Pare che Giuseppe
Pontiggia, nel 1995, abbandonando per stanchezza non si sa quale
corso di scrittura creativa, affidasse a Laura Lepri un
dattiloscritto in cui si rifletteva sul lavoro dello scrivere, con
molto anticonformismo. Una parte di quelle riflessioni è stata
pubblicata nel 2009 in un volume di ricordo curato da Daniela
Marcheschi (Le vie dorate: con Giuseppe Pontiggia,
MUP),
una
parte di quella parte è stata pubblicata come anticipazione in una
“Domenica” de “Il sole 24 ore”, di cui riprendo qui un pezzo,
invogliato dalla qualità e dalla recente attribuzione – a sorpresa
- del Nobel per la letteratura allo scrittore francese Modiano.
(S.L.L.)
Mi avevano chiesto, anni
fa, un articolo sullo scrittore Jorge Luis Borges. Io avevo molta
resistenza a parlarne perché lo consideravo proprio un grande
autore, ma c'era in Italia la cosiddetta moda di Borges. E la cosa
che andavano ripetendo di lui era che meritava il premio Nobel. Ogni
anno c'era questo rito amplificato dai giornali: a Borges non viene
dato il Nobel. Questa era considerata un'onta, non si capiva perché
avvenisse.
Vi dirò la prima idea
che mi era venuta in mente. Tra l'altro, le prime idee sono in genere
le più deboli. Come diceva Franz Kafka: «Le prime idee sono
sbagliate». Si affronta il problema con un'eredità di luoghi comuni
che si affacciano alla memoria prima di ogni altra cosa. Quindi
bisogna metterli a distanza, lasciarli decantare.
L'idea che mi era venuta
era, appunto banalmente, che a Borges non si consegnava mai il Nobel.
Troppo ovvio. La retorica allora mi è venuta in aiuto. Scrissi: «Due
sono ogni anno i premi Nobel della letteratura: uno è quello che
viene assegnato al vincitore, l'altro è quello che non viene
assegnato a Borges».
Ma andiamo a vedere i
miei primi appunti. Come avevo cominciato? «Mi sono chiesto più
volte da cosa dipenda lo straordinario successo...». Cosa c'è
che non va in questo primo tentativo? «Mi sono chiesto...»
non va bene perché al lettore non interessa che io mi chieda,
«...più volte» è un'aggravante. E poi «...da cosa
dipenda lo straordinario successo...». Qui c'è un congiuntivo,
tempo che segmenta i lettori. Non per altro, il conduttore di una
trasmissione televisiva mi disse: «Io non uso mai il congiuntivo
perché mi diminuisce l'ascolto».
Tornando a Borges, la mia
prima versione continuava con «...da che cosa dipenda lo
straordinario successo...». Se avessi cominciato con una
disgrazia, avrei raccolto qualche interesse. Ma «lo straordinario
successo» già allontana buona parte dei lettori.
Vediamo un altro attacco
che ho scartato: «La tenacia con cui ogni anno l'Accademia
Svedese nega ogni anno a Borges...». Qui è una catastrofe
perché inizio con «La tenacia...». In Italia è una parola
infausta, soprattutto dopo che Vittorio Alfieri si legò alla sedia
per imparare i classici.
«...con cui
l'Accademia Svedese nega ogni anno...». Qui con una parola poco
simpatica (Accademia Svedese) porto il lettore in una problematica
che gli è completamente estranea.
Terzo tentativo scartato:
«Da almeno 3 lustri sono 2 i premi Nobel della letteratura...».
«Lustro» è una parola di derivazione classicistica che sta
per 5 anni, e ha una connotazione troppo letteraria. Quindi è come
una zaffata di gelido vento neoclassico che allontana incompetenti e
competenti. Perché i competenti che sanno il significato di
«lustro», capiscono trovarsi di fronte a un discorso di certi
scrittori classicheggianti. Quelli che passano le vacanze in Sardegna
sotto la tenda e dicono: «Ho trascorso un'estate con due
contubernali, sodali di gioventù». Questo tipo di linguaggio piace
a certe persone. È lontanissimo dai miei gusti, anche se sono
innamorato dell'antichità classica. Però questo linguaggio
classicheggiante lo trovo comico...
“Il Sole 24 ore
domenica”, 21 giugno 2009
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