Nel 1971 un saggio di Umberto Eco, dal titolo L’industria aristotelica, apriva l’Almanacco Bompiani del 1971 dedicato al feuilleton. Venne poi ripubblicato nel volumetto Il superuomo di massa, sempre per Bompiani, con un titolo nuovo: Le lacrime del corsaro nero.
Così si apriva: “Qualcuno, dopo la proiezione di Love Story, ha detto che bisognerebbe avere un cuore di pietra per non scoppiare a ridere di fronte ai casi di Oliver e Jenny. La battuta, come tutti i paradossi di tono wildiano, è superba. Purtroppo non rispecchia la verità. Infatti, qualunque sia la disposizione critica con cui si va a vedere Love Story, bisognerebbe avere un cuore di pietra per non commuoversi e piangere… E questo per una ragione semplicissima: che i film di questo genere sono concepiti per fare piangere. E dunque fanno piangere”.
Analisi perfetta, che rimetteva le cose a posto, contro la dissacrazione e il cinismo a buon mercato. Io trovo, tuttavia, che in Eco permanga, non esplicitato ma presente, un pregiudizio: piangere di fronte ad una bella storia sentimentale è inevitabile, ma è comunque una sorta di malattia, frutto di una debolezza della nostra umana complessione. Non ne sono convinto.
Lasciamo da parte il valore catartico delle lacrime: non è affatto detto che brucino e purifichino le nostre passioni. Certo è che sono un’espressione di vitalità e, in questi limiti, danno piacere. Io credo che valga tuttora, a questo proposito, l’estetica settecentesca del sensismo e la moderna formulazione che ne diede nel secolo successivo Leopardi. Le arti hanno come scopo, tra gli altri, la stimolazione della sensibilità. La finzione artistica produce sensazioni (e sentimenti, quando siano intellettualizzate), paura, gioia, dolore, compassione, che hanno a che vedere con nervi e ghiandole, con la nostra materiale fisicità e contribuiscono a riempire la vita. La mancanza di sensazioni è “la noia”, che è vita priva di vitalità. Del “piacere delle lacrime” da lui stesso provato dopo una lunga insensibilità, Leopardi scrive in una lettera al fratello, credo del 1823, che racconta la sua visita al sepolcro del Tasso, un vero capolavoro. Insomma, le lacrime non sono un malanno, ma una grazia del cielo.
Pure, in certi momenti storici, ci si vergogna delle lacrime e si ostenta disprezzo per letture, musiche, film che aiutano a piangere. E’ cosa, anche questa, giustificata. Soccorre anche in questo caso Umberto Eco: le sensazioni e i sentimenti stimolati dall’arte possono avere una funzione oppiacea, possono diventare “consolazione” addormentando la coscienza. Ed è inevitabile pertanto che nei punti alti di una storica “presa di coscienza” i prodotti artistici sentimentali vengano rigettati e i più tentino di corazzarsi contro le emozioni da essi indotti. Poi si scopre che non è affatto necessario e che il piangere al cinema, leggendo un libro o ascoltando una canzone, non è azione riprovevole e non attenua necessariamente la capacità di criticare le ingiustizie del mondo e di combatterle.
Love story libro arrivò nel 1969, il film (sceneggiato dall’autore) l’anno dopo e fece piangere, tra gli altri, tutti quei giovani studenti e operai che lottavano per un mondo migliore. Non attenuò affatto le loro capacità di critica e migliorò la loro capacità d’amore. E di amore nelle rivoluzioni, culturali e non solo, ne serve tanto. E’ per penuria d’amore che il più delle volte sbandano, falliscono e muoiono.
Sono queste le ragioni che mi hanno indotto a proporre qui l’elzeviro commemorativo dell’autore di Love Story, Erich Segal, che Elena Loewental ha scritto per “La stampa” del 20 gennaio di quest’anno, tre giorni dopo la morte dello scrittore. Ha come titolo Addio a Segal, amare significa piangere senza vergogna. Belli o brutti che fossero, questo insegnarono quel romanzo e quel film a tanti di noi. (S.L.L.)
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