2.9.14

Processo a Giuliano. La Corte di Viterbo in trasferta in Sicilia (Benedetto Benedetti)


CON I GIUDICI DI VITERBO SUL FEUDO INSANGUINATO

Nelle canzoni popolari siciliane 
echeggia il tragico interrogativo 
sui mandanti della strage.

La corte ha terminato i suoi sopraluoghi 

Gaspare Pisciotta  parla con un avvocato al processo di Viterbo
Con la spedizione di oggi al feudo Trasacco, dove il campiere Busellini fu assassinato dai banditi che ritornavano dalla Portella la Corte d'Assise di Viterbo ha concluso il suo laborioso sopraluogo giudiziario in Sicilia. Per l'ultima volta questa mattina, alle 6, la lunga colonna delle autovetture di avvocati e giornalisti è partita rombando per la via di Monreale lasciandosi alle spalle la città addormentata dove circolavano solo gli strani lattai palermitani, conducendo lentamente per le cavezze le loro vacche fulve e scheletrite per andare a mungere, secondo l'usanza, il latte sulle soglie delle case dei loro clienti.
Monreale è il passo obbligato per arrivare a Trasacco; la topografia di questo luogo è la guida indispensabile e sicura per arrivare alla ricostruzione dei delitti di Giuliano e della sua banda: il luogo dove la Corte abbandona la strada per inoltrarsi nel feudo Lo Presto, dove fu ucciso Busellini, non dista più di mezz'ora di macchina da Villa Carolina, la casa dei Miceli, posta un po' fuori di Monreale dove si tennero i convegni dei banditi.

Paesaggio apocalittico
Poche decine di chilometri in linea d'aria ci separano dalla incantevole piana digradante sul mare, dove ieri siamo passati, attraversando i giardini di limoni ed i campi di grano, fitti di olivi secolari: e siamo già in pieno feudo, in un passaggio apocalittico, dominato da impervi roccioni calcarei, sparsi di pietrame tra il quale cresce a stento un grano duro, di montagna, e sorgono pochi alberi di mandorlo dall'ombra rada.
Sotto il sole implacabile la Corte ha faticato non poco a raggiungere il luogo dove Busellini fu visto passare per l'ultima volta dal contadino Giovanni Arrigo.
«Tre gruppi di banditi — ha detto il testimone — sbucarono ad un tratto dalla costa della collina che sovrasta il mio campo: stavo mangiando seduto a terra ed al vedere i banditi, mi appiattai ancora di più fra il grano. Passarono al limite della coltura prima tre, poi 4, poi 5 persone; nell'ultimo gruppo era Busellini. Non vidi altro».
Quello che non ha visto l'Arrigo è stato ricostruito nelle indagini dei carabinieri. I banditi raggiunsero un pozzo, poco distante dal feudo e, posta la loro vittima contro un muretto, la crivellarono di colpi, rovesciandola poi nell'umida tomba.
Un mese dopo, quando la polizia (forse per informazione dell'assassino, il Ferreri detto 'fra Diavolo') recuperò il corpo del Busellini, nella tasca del disgraziato campiere si trovò il fatale documento che aveva provocato la sua condanna a morte: un bigliettino, reso quasi illeggibile dalla azione dell'acqua: in esso un maresciallo della Piana dei Greci fissava al Busellini un appuntamento per il giorno seguente a quello della sua morte.
Undici uomini (oltre al Busellini) furono visti dall'Arrigo: Pisciotta ne ha nominati quindici. E gli altri quattro?
«Quelli andavano in macchina — ha risposto al Presidente l'avvocato Crisafulli — e portavano le armi. Sullo stradale si divisero in due gruppi: mentre il primo prese la strada della montagna in direzione di Montelepre, l'altro proseguì in automobile per la strada di Monreale».
Nella città dominata dalla mafia, il giorno del 1° maggio si correva la gara dei cerberi, i piccoli e velocissimi cavalli locali, e tutta la gente era ammassata ai bordi del corso principale dove si doveva svolgere la competizione. Invece, della sfrenata corsa dei cavalli senza fantino, la gente vide arrivare le autolettighe ed i camions carichi dei morti e dei feriti a Portella preceduti dall'urlo lugubre delle sirene.
E forse qualcuno avrà visto anche il misterioso jeppone che probabilmente precedeva le autolettighe e a bordo del quale erano Giuliano ed i suoi luogotenenti, reduci dal loro più nefando delitto. Ma quelli che aspettavano giù a Monreale e che potrebbero chiarire alla Corte più di un dubbio, non sono imputati nel processo per la strage di Portella della Ginestra. 
Dopo il faticoso, se pur breve sopraluogo, la Corte ritorna a Palermo presto, alle 10. C'è in giro un'aria di partenza con frettolosi saluti, strette di mano, arrivederci a Roma. La Corte dovrà riprendere le sedute mercoledì prossimo a Viterbo e quasi tutti i suoi componenti, escluso il Presidente, partiranno oggi insieme con gran parte dei giornalisti.

La festa di Santa Rosalia
La capitale siciliana è in festa per le onoranze a Santa Rosalia. La città brulica di gente venuta da ogni parte della Sicilia e che affolla le vie, animatissime, come in una domenica, per il « festino».
Ci aggiriamo incantati in questo meraviglioso andirivieni, tra venditori ambulanti che strillano, carrozzelle, gelatai, bambini che vendono gelsomini portando in giro la loro mercanzia raccolta in grandi mazzi dal profumo acutissimo e inebriante.
All'angolo di una strada un capannello con al centro un cantastorie. Le nenie del cantore popolare ci riportano di colpo alla realtà che avevamo dimenticato per un momento. Esso canta: i frati Ginovesi su accusati/comu li guardaspaddi di Giuliano. / Mannino e Cucinella su imputati. / P'ù stissu fatto Licari c'entrò! / Ora dico che Sciurtino / ch'è cugnato di Turìddu: /perchè proprio solo a iddu/ Stati Uniti nun mannasti? / Iddu li sapì i veri mandatari / e Licari i canusci sti signuri. / Ferreri e Sapienza su d'unuri. / Pir chìstu Gaspanni scatasciò! / Lu dramma è Viterbu, ma la farsa/ la fannu pri sollazzo l'awucati: / vonnu cantari, ma sunnu stunati».
Ecco la tragedia di Giuliano che prende il posto delle cantate delle gesta degli antichi paladini; è anche nella trasfigurazione del poeta popolare quell'interrogativo che assilla tutti: i mandanti? Intorno a noi non vediamo né il Presidente né i giudici popolari. Ma confidiamo che l'essere venuti in Sicilia abbia dato loro, oltre che quelle indicazioni che chiedevano ai luoghi che furono teatro della strage, anche l'impressione precisa di quello che il popolo siciliano pensa e si aspetta dal processo di Viterbo.

L'Unità, domenica 15 luglio 1951
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POSTILLA
BENEDETTO BENEDETTI, SANGUE ROMAGNOLO
Benedetto Benedetti in una posa da attore
L'articolo che qui ho ripreso da “l'Unità” riguarda il sopralluogo in Sicilia della Corte che a Viterbo, per legittima suspicione, fu chiamata a giudicare la banda Giuliano nel 1951, dopo l'uccisione del celebre fuorilegge. Ne è autore Benedetto Benedetti, figura di geniaccio di provincia di cui si trova qualche significativa traccia anche in rete.
Era nato in Romagna, a Perticara, “paese di lanterne magiche” (così lo chiamò) e di zolfo, aveva studiato, compagno di classe di Sergio Zavoli al Liceo Classico di Rimini. 
Dopo aver molto girato, è morto a Novafeltria, nel Riminese all'inizio di questo 2014, ottantanovenne.
Fu giornalista, scrittore prolifico (di testi generalmente incompiuti e inediti o autopubblicati, narrativi, storici, etnografici ecc.), fu sceneggiatore (lavorò con Fellini, con Florestano Vancini - per Bronte - e con altri  registi) e critico musicale di prima fascia; a quanto raccontano fu anche amatore appassionato e protagonista di vicende troppo inverosimili per essere del tutto inventate.
Sulla sua attività di cronista a “l'Unità” Benedetti scrisse quanto segue: "dopo le tristi vicende della guerra, a Roma redazione dell’Unità allora in Via Quattro Novembre. Non presi mai la tessera del partito, e nessuno me la chiese. Capo servizio d’infallibile intuito, Alfredo Reichlin, titolista nato: "Toghe sdrucite" in titolo di un articolo per una inaugurazione d’anno giudiziario; direttore il cordiale Ingrao; redattore capo un gran signore, riflessivo e triste, Maurizio Ferrara, padre dell’attuale direttore del "Foglio". La scuola dell’Unità ebbe tre cardini: il discorso di Togliatti per la morte di Stalin, il caso Don Camillo e il processo Pisciotta a Viterbo. Inviato a Palermo per documentarsi sul bandito Giuliano, ebbi la sorpresa: le fotografie di Pasquale Sciortino, il misterioso cognato del bandito Giuliano, date per introvabili, potevano essere comprate seguendo il canale giusto, con una certa facilità. Le coperte vie conducevano a una Sicilia che voleva dire Trinacria. Trasmisi un servizio riferendo i versi di un cantinpiazza che ripeteva esattamente le tesi del Partito Comunista sulla strage di contadini compiuta da Giuliano a Portella delle Ginestre e mi fu poi riferito che Reichlin smontò la prima pagina del giornale per pubblicarlo. Non so ancora oggi se è vero, ma quando me lo dissero, ne ebbi piacere. Il caso Chiaretti-Pajetta fu lo scontro fra radical-chic e un grande industriale della politica. La cosca intellettuale romana era stata unanime a rifiutare di immischiarsi nel film tratto dal romanzo "Don Camillo" di Guareschi, l’inventore dal “Candido” dei trinariciuti comunisti: la regia fu affidata a Duvivier, grandissimo professionista... Si formò la coppia storica Gino Cervi-Fernandel. Successo smisurato, ma l’ingualcibile Chiaretti che era anche critico cinematografico dell’Unità intitolò la sua recensione "Italia Offesa": Duvivier infatti, nazionalità e carriera francesi. Pochi giorni dopo, stessa collocazione, stesso rilievo, in apertura di terza pagina, Pajetta intervenne iniziando: «a me invece il film è piaciuto». Per il lupo di mare politico, il film traghettava il partito dal triangolo della morte ed altre facezie, alle facezie Cervi-Fernandel. Morto Stalin, Togliatti iniziò la sua commemorazione in Parlamento, con le parole «sono percosso, attonito». Scandalizzato, il poco perspicace, andò per lumi da un vecchio militante che aveva avuto in Russia qualche carezza stalinista: dopo i doverosi insulti del caso, egli lo esortò a meditare sull’interrogativo del cinque Maggio di Manzoni: «fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza». Era cominciata la destalinizzazione".  
Benedetti tentò una sua personale destalinizzazione con un film di cui fu soggettista, sceneggiatore e attore coprotagonista (con Helmut Berger), Sai cosa faceva Stalin alle donne? (regista Liverani). Vi si racconta la storia di uno che guardava a Stalin come esempio di virilità. Non piacque granché, per sua stessa ammissione neanche a Benedetti.
L'articolo qui postato, cui sono arrivato casualmente mentre consultavo l'archivio in rete de “l'Unità” , è proprio quello dedicato alla trasferta palermitana della Corte di Viterbo di cui Benedetti racconta. A me sembra che gli schizzi sulla Palermo degli anni Cinquanta e la rappresentazione del paesaggio tra la città e l'entroterra vadano oltre l'immancabile "colore locale". (S.L.L.) 

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