26.9.10

Prospettive a sinistra. L'articolo della domenica.

Parigi 1936, Sciopero dei lavoratori edili al Bois de Vincennes
Sabato sera nell’accogliente sede di Vivi il Borgo, in via Garibaldi a Perugia, s’è svolta un’affollata tavola rotonda sul tema Crisi politica e prospettive a sinistra, cui mi è accaduto di essere invitato e di poter dire la mia. Era  parte di una due giorni di seminari e di dibattiti organizzati da tre piccoli gruppi di “resistenti”, i cui nomi fanno tutti riferimento alla sinistra (Associazione per la sinistra, Sinistra unita e plurale, Sinistra critica). Ad animarli sono ottimi compagni, militanti generosi e onesti che ne hanno sopportate tante ora da questo ora da quell’altro gruppo dirigente nazionale o locale e che tuttavia, quando si tratta di raccogliere firme per l’acqua pubblica o di solidarizzare con la Fiom, sono sempre in prima fila a organizzare banchetti, a distribuire volantini, a dire la propria nei capannelli.
Le tre associazioni sono quasi interamente frutto di una frantumazione recente seguita alle scissioni di Rifondazione comunista. Ma a guardare nella locandina dell’annuncio il numero degli interventi programmati si avvertono i segni di un processo di frammentazione che “viene da lontano”: dieci (o undici) oratori, tutti in rappresentanza di soggetti diversi e con la presenza di due “vecchie glorie”, la Salvato che un tempo Ingrao chiamava Ersilietta e Franco Russo, già rosso trotzkista, poscia verde ecologista e oggi democratico costituzionale.
La saletta della benemerita associazione dell’antico borgo popolare perugino era piena, una cinquantina di persone. Età media 50 anni, forse più. A dare il carattere di una riuscita, eppure melanconica, rimpatriata tra reduci è stata anche la scelta, felice ed infelice insieme, di far precedere il dibattito dalla riproduzione di un celebre pezzo di Gaber, del 91, Qualcuno era comunista, accompagnata dalla visione in sequenza di una serie di care immagini: la Resistenza, il 68, Berlinguer, Che Guevara, le lotte operaie eccetera eccetera. Quello di Gaber (e Luporini) è un monologo assai bello, che con la tecnica dell’enumerazione caotica indica i molti modi e le tante diverse ragioni per cui si era comunisti e celebra la fine di un sogno collettivo, quello di “cambiare la vita”. Ha avuto nell’occasione l’effetto collaterale che produce ogni sollecitazione della nostalgia: quello di disarmare gli animi animosi, di renderci tutti più buoni, comprensivi, tolleranti e un po’ stupidi. Quell’ascolto e quella visione avevano comunque il pregio di svelare il carattere “eufemistico” che ha acquisito oggi in certi ambienti il termine “sinistra”, spesso utilizzato a dire o a rappresentare il “comunismo”, parola interdetta e, ancor più, idea improponibile, cui si suole tutt’al più alludere, per esempio quando si parla di “beni comuni” o quando si valorizza l’essere o l’essere stati “comunità”.
Il dibattito si è concentrato sulla crisi della cosiddetta “sinistra” e mi è sembrato buono, specialmente negli interventi di base, giacché l’ex deputato e l’ex senatrice sembravano inaciditi dai risentimenti (per “buono” intendo “senza cattiverie”, ma non necessariamente produttivo). Il paradosso era che, con l’eccezione degli interventi meno “politici” (sui circoli culturali o sull’associazionismo cittadino), tutti dicevano “andiamo avanti e scordiamoci il passato”, ma tutti di quel passato rivendicavano alcuni momenti diversi e migliori . Deve essere accaduto anche a me, che mi sono soffermato più di un minuto a rievocare il tentativo generoso e contrastato di Garavini di rifondare il comunismo a partire da una “buona continuità” con il Pci.
Un altro punto comune nella discussione era il discredito generalizzato che sembra circondare i piccoli apparati dei partiti istituzionali d’estrema sinistra, Prc e Sel: qualcuno li vede come il peggiore ostacolo alla rinascita di una sinistra decente. Con accenti diversi tutti sembravano dire che la ricostruzione di una pratica politica e di un pensiero di sinistra, se mai avverrà, si farà a partire dalle lotte dei soggetti sociali tuttora in campo  (la Fiom, i precari della scuola, i ricercatori dell’Università), dalle battaglie del mondo associativo (l’acqua pubblica), da un’elaborazione di circoli, giornali, gruppi di ricerca che si mettono in rete e confrontano le proprie esperienze, e non attraverso la fusione dei partitini. Pure si avvertiva nell’aria un bisogno forte di “partito”, di una struttura capace di dare impulso e senso alla militanza.
Le idee su cui io ho insistito nell’intervento che ho fatto mi sembrano “discorsi al vento”, ma le riporto in forma di domande e di risposte come convinzioni forti, da cui non so e non voglio prescindere.
Che cos’è “la sinistra”?
A me la parola non piace. Sarà che sono saturo di cognizioni storiche, ma io collego il termine alle sue origini, alla collocazione dei rappresentanti della democrazia sugli scanni parlamentari nel primo Ottocento francese. Insomma "sinistra" è un termine legato al progressismo borghese e all'istituzione parlamentare: una “sinistra extraparlamentare” mi sembra perciò un ossimoro oppure una condizione negativa da superare. Propriamente non c'è "sinistra" fuori dal Parlamento; tutt'al più c'è una sinistra che si trova per  debolezza o per le leggi elettorali fuori dal Parlamento, ma  aspira a entrarci o a ritornarci.
Il socialismo, il comunismo, come soggetti storici legati alla lotta di classe e al movimento operaio, erano una “sinistra” che andava oltre la “sinistra” parlamentare e si faceva promotrice di una battaglia a tutto campo che utilizzava il Parlamento, le istituzioni locali, i movimenti sindacali, la cooperazione, l’educazione per trasformare alle radici la società. E qui non importa davvero se la trasformazione dovesse avvenire per un moto graduale di riforma o per effetto di una rottura rivoluzionaria.
La chiave di questa trasformazione era per i socialisti e per i comunisti la fine della proprietà privata dei mezzi di produzione, fonte di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e la fine del privilegio ereditario; l’obiettivo era di socializzare e mettere in comune tutta la ricchezza sociale, dalle risorse naturali alle conquiste della scienza e della tecnica. Non mancava chi pensava che la nuova società non potesse essere assolutamente egualitaria e dovesse remunerare il merito e l’impegno anche con il possesso di beni, ma non certamente con la proprietà ereditaria.
Non tutto era chiaro, anzi ben poco lo era, sulle modalità in cui, nel nuovo mondo per cui gli sfruttati lottavano, si sarebbe organizzata la produzione della vita materiale, ma nitido era il disegno di un mondo senza servi né padroni, senza proprietari e nullatenenti.
Oggi molti di quelli che si considerano eredi del socialismo e del comunismo locuzioni nette come “abolizione della proprietà privata” non sono capaci di pronunciarle, e si limitano ad alludervi. Con una sorta di autocastrazione, accettano di chiamarsi “sinistra”.
Perché accade tutto ciò?
Perché è caduto nel fango e nella vergogna il progetto di comunismo del XX secolo, quello inaugurato dalla Rivoluzione d’Ottobre e che aveva mosso alla lotta e alla speranza milioni e milioni di donne e di uomini in tutto il mondo. Non parlo soltanto della componente maggioritaria di questo grande movimento, della Terza Internazionale staliniana e dei partiti e sindacati che ne furono eredi, parlo di un movimento più vario che comprendeva anche i critici più radicali dello stalinismo. C’è oggi nelle masse popolari, in Italia e altrove, una sfiducia generalizzata nell’azione collettiva che è conseguenza di questa storia e che in Italia sembra aver trovato conferma nelle scelte politiche, negli arricchimenti, negli stili di vita e nei piccoli opportunismi di quelli che furono dirigenti del movimento operaio socialista e comunista e di quelli che se ne proclamano oggi eredi. E' tornato tra i lavoratori l’ “ognun per sé” e le stesse lotte sociali raramente vanno al di là dei ristretti orizzonti sindacali. Io credo che non ci siano prospettive di rinascita finché continuerà la rimozione e non si saprà elaborare non tanto il lutto, ma una spiegazione credibile e una risposta in avanti, cioè un’idea di società.
Non so trovare la parola giusta: “socialismo” e “comunismo” sono usurate (la seconda più della prima), “sinistra” non la trovo appropriata (è di sinistra anche Pannella); ma penso che il mondo abbia bisogno di un nuovo grande movimento di donne e di uomini che innalzi come bandiera l’uguaglianza e metta in discussione i rapporti di produzione, il rapporti tra i sessi e i rapporti di proprietà. Quale che ne sia il nome, bisognerà che noi reduci, con la testimonianza, la memoria, la ricerca e l’impegno di base,  aiutiamo questo movimento a nascere in Italia e nel mondo, senza provare a metterci alla testa.
Perchè Vendola?
Perchè intanto, in politica, abbiamo bisogno di una “sinistra larga”, di una rappresentanza parlamentare e istituzionale ampia capace di frenare il violento attacco ai diritti sociali e con cui dialetticamente interloquire. La capacità di leadership e di comunicazione di Vendola ha messo in moto energie nuove, giovanili, e rimotivato tanti disillusi. Forse  quella che oggi Vendola ci propone (e meno che mai, quella di Sel) no è la “rifondazione” di cui noi vecchi compagni comunisti e socialisti, dei tanti filoni e delle tanti correnti, sentiamo la necessità, ma è uno spazio dialettico, garantito dal fatto che sulle questioni fondamentali (i diritti sociali, il lavoro, i diritti civili) il “ragazzo di Puglia” tiene il punto. Vuole candidarsi a premier attraverso le primarie e spera di vincere le elezioni. Non sarebbe male che ci riuscisse ed è l’unico che, nella situazione data, ha qualche speranza contro Berlusconi. In ogni caso la sua candidatura va appoggiata.

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