4.10.14

Città antica. La scelta del luogo (Lidia Storoni)

Piantina dell'antica Capua
Tracce stratificate di culto e di scambi testimoniano l'esistenza d'un centro attivamente frequentato nella piana che si stende tra la rocca capitolina e il Tevere. Incendi, alluvioni, scarico di terra per ovviare alle piene coprirono più volte le antiche are; ma, tenaci come formiche, gli uomini, abbandonate poco a poco le capanne su i colli, tornarono a incontrarsi con le loro merci e i loro dèi, sempre nella stessa area. Essa offriva facile approdo alle navi entrate nel fiume alla foce, facile guado tra le due sponde attraverso l'isola Tiberina. Quel punto segnava l'incontro tra Etruria e Magna Grecia, tra il mare e le piste che diventarono poi la Cassia e la Flaminia.

Comunità di eguali
Sin dall'età del bronzo scambiarono sale e manufatti contro pelli, latticini, lana, pecore: la prima moneta si chiamò pecunia. Insieme alle ceramiche, penetrò dalla Grecia la cultura; la tradizione pone a metà dell'VIII secolo a.C. la fondazione della Roma quadrata; ma il solco di Romolo non è stato mai identificato con certezza: i 12 avvoltoi volarono su un mercato brulicante di vita. Negli stessi anni, alcuni villaggi etruschi, come Veio, assunsero ruolo urbano, con processi e date non accettabili, per necessità di difesa e di cooperazione.
Posizione geografica, facilità di accessi, clima, entroterra fertile, un colle che ripara dai venti del Nord, una sorgente, un corso d'acqua, un approdo favorirono il radicarsi dell'abitato umano e dei suoi morti in un punto; la presenza di questi fattori suggerì lo scavo che portò alla scoperta di Pylos, senza che i ruderi ne indicassero l'ubicazione. Il perimetro, la cinta muraria, gli edifici pubblici vennero in seguito, con la piazza, il connotato tipico delle democrazie occidentali, contrapposte — e non da oggi — alle autocrazie asiatiche: «io non ho paura», disse Ciro sprezzante all'araldo spartano, «di quei popoli che hanno un luogo apposito per discutere e ingannarsi a vicenda».
Ma le città ebbero anche origini diverse. Vi furono fondazioni preordinate, che presuppongono la volontà d'un governo: a Megara Iblaea i coloni greci, sbarcati nel 724 a.C., delinearono subito un impianto urbano distinto dall'agro; lottizzarono l'area residenziale a scacchiera e allo stesso modo ripartirono il terreno agricolo: una pianificazione rigorosa, dettata dalla necessità di impiantare nel Nuovo Mondo una comunità di eguali.
Tali erano i giovani che portarono dalla patria il fuoco dell'ara, una pianticella d' ulivo in una giara, un sacchetto di semi. Posate su la battigia le navi dalla chiglia piatta, YEcista, munito d'un doppio metro, procedette alla misurazione e lasciò u-n'area sterrata, di dimensione multipla di quelle private, per i futuri edifizi civici e religiosi.
Il fenomeno urbano è tutt'altro che lineare e definibile con criteri fissi. Il tema della Città Antica, sotto l'aspetto topografico, giuridico, economico, politico, ideologico, ha stimolato convegni a non finire e una produzione bibliografica immensa; ma è certo che la planimetria a strade rettilinee incrociate come quella di New York si riscontra in città fondate a seguito d'una decisione politica, d'un atto meditato, per espansione demografica o economica, fame di terre o ricostruzione d'una città distrutta. Una decisione provisionale, che disciplina i programmi privati e li subordina a uno schema, presuppone una struttura sociale su basi egalitarie, una trama civica, oltre che edilizia, precostituita: Ippodamo di Mileto, consapevole che l'abitato rispecchia la società, teorizzò norme già applicate in larga misura.

In accordo col creato
E' naturale che un atto solenne come una fondazione richiedesse, oltre al geometra, il sacerdote. Non soltanto i fatti politici e sociali, ma anche i gesti della vita quotidiana per l'uomo antico erano intrisi di fattori magici e soprannaturali; la divinità — anche se non identificata (sive deo sive dea) — quando si invadeva il suo territorio andava tenuta a bada, blandita, vincolata, a furia di offerte e sacrifici, a non metter bastoni tra le ruote; per indovinare i suoi umori, e non per conoscere il futuro, gli aruspici consultavano le viscere degli animali, gli àuguri il ciclo. Lo dividevano idealmente in quattro parti — il Templum — tracciando con il lituo due linee incrociate, Nord-Sud, Est-Ovest, e poi lo osservavano — ed era l'atto del contemplare. Lampo, tuono, nuvola, uccello che comparisse nell'uno o nell'altro settore rappresentava un segno; le stazioni riceventi erano sempre all'erta per captare e decifrare eventuali trasmissioni dall'invisibile.
Che la volta celeste fosse magicamente proiettata sul suolo nell'atto di tracciare una città fu un'idea e una prassi etrusca, poi applicata dai romani nelle colonie e nell'accampamento, fosse pure per la sosta d'una sola notte. La cerimonia della fondazione (e la celebrazione dell'anniversario) rievocava la creazione del mondo, adeguava l'abitato all'ordine divino; ma che questa perenne attenzione al soprannaturale sia stata l'unica ragione della scelta d'un sito e della planimetria cittadina, a prescindere da motivi utilitari, è una versione unilaterale. Lo afferma Joseph Rykwert in un bel saggio recentemente edito da Einaudi. (L'idea di città. Antropologia della forma urbana nel mondo antico); ma si può obbiettare allo studioso che chi ha un ampio spazio e vuoi insediare in esso gruppi uniti da un culto comune, da interessi comuni e da parità giuridica non può lasciare a ciascuno facoltà di occupare quanto terreno gli garba né traccerà strade tortuose e piazze irregolari, a meno che non vi sia costretto dalle asperità del suolo. La scelta del sito, scrive Rykwert, prescindeva da considerazioni pratiche, ma obbediva soltanto a oracoli e presagi, come risulta da esempi di paesi lontanissimi; la consapevolezza di abitare in uno spazio modellato sul cosmo, in pieno accordo con il creato, infondeva serenità ai romani.
Non mi sembra probabile. Anche se è riposante leggere oggi un'opera immune da osservanza bigotta verso il materialismo storico, le certezze spirituali dell'autore non devono prevalere su le testimonianze. Le esigenze contingenti hanno avuto sempre il loro peso nella seda d'una sede; a costo d'esser messa dall'autore nell'aborrita categoria dei «funzionalisti», vorrei rammentargli che i due grandi architetti dell'Italia post-romana furono la malaria e il brigantaggio.


“la Repubblica”, 9 gennaio 1982

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