Piantina dell'antica Capua |
Tracce stratificate di
culto e di scambi testimoniano l'esistenza d'un centro attivamente
frequentato nella piana che si stende tra la rocca capitolina e il
Tevere. Incendi, alluvioni, scarico di terra per ovviare alle piene
coprirono più volte le antiche are; ma, tenaci come formiche, gli
uomini, abbandonate poco a poco le capanne su i colli, tornarono a
incontrarsi con le loro merci e i loro dèi, sempre nella stessa
area. Essa offriva facile approdo alle navi entrate nel fiume alla
foce, facile guado tra le due sponde attraverso l'isola Tiberina.
Quel punto segnava l'incontro tra Etruria e Magna Grecia, tra il mare
e le piste che diventarono poi la Cassia e la Flaminia.
Comunità di eguali
Sin dall'età del bronzo
scambiarono sale e manufatti contro pelli, latticini, lana, pecore:
la prima moneta si chiamò pecunia. Insieme alle ceramiche,
penetrò dalla Grecia la cultura; la tradizione pone a metà
dell'VIII secolo a.C. la fondazione della Roma quadrata; ma il solco
di Romolo non è stato mai identificato con certezza: i 12 avvoltoi
volarono su un mercato brulicante di vita. Negli stessi anni, alcuni
villaggi etruschi, come Veio, assunsero ruolo urbano, con processi e
date non accettabili, per necessità di difesa e di cooperazione.
Posizione geografica,
facilità di accessi, clima, entroterra fertile, un colle che ripara
dai venti del Nord, una sorgente, un corso d'acqua, un approdo
favorirono il radicarsi dell'abitato umano e dei suoi morti in un
punto; la presenza di questi fattori suggerì lo scavo che portò
alla scoperta di Pylos, senza che i ruderi ne indicassero
l'ubicazione. Il perimetro, la cinta muraria, gli edifici pubblici
vennero in seguito, con la piazza, il connotato tipico delle
democrazie occidentali, contrapposte — e non da oggi — alle
autocrazie asiatiche: «io non ho paura», disse Ciro sprezzante
all'araldo spartano, «di quei popoli che hanno un luogo apposito per
discutere e ingannarsi a vicenda».
Ma le città ebbero anche
origini diverse. Vi furono fondazioni preordinate, che presuppongono
la volontà d'un governo: a Megara Iblaea i coloni greci, sbarcati
nel 724 a.C., delinearono subito un impianto urbano distinto
dall'agro; lottizzarono l'area residenziale a scacchiera e allo
stesso modo ripartirono il terreno agricolo: una pianificazione
rigorosa, dettata dalla necessità di impiantare nel Nuovo Mondo una
comunità di eguali.
Tali erano i giovani che
portarono dalla patria il fuoco dell'ara, una pianticella d' ulivo in
una giara, un sacchetto di semi. Posate su la battigia le navi dalla
chiglia piatta, YEcista, munito d'un doppio metro, procedette alla
misurazione e lasciò u-n'area sterrata, di dimensione multipla di
quelle private, per i futuri edifizi civici e religiosi.
Il fenomeno urbano è
tutt'altro che lineare e definibile con criteri fissi. Il tema della
Città Antica, sotto l'aspetto topografico, giuridico, economico,
politico, ideologico, ha stimolato convegni a non finire e una
produzione bibliografica immensa; ma è certo che la planimetria a
strade rettilinee incrociate come quella di New York si riscontra in
città fondate a seguito d'una decisione politica, d'un atto
meditato, per espansione demografica o economica, fame di terre o
ricostruzione d'una città distrutta. Una decisione provisionale, che
disciplina i programmi privati e li subordina a uno schema,
presuppone una struttura sociale su basi egalitarie, una trama
civica, oltre che edilizia, precostituita: Ippodamo di Mileto,
consapevole che l'abitato rispecchia la società, teorizzò norme già
applicate in larga misura.
In accordo col
creato
E' naturale che un atto
solenne come una fondazione richiedesse, oltre al geometra, il
sacerdote. Non soltanto i fatti politici e sociali, ma anche i gesti
della vita quotidiana per l'uomo antico erano intrisi di fattori
magici e soprannaturali; la divinità — anche se non identificata
(sive deo sive dea) — quando si invadeva il suo territorio
andava tenuta a bada, blandita, vincolata, a furia di offerte e
sacrifici, a non metter bastoni tra le ruote; per indovinare i suoi
umori, e non per conoscere il futuro, gli aruspici consultavano le
viscere degli animali, gli àuguri il ciclo. Lo dividevano idealmente
in quattro parti — il Templum — tracciando con il lituo
due linee incrociate, Nord-Sud, Est-Ovest, e poi lo osservavano —
ed era l'atto del contemplare. Lampo, tuono, nuvola, uccello che
comparisse nell'uno o nell'altro settore rappresentava un segno; le
stazioni riceventi erano sempre all'erta per captare e decifrare
eventuali trasmissioni dall'invisibile.
Che la volta celeste
fosse magicamente proiettata sul suolo nell'atto di tracciare una
città fu un'idea e una prassi etrusca, poi applicata dai romani
nelle colonie e nell'accampamento, fosse pure per la sosta d'una sola
notte. La cerimonia della fondazione (e la celebrazione
dell'anniversario) rievocava la creazione del mondo, adeguava
l'abitato all'ordine divino; ma che questa perenne attenzione al
soprannaturale sia stata l'unica ragione della scelta d'un sito e
della planimetria cittadina, a prescindere da motivi utilitari, è
una versione unilaterale. Lo afferma Joseph Rykwert in un bel saggio
recentemente edito da Einaudi. (L'idea di città. Antropologia
della forma urbana nel mondo antico); ma si può obbiettare allo
studioso che chi ha un ampio spazio e vuoi insediare in esso gruppi
uniti da un culto comune, da interessi comuni e da parità giuridica
non può lasciare a ciascuno facoltà di occupare quanto terreno gli
garba né traccerà strade tortuose e piazze irregolari, a meno che
non vi sia costretto dalle asperità del suolo. La scelta del sito,
scrive Rykwert, prescindeva da considerazioni pratiche, ma obbediva
soltanto a oracoli e presagi, come risulta da esempi di paesi
lontanissimi; la consapevolezza di abitare in uno spazio modellato
sul cosmo, in pieno accordo con il creato, infondeva serenità ai
romani.
Non mi sembra probabile.
Anche se è riposante leggere oggi un'opera immune da osservanza
bigotta verso il materialismo storico, le certezze spirituali
dell'autore non devono prevalere su le testimonianze. Le esigenze
contingenti hanno avuto sempre il loro peso nella seda d'una sede; a
costo d'esser messa dall'autore nell'aborrita categoria dei
«funzionalisti», vorrei rammentargli che i due grandi architetti
dell'Italia post-romana furono la malaria e il brigantaggio.
“la Repubblica”, 9
gennaio 1982
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