Chiaro e puntuale è
l'articolo rievocativo di Galapagos (Roberto Tesi) per uno speciale
del “manifesto”, che nella sua brevità mi pare cogliere i
passaggi decisivi di un processo. (S.L.L.)
DONATO MENICHELLA (1896 - 1984) |
Si racconta che nel 1937
Donato Menichella, direttore generale dell’Iri, convocasse i
principali industriali italiani per cercare di trattare lo smobilizzo
(cioè la privatizzazione) di alcune imprese italiane finite in mano
pubblica a seguito della crisi del ‘29. Una delle aziende offerte
era la Timo, una delle compagnie telefoniche, ma la risposta degli
interlocutori fu «No grazie: è un settore senza futuro». Una
dimostrazione di cecità dei «padroni del vapore» per dirla con
Ernesto Rossi. Padroni abituati a fare affari unicamente con le
forniture allo stato e con i monopoli. E 50 anni più tardi, al
momento della privatizzazione della Telecom, i padroni si
dimostrarono altrettanto miopi. Salvo
poi scatenarsi per
impadronirsi (a debito) del colosso italiano delle telecomunicazioni.
Nasce l’Iri
Il fascismo si ritrovò
per le mani – a metà degli anni ‘30 - buona parte dell’industria
(e non solo) italiana. Tutto iniziò con la nascita dell’Iri -
Istituto per la ricostruzione industriale - nel gennaio del 1934.
Alla vigilia della seconda guerra mondiale controllava – oltre a
imprese storicamente pubbliche, come ferrovie e poste - ampie
porzioni dell’industria nazionale e del sistema creditizio, in
particolare nei settori ad alta intensità di capitale con imprese di
grandi dimensioni:
Vale la pena ricordare
alcune percentuali di questo controllo.
- 100% della siderurgia bellica (Terni, Ansaldo, Cogne)
- 40% della siderurgia comune
- 80-90% delle costruzioni navali
- 30% dell’industria elettrica
- 25% dell’industria meccanica
- 20% dell’industria del rayon
- 15% dell’industria chimica
- 15% dell’industria cotoniera
- 80% del settore bancario (con le tre principali banche italiane: Banca commerciale italiana, Credito italiano, Banco di Roma alle quali si aggiungevano le grandi banche di interesse nazionale).
Evidente come il capitale
privato, uscito massacrato dalla grande crisi, si era ridotto a poca
cosa.
Il miracolo
dell’economia pubblica
Il dopoguerra non porta
cambiamenti. Anzi. L’Iri si «allarga» ed espande la sua sfera di
intervento diversificando la propria presenza in molteplici settori
dell’economia italiana, ma soprattutto assumendo un ruolo
fondamentale nella politica economica: le partecipazioni statali
diventano infatti protagoniste dei nuovi complessi obiettivi delle
politiche keynesiane e di indirizzo del mercato (riequilibri
settoriali, riequilibrio nord-sud, gestione anticiclica della spesa
pubblica), fino all’assunzione di obiettivi generali come la
politica dell’occupazione e di investimenti in localizzazioni
industriali svantaggiose.
Sulla strada della
modernizzazione e della competitività del sistema industriale sono
molto importanti i risultati conseguiti nel settore siderurgico a
ciclo integrale e le prime realizzazioni nel settore energetico. Nel
1950 viene avviato il programma per la costruzione della rete
autostradale con la costituzione della Società Autostrade, viene
potenziato il settore navale e quello telefonico. Inoltre si creano
nuovi campi di attività diretta: la radiotelevisione con l’Eiar
(che diventò poi la Rai), i trasporti aerei con l’Alitalia e la
produzione del cemento con la Cementir. Di più: nel 1953 viene
creato l’Eni (Ente nazionale idrocarburi) con il quale Enrico
Mattei puntava all’indipendenza energetica del paese. Nella seconda
metà di quel decennio l’intero sistema delle partecipazioni dello
Stato venne coinvolto nel programma di sviluppo del Mezzogiorno:
furono avviati nuovi impianti siderurgici a Taranto, una nuova linea
dell’Alfa Romeo a Pomigliano, nuovi investimenti nelle industrie
meccaniche, cantieristiche e dell’ingegneria impiantistica.
Purtroppo i risultati non furono quelli sperati: la dicotomia con il
Nord cresceva.
Il «miracolo» italiano
fu, copmunque, soprattutto opera dell’economia pubblica e
dell’economia mista. Le Ppss rompono progressivamente il cordone
ombelicale che le legava alla Confindustria. Inizialmente (il 22
luglio del 1954) con una direttiva del governo che vieta ai vertici
dell’Iri di assumere incarichi nell’organizzazione
confindusriale; la tappa successiva (il 22 dicembre del ‘56) fu la
nascita del Ministero delle Partecipazioni statali. Infine nel 1958
si diede vita all’alternativa della Confindustria: l’Intersind,
la Confederazione sindacale delle imprese pubbliche. Intanto, sempre
nel 1954, l’Eni di Mattei rileva la Pignone che poi sarà ceduta
alla General Electrics. Nel 1958 vengono creati tre nuovi enti di
gestione statale: l’Eagat (per le aziende termali), l’Egam (per
il settore minerario) e l’Eagc (per il cinema). Nel 1960 Enrico
Mattei pressato da Giorgio La Pira (come nel 1954 per la Pignone)
rileva le Officine Galileo di Firenze (settore ottico) dalla Sade
(responsabile della strage del Vajont) che voleva licenziare oltre
900 dipendenti. Nel 1962 il sistema pubblico si allarga ulteriormente
con la nazionalizzazione dell’industria elettrica. Le attività
dell’holding Sme (Società meridionale di elettricità) vengono
trasferite dall’Iri all’Enel e la Sme inizia a assumere
partecipazioni nel settore alimentare.
A metà degli anni ‘60
l’Iri è uno dei principali gruppi europei ed è al terzo posto in
Italia (dopo Fiat e Montedison) per utili netti. Si autofinanzia
grazie agli utili elevati e ai prestiti obbligazionari.
Nel 1965 l’Iri cede
alla Montecatini (in mano ai privati) la Edison: nascerà la
Montedison, seconda società italiana per dimensione dopo la Fiat.
Primi segnali di
crisi
L’elevato tasso di
crescita dell’Italia (5,8% l’anno tra il 1950 e il 1970) mette a
tacere tutte le polemiche sul controllo pubblico sull’economia
italiana. Ma ai primi segnali di forte rallentamento della crescita
si riaccende il dibattito (a livello internazionale) sulla necessità
di privatizzazioni che rilancino il capitalismo privato che grazie
alla maggiore efficienza avrebbe ridato slancio all’economia. C’è
da dire che comincia ad aumentare il costo del lavoro e al tempo
stesso l’Italia comincia a subire la concorrenza estera.
Sulla fine degli anni ‘60
molte imprese vanno in crisi: l’Iri comincia a assumere le
sembianze di un carrozzone che rileva dal fallimento molte società e
settori eterogenei: gelati, panettoni (nel ‘68 la Sme acquisisce il
35% della Motta), pelati, aerei e settore nucleare.
Nel 1971 per la prima
volta l’Iri va in perdita. È il primo shock petrolifero (alla fine
del 1973) a dare fiato ai fautori del capitale privato. Gli anni ‘70
sono anni di forti conflitti sociali che coinvolgono soprattutto le
imprese pubbliche sulle quali, oltretutto, cominciano a scatenarsi
gli appetiti politici. Alle imprese pubbliche vengono affidati
compiti di politica anti-ciclica, che sarebbe dovuta essere gestita
direttamente dallo stato. Il risultato è una crescita
dell’inefficienza e una caduta della produttività.
Di più: l’inflazione
rende estremamente alti gli oneri finanziari (nel 1975 toccano il 16%
del fatturato) e aumentano i costi delle materie prime e
dell’energia.
Si fanno strada parole
d’ordine assurde come «piccolo è bello». Falso: fin da allora
era evidente la mancanza di una politica di innovazione che rendesse
più competitive le imprese italiane che vivacchiavano puntando tutto
sulla flessibilità del cambio. Cioè sulle continue svalutazioni. Ma
nessun governo concretamente si muove per avviare processi di
privatizzazione. L’unica eccezione (il 6 novembre del 1986) è la
vendita agli Agnelli dell’Alfa Romeo reduce tra l’altro dalla
sciagurata
alleanza produttiva nel
1980 con la giapponese Nissan. La Fiat, con l’acquisto anche della
Lancia, diventa l’unico produttore in Italia di auto.
Con Prodi presidente
dell’Iri va invece a vuoto - nel 1985 - il tentativo di cessione
della Sme (settore alimentare) a Carlo De Benedetti.
A partire dal 1983,
tuttavia, vengono realizzate alcune dismissioni.
Un debito enorme
La situazione dell’Iri
intanto è diventata drammatica: nel 1977 ha 530 mila dipendenti: è
vero che due anni dopo realizza un fatturato di 16 mila miliardi di
lire, ma con quasi 1.500 miliardi di perdite (800 solo dalla Finsider
e 200 dalla Fimneccanica che controlla l’Alfa Romeo). Il tutto con
20 mila miliardi di debiti consolidati.
Nel 1981 i debiti
dell’Iri salgono a 30 mila miliardi (11.300 della Finsider). In
perdita (621 miliardi) anche la Stet rimasta indietro con i piani di
sviluppo.
Nell’82 il fatturato
Iri sale a 35 mila miliardi, ma gli oneri finanziari toccano i 5 mila
miliardi, le perdite sfiorano i 2500 miliardi, il debito consolidato
sfiora i 35 mila miliardi, mentre i dipendenti sono saliti a 550
mila. A fine anno Romano Prodi viene nominato presidente dell’Iri.
Nel 1983 inizia la fase
di ristrutturazione: vengono prepensionati 20 mila dipendenti del
settore dell’acciaio, ma intanto le perdite superano i 3 mila
miliardi, gli oneri finanziari a 5.800 miliardi contro un fatturato
salito a 42.300 miliardi. Solo nel 1984 le perdite «scendono» a
2.737 miliardi.
Nel 1985 il fondo di
dotazione dell’Iri viene aumentato di 3.500 miliardi (5 mila
miliardi erano stati immessi nell’84 e altri 3.500 miliardi lo
saranno nel 1986). In totale durante la presidenza Prodi vengono
versati 17.700 miliardi.
Intanto procedono le
dismissioni tra le quali l’Ansaldo Motori e la Ducati Meccanica: le
perdite si riducono a 980 miliardi. Procede il processo di riduzione
dei dipendenti: a fine ‘87 erano 420 mila e nel 1988 l’Iri torna
in utile, grazie a sistemi un po’ particolari di imputazione delle
svalutazioni per perdite delle società controllate. Sempre nell’87
viene collocata in borsa la società Autostrade, mentre la Cementir
viene ceduta al gruppo Caltagirone per 480 miliardi.
Nel 1992 viene abrogato -
con un referendum - il Ministero delle partecipazioni statali. La
legge Amato trasforma in Spa gli Istituti di diritto pubblico e le
casse di risparmio, anche se le Fondazioni seguitano a controllare
quasi tutte le nuove Spa. C’è molto movimento nel settore
bancario: si realizza una prima grande fusione: tra Banco di Roma,
Banco di Santo Spirito e Cassa di Risparmio di Roma. Nasce la Banca
di Roma controllata al 65% dalla Fondazione Cassa di Roma e per il
35% dall’Iri. Che nel frattempo (11 luglio) cessa di essere un ente
pubblico economico e si trasforma in Società per azioni. Intanto
tornano a esplodere le perdite dell’Iri, ora Spa: 10.200 miliardi
(oltre 70 mila miliardi il debito consolidato), dei quali 2.250
provenienti dalla sola gestione dell’Ilva, nata nel 1989 per le
attività del settore siderurgico. L’economia italiana è a pezzi:
la lira viene attaccata (con la sterlina) e viene varata una manovra
correttiva gigantesca: circa 90 mila miliardi.
Arriva «mani
pulite»
Di fatto l’unico
settore pubblico che fa utili è quello bancario: e sulla dismissione
della banche si punta decisamente per fare cassa e ottenere capitali
da impiegare nei settori delle Partecipazioni statali in perdita.
Ormai sono in molti a richiedere un ampio processo di
privatizzazione. Le cause sono molteplici. La prima è in «mani
pulite»: l’inchiesta milanese del pool dimostra l’ intreccio tra
la politica e il mondo dell’economia. Nelle partecipazioni statali
sono stati infiltrati manager legati strettamente ai partiti e quote
delle tangenti finiscono nelle casse dei partiti. In realtà anche il
settore privato è coinvolto in «mani pulite», ma questo non
scoraggia i fautori della maggiore efficienza del settore privato. Un
colpo di grazia lo dà l’arresto di Franco Nobili (il 12 maggio del
‘93) coinvolto nell’inchiesta «mani pulite», successore di
Prodi alla guida dell’Iri. Il quale Prodi viene richiamato con
grandi consensi a succedere a Nobili. Altro fatto che fa scalpore è
l’arresto e il successivo suicidio in carcere di Gabriele Cagliari,
area Psi, presidente dell’Eni. Il suo suicidio è del 20 agosto
del 1993. Un anno prima,
il 2 settembre 1992, si era suicidato il politico socialista Sergio
Moroni. In una lettera si dichiarava colpevole, sottolineando però
che i crimini commessi non erano per il proprio tornaconto ma a
beneficio del partito, e accusava il sistema di finanziare tutti i
partiti.
Tra le molte voci
circolate sulle privatizzazioni, viene spesso ricordata una riunione
avvenuta il 2 giugno del 1992 sul panfilo della Regina Elisabetta al
largo delle coste toscane. Su quella nave, si dice, c’erano: un
gruppo di banchieri della city londinese, Mario Draghi, direttore
generale del Tesoro, oggi governatore della Banca d’Italia e Romano
Prodi. Negli anni successivi Draghi fu protagonista di tutte le
privatizzazioni che hanno trasformato il panorama economico
riportandolo alla situazione pre-1930. Un processo caratterizzato da
un fitto intreccio tra banche alle quali il governo Ciampi - secondo
una direttiva Cee - consente di acquistare partecipazioni fino al 15%
del capitale delle aziende industriali.
Sempre nel 1993 viene,
infine, approvata la legge istitutiva dei Fondi pensione: avrebbero
dovuto favorire i processi di privatizzazione e i lavoratori
sarebbero, indirettamente, divenuti azionisti delle aziende. Mancano,
però i regolamenti di attuazione e il primo fondo vede la luce solo
nel 1998 quando larga parte del cammino delle privatizzazioni è già
stato compiuto.
Privati –
supplemento a “il manifesto”, novembre 2010
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