori nei nuovi lager per migranti “rastrellati e deportati” – i così detti Centri di permanenza temporanea - dove non solo la polizia, ma anche gli operatori civili hanno a disposizione bastoni: “Se questa è umanità...”), passando per la situazione disperante degli esuli kurdi, in fuga da una guerra contro il loro popolo e ostaggio delle mafie di mercanti di armi, droga, uomini (che “calcolano anche, forse, una quota di merce a perdere”); e poi, naturalmente, per la vicenda di Ocalan, su cui pesa l’ombra di una vergogna che è tutta della nostra sinistra riformista...

“Cerco di tenere a freno la rabbia e lo scoramento e di ragionare freddamente. Ma non è facile” - scrive a un certo punto Frisullo (sta ragionando sugli effetti della Bossi-Fini e sull’insufficienza della risposta da sinistra), ed è incredibile come riesca a comunicare al lettore questa complessità sentimentale e intellettuale; anzi, vorrei dire, come riesca a trovare dentro il suo lettore, e a ridestare, questo grumo rappreso di oscuri rimorsi, inadeguatezza, sperdimento e insieme di fiducia (per forza dobbiamo avere fiducia) nella capacità dell’analisi e dell’impegno.

Bisogna leggerlo questo libro di Dino, per cogliere quel filo rosso che lega gli avvenimenti nel loro drammatico, quasi insostenibile svolgersi e la riflessione puntuale, incalzante, sempre sul campo. Quel filo rosso - come scrive nell’Introduzione Anna Maria Cottone - è “l’approccio di Dino, il suo modo di leggere le contraddizioni della nostra epoca, l’epoca della globalizzazione”. E in che cosa consista questo approccio lo spiega lo stesso Frisullo: “Ora, per riprendere il filo della lettura del mondo c’è un solo modo: mettersi dalla parte delle vittime. Guardare il mondo con i loro occhi. Gli occhi dei profughi, dei discriminati, degli incarcerati, degli affamati. Ma questo non è possibile se, anche solo, non si condivide una parte della loro vita”. A togliere a queste parole ogni ombra di genericità (sia pure “eroica”) provvede ancora la Cotone, proponendo di individuare nel corso degli anni 90 il momento in cui matura questa convinzione e il nuovo impegno di Dino: “Quando l’inizio del crollo del vecchio ordine mondiale e con esso il ridisegnamento dei confini di molti Stati -nazione ha cominciato a rendere visibile all’Occidente capitalista quella massa di diseredati, che in realtà è proletariato, forza lavoro a buon mercato, sprigionati dalla crisi dei paesi di, allora, nuova industrializzazione e impoveriti dalla globalizzazione”. Questa considerazione ci permette, intanto, di rimettere le cose sui loro piedi, togliendo quell’ambigua aura di santità che pesa sul capo di Dino a causa di interpretazioni spesso superficiali (e non importa molto se benevole o malevole) del suo operato, volte a sottolineare un generoso ma indifferenziato attivismo, quasi per farne qualcosa di unico e irripetibile nella sua astrattezza e disarticolazione dal reale, e non a cogliere la precisa analisi di classe che ad esso è intimamente legata. E’ l’analisi concreta della situazione concreta, non solo l’indubbio spessore morale, la grande umanità del compagno Frisullo, a dettare parole

come queste: “Sradicato con violenza dal suo ambiente, ridotto a merce nell’anticamera dei trafficanti, a profugo nella stiva di una nave, a postulante nelle questure o nelle mense del volontariato, l’esule vive doppiamente l’esperienza dell’estraniamento. Non ha minimamente scelto di vivere nella società in cui è stato scaraventato”. E a dare qualche indicazione molto precisa: “Alcuni decenni fa la sinistra faceva un punto d’onore l’ospitare, proteggere, aiutare i cileni o i palestinesi in fuga. Anche a costo di sfidare le leggi. Forse a questo dovremmo tornare”.

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