La sezione letteraria di
“MondOperaio” nel n.8-9 del 1988 (direzione Pellicani) fu in gran
parte dedicata a un dossier sulla “forma racconto”, sulla sua
specificità rispetto al romanzo, sulle ragioni di quella che al
tempo sembrava una rinascita. Il dossier contiene articoli e
interviste a scrittori, critici, editori. Qui riprendo un'intervista
a Masolino D'Amico sul racconto negli Usa, il cui successo e la cui
evoluzione egli fa risalire a ragioni di organizzazione del lavoro,
di industria editoriale. (S.L.L.)
Hemingway e Scott Fitzgerald |
Da sempre il racconto
ha goduto in America di una larga diffusione e popolarità.
Probabilmente all'origine di questo fenomeno esistono complesse
ragioni di sociologia letteraria, ma sappiamo che operano anche
condizioni di tipo pratico (per esempio iniziative a livello
editoriale e universitario) che favoriscono il rapporto tra pubblico
e racconto.
Storicamente gli
americani hanno una grande tradizione del racconto proprio come
genere commerciale. Agli scrittori degli anni venti venivano
richiesti soprattutto racconti; c'erano riviste che tiravano
centinaia di migliaia di copie e che potevano perciò pagare
moltissimo l'autore d'un racconto. Paradossalmente si guadagnava di
più scrivendo racconti per queste riviste che romanzi per un
editore. Scott Fitzgerald è diventato ricchissimo scrivendo
racconti, anzi è stato tenuto lontano dal romanzo proprio perché
trovava più lucroso scrivere racconti. Hemingway è uno scrittore di
racconti, ha scritto pochissimi romanzi e questi sono sempre dei
racconti dilatati; in realtà la sua misura è quella del racconto,
le sue grandi prove appartengono a questa forma letteraria. Quindi lo
scrittore americano per molto tempo s'è formato in questo modo. Poi
questo modo di leggere è tramontato: le grandi committenti che erano
le riviste hanno cessato di esistere o di fare richieste di racconti.
Ne sono rimaste poche, soprattutto il «Newyorker» che esiste ancora
oggi e rimane una vetrina molto prestigiosa. Sono invece cominciate
le grandi tirature della narrativa in romanzo, il pubblico è stato
orientato a chiedere romanzi e quindi gli scrittori americani sono
passati obbedientemente a fornire romanzi. Non che il racconto sia
mai cessato, ma per molti anni gli editori hanno scoraggiato gli
autori di racconti; l'antologia di racconti appariva come un prodotto
che non aveva le stesse prospettive di vendita del romanzo. Da
qualche anno a questa parte si verifica, se non un'inversione di
tendenza, un grande ritorno del racconto.
Quale può essere il
motivo, o il complesso di motivi, che spiega per il mercato americano
questo ritorno del racconto?
Ci sono varie teorie in
proposito. Spesso si dice che, siccome gli americani sono ormai
abituati a guardare la televisione, e la televisione esige uno sforzo
di concentrazione molto minore della lettura, non sono più propensi
a fare un grosso impiego intellettuale e chiedono una lettura breve.
D'altra parte questa produzione coesiste con quei romanzi enormi che
l'editoria continua a sfornare. Insomma, sembra che al lettore si
debba dare o un enorme volume ch'egli leggerà per un anno intero
portandolo avanti e indietro sul trenino mentre va al lavoro, oppure
una narrativa in pillole che si esaurisce in una sola seduta di
lettura.
La seconda ragione della
diffusione del racconto è che, essendo il mestiere dello scrittore
diventato un mestiere abbastanza richiesto, sono proliferate nelle
università le cattedre di cosiddetta «scrittura creativa», molto
spesso tenute da scrittori, che insegnano ai giovani a scrivere
narrativa. E' inevitabile che un insegnamento del genere produca
racconti piuttosto che romanzi, per ragioni ovvie: perché un
racconto può essere seguito agevolmente da parte dell'insegnante,
può essere presentato a breve scadenza dall'allievo come compito a
casa, e perché per esso è più facile proporre un modello.
Naturalmente gli allievi sono stati incoraggiati (ed è una grande
costante della narrativa americana) a seguire un certo realismo, a
parlare di esperienze vissute, a guardare dentro di sé; quindi in
queste scuole di scrittura molto spesso la realtà è vista da
vicino. Gli insegnanti intervengono sugli studenti soprattutto nel
senso di tagliare, comprimere; e molti giovani scrittori vengono
fuori proprio dal lavoro di riduzione a cui sono sottoposti.
Codicillo molto
importante di questo fenomeno: le università producono scrittori di
racconti e poi questi scrittori pubblicano con le case editrici
universitarie. Ora succede che gli editori commerciali trovino molto
caro produrre un libro e lanciarlo, e abbiano bisogno per saggiare un
nuovo gusto di una palestra sperimentale che l'università fornisce,
e la fornisce con i soldi che dovrebbero andare alla ricerca
accademica e alle pubblicazioni scientifiche. Le università
americane hanno proprie case editrici e propri finanziamenti. Non va
dimenticato che in America non esiste quasi denaro pubblico, tutto
nasce dall'iniziativa privata e per fini commerciali. Però ci sono
le case editrici universitarie che non hanno fini di lucro e che
dispongono di donazioni di privati o di altri finanziamenti: queste
case universitarie, così come pubblicano meritoriamente opere
scientifiche annotate che sono destinate a durare, si sono messe
anche a pubblicare i racconti dei loro migliori studenti. Esse hanno
veramente la possibilità di fare quegli esperimenti che gli editori
commerciali non potrebbero fare: possono pubblicare in perdita,
possono tenere un libro in catalogo per anni mentre l'editore
commerciale, se un libro non va, lo manda al macero dopo poche
settimane. Così si può senza fretta vedere se un libro «incontra»:
tante volte un libro, specialmente di un nuovo scrittore, non
colpisce al momento l'attenzione, però poi si crea una reputazione,
cominciano a uscire recensioni; e allora ecco che, magari dopo due
anni di circolazione sotterranea, il nuovo scrittore venuto dalla
scuola di un'università viene notato dal grande editore, il quale a
quel punto è disposto a rischiare e rileva il libro dalla casa
editrice universitaria che quindi ne ricava un utile. Sta di fatto
che moltissimi dei nuovi scrittori americani cosiddetti «minimalisti»
provengono proprio da questa formazione: sono giovani che hanno
frequentato le scuole di «scrittura creativa», hanno un maestro
alle spalle e hanno avuto la possibilità di un incontro col pubblico
protetto dall'istituzione accademica. Per questa via si è dimostrato
che esisteva un pubblico anche per il racconto. Allora sono stati
recuperati scrittori che erano passati quasi inosservati vent'anni
fa. E' il caso di Raymond Carver, considerato il maestro degli
scrittori minimalisti, il loro precursore. Inoltre vengono raccolti
in volume (cosa che prima non accadeva) gli scrittori del
«Newyorker». Direi dunque che in America ci sono tutti questi
fenomeni dietro il revival del racconto, che indubbiamente oggi è
molto vistoso.
Quindi il racconto in
America ha una funzione di selezione degli scrittori; d'altra parte
esiste un pubblico preparato a questo tipo dì proposta. Al di là di
contingenze più recenti, probabilmente qualcosa che risale non solo
agli inizi del Novecento ma addirittura all'Ottocento predisponeva la
figura del lettore americano alla fruizione della forma particolare
di narrativa che è il racconto. Dovremmo esaminare la specificità
della forma racconto, che è in fondo una costruzione del tutto
diversa dal romanzo e che richiede — al di là dei tempi di lettura
— un diverso rapporto tra immaginazione del lettore e
rappresentazione della realtà. Che cosa potrebbe esserci dunque,
nell'ambiente americano, alla base di questa propensione?
Direi che c'è proprio la
tradizione degli americani. Tutti i narratori americani sono autori
di racconti. Anzi, a proposito di questo famoso grande romanzo
americano, che nessuno sa quale sia, si può dire che tutti coloro i
quali non sono disposti a riconoscere i titoli di grande romanzo
neppure al Moby Dick di Melville immediatamente possono citare
poi racconti americani che sono senza dubbio meravigliosi: da
Faulkner a Edgar Allan Poe, allo stesso Melville, a Hawthorne. Tutti
hanno sempre scritto racconti. Difficile dire perché. Certo il
racconto è completamente diverso dal romanzo. In un libro dedicato a
D.H. Lawrence romanziere, Anthony Burgess è costretto a occuparsi
anche di certi racconti e a denti stretti ad ammettere che sono molto
belli, molto interessanti. Ma a un certo punto osserva: non capisco
perché si scrivano racconti, si fa una tale fatica a impostare una
situazione, a creare un ambiente, che quando questo è stato fatto
conviene scrivere un romanzo. Cioè, dal punto di vista
dell'artigiano, Burgess trova che è uno sforzo esagerato per un
racconto. Ora sta di fatto che questo tipo di sforzo breve ma molto
intenso lo scrittore americano l'ha sempre prodotto. D'altra parte
direi che nell'attuale revival del racconto c'è anche un
immiserimen-to della tradizione, perché i racconti proposti oggi
sono in generale soltanto una parte di ciò che si potrebbe fare con
il racconto. I minimalisti hanno un limitato orizzonte, parlano di
limitate esperienze, non corrono rischi; e di questo vengono accusati
dagli scrittori più anziani, che magari saranno anche un po'
invidiosi del loro facile successo.
Ma insomma è vero che
questi giovani scrivono dei raccontini sulle loro prime vacanze dal
college oppure sulle prime esperienze con la droga, il che può
essere più o meno interessante, però non danno la sensazione di
aver altro da dire; e il richiamarsi a Hemingway come loro grande
maestro di brevità veramente suona quasi blasfemo, perché dietro a
Hemingway c'era un retroterra colossale di esperienza. Non dico che
uno scrittore debba avere necessariamente una vita avventurosa per
scrivere dei bei racconti, però deve avere almeno una vita intcriore
intensa. Questi giovani, avendo fatto un po' di scuola, hanno
imparato a mettere insieme una piccola costruzione narrativa. Ma uno
scrittore deve avere un altro respiro per durare, e perciò è
difficile che questi giovani possano durare. Invece nella tradizióne
del racconto americano c'è molto di più. C'è quella costante del
realismo che è sempre presente nella letteratura americana, e c'è
anche l'opposto del realismo, cioè la fuga dal realismo che è
un'altra costante degli scrittori americani. In Poe, in Melville, è
presente il delirio, il rischio. I giovani scrittori al contrario non
escono dal piccolo terreno che si sono tracciati.
Anche il richiamo a
Raymond Carver quanto è giustificato? Carver è uno scrittore più
complesso, dà una rappresentazione della realtà sociale molto più
articolata.
Infatti Carver ha ben
altro background. E' un uomo che si è fatto da sé, ha vissuto
esperienze estreme, è stato alcolizzato, insomma un uomo che ha
tirato i suoi racconti fuori dalle sue viscere, anzi: essi sono stati
per lui un sistema per venire a patti con l'esistenza, per
accettarla. Dietro al racconto di Carver, che si veda o no sulla
superficie, c'è tutta un'esperienza di vita che ha ben altra densità
rispetto a questi epigoni. In altre parole, per un ragazzo
intelligente è certamente facile scimmiottare un maestro e fare un
buon raccontino, certamente è più facile che fare un lungo romanzo
perché risulta più agevole mantenere il controllo della materia in
una breve narrazione. E infatti molti di questi scrittori-prodigio
sono autori di romanzi che sono stati poi tagliati fino a diventare
racconti.
Il racconto americano
presenta una sua fisionomia specifica. Se leggiamo un racconto di
Faulkner o di Bellow o di Hemingway, ciò che ci colpisce accanto
alla ricchezza di esperienza del narratore, alla sua dimensione
sociale, è anche una capacità metaforica, la capacità di fare di
quel caso singolo un simbolo dell'esistenza. Forse questo caricare il
racconto di tutta la sua capacità espressiva potrebbe essere una
delle chiavi per spiegare la popolarità del racconto americano.
Io credo che la forma del
racconto americano sia stata determinata dalla sua collocazione nei
giornali. Il pubblico americano è stato un pubblico di lettori di
giornali, di periodici. Ora gli scrittori, come tutti gli artisti,
funzionano bene quando hanno limiti molto precisi. Se a Michelangelo
assegno un certo blocco di marmo, con ciò stesso ho eliminato per
lui una serie di distrazioni. Quando in Italia si scrivevano gli
elzeviri di terza pagina ai quali era assegnata una ben precisa
misura, molto spesso gli autori inventavano cose bellissime entro
questo limite. Per lo scrittore di romanzo diventa molto importante
il controllo che riesce a esercitare su se stesso, e questa
paradossalmente è stata una delle grandi difficoltà per gli
scrittori americani. Gli americani, forse per l'assenza d'una severa
tradizione, hanno sempre trovato difficile controllare la grande
opera, mentre invece all'interno d'una misura precisa si rivelano
molto più a loro agio. Prendiamo uno scrittore minore ma incantevole
come O Henry, che per tutta la vita ha scritto racconti lunghi sei
«cartelle» perché così gli richiedeva la collocazione sul
giornale e alla fine è diventato perfetto in quella misura. Credo
che ci siano dunque queste due ragioni: da una parte l'estrema
larghezza o sconfinatezza del contesto in cui gli scrittori americani
si muovono, senza un centro, un'accademia, un milieu
letterario, con la conseguenza quindi d'una mancanza di controlli e
della tentazione di tracimare da tutte le parti; dal lato opposto, la
presenza invece nel genere racconto di un'esigenza di mantenersi
entro limiti molto rigidi, per un certo committente, con una certa
data di consegna, con un certo pubblico che si avverte molto perché
influisce sulle tirature, e allora gli scrittori rassicurati da
questo limite hanno dato molto spesso il meglio di sé. Insomma, il
tipico scrittore americano può anche essere considerato un Thomas
Wolfe che portò all'editore migliaia di pagine e poi trovò quel
genio che era Maxwell Perkins il quale si mise a tagliare e tagliare
e le ridusse a ottocento traendone un capolavoro. Oggi sono stati
ricostruiti tutti gli interventi di questo editor sul testò
originale di Wolfe, e si è visto che esso era un fiume, un torrente
straripante. In altre parole, siccome l'America non ha alle spalle
una tradizione, ogni caso è individuale; compare il genio sregolato
che molto difficilmente trova in sé il modo di controllarsi e che ha
bisogno di un editore che gl'imponga un limite. La forma racconto ha
avuto in America tanto successo proprio perché ha dato allo
scrittore il modo di avere dei limiti, e dentro quei limiti egli s'è
sentito rassicurato e ha potuto agire paradossalmente con molta più
libertà.
Qual è in America
l'atteggiamento della critica più qualificata verso il racconto?
La critica segue la
letteratura con attenzione ai singoli scrittori, senza distinguere
tra romanzo e racconto. Oggi il revival del racconto è stato accolto
molto favorevolmente. E' difficile capire quanto ci sia di operazione
commerciale dietro questo fenomeno: certamente gli editori sono stati
incoraggiati a proporre i giovani autori di racconti, e certamente la
critica li ha seguiti con molta simpatia e attenzione, forse anche un
po' esagerata. Quindi direi che la critica è stata solidale con la
nuova generazione letteraria: il successo di questa non è avvenuto a
dispetto della critica. Anzi, la critica li ha elogiati anche troppo,
e adesso semmai si assiste a un ridimensionamento degli elogi.
MondOperaio, Rivista
mensile del Partito Socialista Italiano, agosto-settembre 1988
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