Uscirono tra il 1992 e
1993 per Adelphi le prime edizioni del Journal di
Matilde Manzoni, ultima dei nove figli di Enrichetta Blondel e
Alessandro Manzoni, che morì tisica nel 1856 a soli ventisei anni.
Una vita breve e dolorosa, segnata dalla malattia, ma soprattutto
dall’esperienza dell’abbandono.
Nel 1851, quando poco più che ventenne compilò il suo diario, Matilde viveva ormai da anni nel Pisano, ospite della sorella Vittoria e del cognato Giorgini: la madre (Enrichetta Blondel) era morta nel 1833, il padre era un’effigie da contemplare, perfino per lei. Matilde scrisse per pochi mesi, dal 1° gennaio al 26 marzo 1851 appunto, quando ancora non si era manifestata la malattia in forma conclamata (la prima emottisi è del febbraio 1853), alternando il francese all'italiano.
Il curatore della pubblicazione, Cesare Garboli utilizza nella sua prefazione altre fonti, soprattutto le 29 lettere scritte da Matilde al padre prima e dopo la malattia, per costruire un vero e proprio saggio che s'incentra sul rapporto tra padre e figlia, sul milieu (i ceti proprietari della provincia toscana) e su un evento quasi romanzesco, la scoperta da parte della ragazza dei Canti di Leopardi, regalati da un giovane amico. Ne rimane affascinata: ne ricopia non pochi in un album, quasi a farsene una antologia personale e registra sul diario le proprie impressioni di lettura, molto profonde. "Leggendo Leopardi" scrive il 23 gennaio "devo spesso chiudere il libro: questa lettura mi strema e non posso farla che a tratti. Resto come schiacciata sotto la bellezza e tristezza dei suoi versi". Sulla sua lettura di Leopardi vorrò tornare, con un mio breve saggio. Qui posto la prima parte di un articolo apparso su “Linea d'ombra”, il mensile di Fofi, che è più che una recensione. (S.L.L.)
Nel 1851, quando poco più che ventenne compilò il suo diario, Matilde viveva ormai da anni nel Pisano, ospite della sorella Vittoria e del cognato Giorgini: la madre (Enrichetta Blondel) era morta nel 1833, il padre era un’effigie da contemplare, perfino per lei. Matilde scrisse per pochi mesi, dal 1° gennaio al 26 marzo 1851 appunto, quando ancora non si era manifestata la malattia in forma conclamata (la prima emottisi è del febbraio 1853), alternando il francese all'italiano.
Il curatore della pubblicazione, Cesare Garboli utilizza nella sua prefazione altre fonti, soprattutto le 29 lettere scritte da Matilde al padre prima e dopo la malattia, per costruire un vero e proprio saggio che s'incentra sul rapporto tra padre e figlia, sul milieu (i ceti proprietari della provincia toscana) e su un evento quasi romanzesco, la scoperta da parte della ragazza dei Canti di Leopardi, regalati da un giovane amico. Ne rimane affascinata: ne ricopia non pochi in un album, quasi a farsene una antologia personale e registra sul diario le proprie impressioni di lettura, molto profonde. "Leggendo Leopardi" scrive il 23 gennaio "devo spesso chiudere il libro: questa lettura mi strema e non posso farla che a tratti. Resto come schiacciata sotto la bellezza e tristezza dei suoi versi". Sulla sua lettura di Leopardi vorrò tornare, con un mio breve saggio. Qui posto la prima parte di un articolo apparso su “Linea d'ombra”, il mensile di Fofi, che è più che una recensione. (S.L.L.)
Matilde Manzoni nel ritratto a matita di Cherubino Comenti (1850) |
Intervenendo a circa un
anno dalla prima edizione e a qualche mese dalla seconda del Journal
di Matilde Manzoni edito e prefato da Cesare Garboli (Adelphi, pp.
196, L. 14.000) vorrei offrire, più che un parere critico ritardato,
qualcosa come un frammento d'analisi, il referto d'una discussione.
L'operazione compiuta da Garboli costringe a abitare stanze
dell'anima in cui entro di rado e sempre malvolentieri. La prima di
queste stanze è la paternità, nella fattispecie il rapporto
padre-figlia. Il modulo culturalmente più accreditato è quello
dell'invadenza gelosa, della .proprietà. Dalla prefazione di Garboli
scopriamo una sindrome opposta: Manzoni è un padre in fuga,
inseguito da una offerta d'affetto che non vuol ricevere, da cui teme
di essere invaso. Dietro la corazzatura delle buone, sublimemente e
inconsciamente ipocrite parole di un Padre con la p maiuscola, con
tanto di benedizioni e raccomandazioni, s'arrocca, intransigente sino
alla crudeltà, un io diviso, malato, fragilissimo.
Manzoni sente l'amore della figlia come una forza capace di rompere ragnatele di equilibri nevrotici invecchiati con lui. L'oscura forza dì quell'amore lo atterrisce, impedendogli d'assumere un'identità sconosciuta e insostenibile. In questi casi, l'inconscio può reagire con un decreto di morte per l'altro, l'elemento estraneo che ci minaccia. La malattia, strutturata nella personalità, si difende con tutte le sue forze. Sono noti i limiti nervosi di quello che il Praga definiva, a torto, in una sua famosa poesia "casto poeta... vegliardo in sante visioni assorto": vecchio patriarca delle nostre lettere, uomo ormai di un altro tempo. In realtà, il più rappresentativo, almeno da noi, fra quei "padri ammalati" di cui il Praga si dichiara, in apertura di poesia, figlio con gli altri della sua generazione.
Manzoni sente l'amore della figlia come una forza capace di rompere ragnatele di equilibri nevrotici invecchiati con lui. L'oscura forza dì quell'amore lo atterrisce, impedendogli d'assumere un'identità sconosciuta e insostenibile. In questi casi, l'inconscio può reagire con un decreto di morte per l'altro, l'elemento estraneo che ci minaccia. La malattia, strutturata nella personalità, si difende con tutte le sue forze. Sono noti i limiti nervosi di quello che il Praga definiva, a torto, in una sua famosa poesia "casto poeta... vegliardo in sante visioni assorto": vecchio patriarca delle nostre lettere, uomo ormai di un altro tempo. In realtà, il più rappresentativo, almeno da noi, fra quei "padri ammalati" di cui il Praga si dichiara, in apertura di poesia, figlio con gli altri della sua generazione.
Il rapporto con la
malattia preannuncia, in Manzoni, un paradigma novecentesco: la
malattia come metafora, male oscuro le cui sostanze si combinano, per
un chimismo ignoto agli antichi e tipico dell'età moderna, in una
sorta di ossigeno vitale. Meccanismo, quest'ultimo, ben noto a
Garboli, che l'ha descritto, vero e proprio thème obsédant,
in molti suoi saggi. La malattia è per lui un sole nero intorno al
quale ruotano molti pianeti dell'universo problematico della
modernità: pianeti diversi fra loro, separati da spazi storici,
psicologici e culturali, ma appartenenti allo stesso sistema.
Il tema, intuito, secondo Garboli, nel cuore del Seicento da un Molière rivoluzionario, un Molière noir, tutto proiettato verso la nostra epoca (il Molière soprattutto del Tartuffe, del Malade imaginaire, del Misanthrope), investe tutta l'arte moderna. Garboli l'ha studiato in particolare in Pascoli, Delfini. Penna.
Il tema entra, di scorcio, anche nella prefazione al Journal; dico di scorcio, perché la protagonista è, come è giusto, Matilde. Ma chi le fa da interlocutore irraggiungibile, imprendibile, è la nevrosi del padre. Un personaggio in fuga, l'abbiamo già visto, che si rifiuta per paura di perdersi, di scomparire, ossessionato com'è da un'immagine materna ambivalente, insieme protettiva e persecutoria. In quell'immagine è la radice di quello che Manzoni definiva il suo mal de nerfs: le sindromi vertiginose, la paura della folla, le fobìe, le idee paranoidi, le compulsioni motorie, i rituali elaborati, col passare degli anni, come un bozzolo in cui rifugiarsi. La malattia sviluppa nell'io manzoniano un sistema complesso di aderenze, giunge a metabolizzarsi con il suo psichismo, compenetrandosi con esso: è una forma parassitaria, ma anche protettiva, di contenimento e sollecitazione. Matilde incontrò in quel nesso inscindibile di forza e debolezza, di salute e malattia (lo stampo in cui si forgiarono I promessi sposi),un muro invalicabile.
Il tema, intuito, secondo Garboli, nel cuore del Seicento da un Molière rivoluzionario, un Molière noir, tutto proiettato verso la nostra epoca (il Molière soprattutto del Tartuffe, del Malade imaginaire, del Misanthrope), investe tutta l'arte moderna. Garboli l'ha studiato in particolare in Pascoli, Delfini. Penna.
Il tema entra, di scorcio, anche nella prefazione al Journal; dico di scorcio, perché la protagonista è, come è giusto, Matilde. Ma chi le fa da interlocutore irraggiungibile, imprendibile, è la nevrosi del padre. Un personaggio in fuga, l'abbiamo già visto, che si rifiuta per paura di perdersi, di scomparire, ossessionato com'è da un'immagine materna ambivalente, insieme protettiva e persecutoria. In quell'immagine è la radice di quello che Manzoni definiva il suo mal de nerfs: le sindromi vertiginose, la paura della folla, le fobìe, le idee paranoidi, le compulsioni motorie, i rituali elaborati, col passare degli anni, come un bozzolo in cui rifugiarsi. La malattia sviluppa nell'io manzoniano un sistema complesso di aderenze, giunge a metabolizzarsi con il suo psichismo, compenetrandosi con esso: è una forma parassitaria, ma anche protettiva, di contenimento e sollecitazione. Matilde incontrò in quel nesso inscindibile di forza e debolezza, di salute e malattia (lo stampo in cui si forgiarono I promessi sposi),un muro invalicabile.
Scrive Garboli: "Dal
padre non arriva mai un segno d'interesse reale, mai una vera
confidenza. Non risulta che Manzoni, in dieci anni di carteggio,
abbia mai scambiato un'opinione o un'emozione con la figlia. Non
risulta che mai le abbia chiesto o dato un parere, una notizia che
superasse la cordialità formale di rapporti teneramente
convenzionali, costituiti una volta per sempre, programmati e come
protetti da un codice. Le lettere che Manzoni scrive alla figlia sono
tutte uguali, tutte prevedibili. E già terribile che l'amore di
Matilde, così generoso e forte, fosse tanto divaricato rispetto
all'affetto e all'interesse che il padre nutriva per lei. Di questa
sproporzione, della vanità e dell'irrealtà dei suoi sforzi per
essere corrisposta, Matilde ebbe forse oscura coscienza, nel più
profondo di sé. dopo la visita che il padre le rese nel 1852, e
allora si ammalò e per sempre" (p. 21).
La tisi è in Matilde la
conseguenza mortale di un ardore spinto fino all'auto-consunzione. È
una malattia del corpo, che ha oscure radici nell'anima, ma non si
metaforizza, non la invade, facendosi ragione di sovrainvestimenti
affettivi e strutturazioni. La malattia di Matilde non assomiglia a
quella del padre: essa è fonte di sofferenze fisiche e come tale
circoscritta, addirittura rimossa. Dal febbraio del '53, in cui ebbe
la prima emottisi, la malattia diventa per Matilde una presenza
dolorosa, quotidiana, da sopportarsi e da tenere a bada. Entra come
tema inevitabile nell'epistolario con il padre, ma le è concesso il
meno possibile. I referti sono precisi, ma secchi, quasi sbrigativi:
sono malati i polmoni, non lo spirito. Si tratta di un rapporto con
il male, che non viene elaborato e sublimato nel "mal di
vivere", la malattia-nutrimento diagnosticata nel nostro tempo
da Montale.
L'immagine che Matilde da di sé, al di là della piaga dolente dei polmoni, rinvia piuttosto al Leopardi, il grande interlocutore dei tre mesi di Journal. Non vi è contiguità fra l'infelicità leopardiana e la malattia fisica: rimangono due distinti, elementi che non giungono mai a fondersi e elaborarsi in un composto molecolare. È appena il caso di ricordare un passo della notissima lettera al De Sinner del 24 marzo 1832: "Mes sentiments envers la destinée ont été et sont toujours ceux que j'ai exprimés dans Bruto minore. Ç'a été par suite de ce même courage, qu'étant amené par mes recherches a une philosophie désespérante, je n'ai pas hésité a l'embrasser toute entière; tandis que de l'autre côté ce n'a été que par effet de la làcheté des hommes, qui ont besoin d'ètre persuadés du mérite de l'existence, que l'on a voulu consi-dérer mes opinions philosophiques comme le resultai de mes souffrances particulières, et que l'on s'obstine à attribuer a mes circostances matérielles ce qu' on ne doit qu' a mon entendement. Avant de mourir, je vais protester contre cette invention de la faiblesse et de la vulgarité, et prier mes lecteurs de s'attacher a détruire mes observations et mes raisonnements plutòt que d'accuser mes maladies".
L'immagine che Matilde da di sé, al di là della piaga dolente dei polmoni, rinvia piuttosto al Leopardi, il grande interlocutore dei tre mesi di Journal. Non vi è contiguità fra l'infelicità leopardiana e la malattia fisica: rimangono due distinti, elementi che non giungono mai a fondersi e elaborarsi in un composto molecolare. È appena il caso di ricordare un passo della notissima lettera al De Sinner del 24 marzo 1832: "Mes sentiments envers la destinée ont été et sont toujours ceux que j'ai exprimés dans Bruto minore. Ç'a été par suite de ce même courage, qu'étant amené par mes recherches a une philosophie désespérante, je n'ai pas hésité a l'embrasser toute entière; tandis que de l'autre côté ce n'a été que par effet de la làcheté des hommes, qui ont besoin d'ètre persuadés du mérite de l'existence, que l'on a voulu consi-dérer mes opinions philosophiques comme le resultai de mes souffrances particulières, et que l'on s'obstine à attribuer a mes circostances matérielles ce qu' on ne doit qu' a mon entendement. Avant de mourir, je vais protester contre cette invention de la faiblesse et de la vulgarité, et prier mes lecteurs de s'attacher a détruire mes observations et mes raisonnements plutòt que d'accuser mes maladies".
Nelle ventinove lettere
scritte al padre, prima e dopo l'erompere della tisi, Matilde si
mostra "quasi testardamente allegra", con parole di fiducia
e di ottimismo: "Per giustificare la sua indifferenza, il suo
bisogno di solitudine, o la sua riluttanza ad alterare in qualsiasi
modo e con qualsiasi emozione — magari con un viaggio in Toscana —
la sua tranquillità di valetudinario dalle rassicuranti abitudini
coniugali — il padre non perde occasione per tingere la propria
vita a propria o quella della moglie Teresa, sempre travagliata e
sempre opprimente. Che il padre goda ottima salute, e sia pieno di
gioia dopo la bella traversata di un lago, la figlia lo deve sapere
da altri. Cosi alle eterne lagne sulla tosse e sugli insuperabili
acciacchi di una coppia di media e lunga vita, fa riscontro la
gaiezza, la gioia di vivere e la capacità di sperare di una ragazza
afflitta da uno di quei mali che non perdonano" (Garboli pp.
28-29).
Nel diario, a tu per tu
con se stessa, l'immagine di Matilde sostanzialmente non cambia.
Anche nei momenti di più intima e sofferta comunicazione, come nel
passo datato 24 marzo, osserviamo la stessa capacità di
obiettivazione, di dirsi la verità quasi freddamente, anche quando
l'autodiagnosi è tale da aprire la porta ad ogni possibile
elaborazione narcisistica. Il testo è scritto originariamente in
francese: lo citiamo nella traduzione compresa nel volume curato da
Garboli: "Tutti i miei malesseri vanno ricondotti alla fragilità
nervosa: risento a tal punto di qualunque turbamento fisico o morale
che una minima cosa riesce quasi a farmi ammalare! Mi pare che la mia
sensibilità si accentui di giorno in giorno e che i miei nervi
diventino sempre più irritabili. Ciò che sfiora appena gli altri mi
ferisce a sangue e sento il mio scarso coraggio abbandonarmi quando
penso che nella vita qualche scossa è inevitabile! Se non riesco a
diventare un po' più forte, come farò mai? Ripongo tutta la mia
fiducia nel buon Dio, sento che la mia debolezza è estrema! Ci sono
momenti in cui una profonda malinconia si impossessa del mio animo,
senza che vi sia un solo motivo a giustificare il turbamento che si
desta dentro di me. In questi periodi soffro moltissimo! Tutte le
sventure del passato, i più piccoli contrattempi del presente e
l'orribile incertezza del futuro mi si offrono alla mente con tale
immediatezza e mi turbano a tal punto che resto come schiacciata
sotto il peso di una nuova sventura" (pp. 171 -172 ).
Matilde scoprì Leopardi intomo al 1850. Il libro dei Canti le fu prestato da un giovane di nome Turrini, da identificarsi forse in Giuseppe Turrini. Osserva Garboli: "Un giovane di ventiquattro anni che presta i Canti di Leopardi a una ragazza di venti, alla figlia di Manzoni — niente di più ovvio, ma nessun manuale di storia letteraria ce lo ha mai raccontato, con tutto il parlare che pure s'è fatto e ancora si fa intorno a questa dicotomia, a questo contrapporsi di valori e di persone prime, Manzoni e Leopardi. Un evento che avrebbe potuto succedere, e che sappiamo che è successo" (p. 83).
Matilde scoprì Leopardi intomo al 1850. Il libro dei Canti le fu prestato da un giovane di nome Turrini, da identificarsi forse in Giuseppe Turrini. Osserva Garboli: "Un giovane di ventiquattro anni che presta i Canti di Leopardi a una ragazza di venti, alla figlia di Manzoni — niente di più ovvio, ma nessun manuale di storia letteraria ce lo ha mai raccontato, con tutto il parlare che pure s'è fatto e ancora si fa intorno a questa dicotomia, a questo contrapporsi di valori e di persone prime, Manzoni e Leopardi. Un evento che avrebbe potuto succedere, e che sappiamo che è successo" (p. 83).
Questo particolare del
vissuto, degno di un 'invenzione romanzesca, di un'Antonia Byatt
italiana, se ce ne fossero, attrae come una rivelazione l'interesse
del curatore. Come si consumò quell'incontro? I "fatti" a
nostra disposizione, ricostruiti da Garboli, sono quelli che seguono.
Matilde ricopiò buona parte dei canti leopardiani servendosi di un
album e di un quaderno, costituendo un'antologia di uso personale e
riversando le proprie impressioni di lettrice, per quel che resta a
noi, nel Diario. Si tratta, rileva Garboli. di un referto di lettura
di straordinario valore culturale e umano. La lettura di Matilde. una
delle più precoci di cui si abbia notizia, è anche unica per
intensità emotiva. Si tratta di una lettura "non letteraria",
una lettura "dove l'anima è in gioco". Garboli rinvia,
saltando la prima esperienza leopardiana del De Sanctis. appena
precedente, al vero termine di confronto, alle pagine di Gioberti nel
Primato. Per Matilde la lettura dei versi di Giacomo è addirittura
insostenibile: "Leggendo Leopardi" scrive il 23 gennaio
"devo spesso chiudere il libro: questa lettura mi stremae non
posso farla che a tratti. Resto come schiacciata sotto la bellezza e
tristezza dei suoi versi" (p. 1651. Si trattò, dice Garboli con
bella espressione, d'una lettura dal "di dentro", fino al
punto da farci pensare che Silvia e Nerina, le due fanciulle
leopardiane, non siano che "Matilde stessa", un capitolo
della propria autobiografia riflesso nella pupilla di un altro. Ma
c'è forse qualcosa in più, che è facile, e per me inevitabile, far
scaturire dalle parole di Garboli. Matilde. assorbita fino al
deliquio entro il libro dei Canti, presta la propria immagine
a un evento letterario, reintroducendolo e dandogli seguito nel
vissuto: si fa segno vivente di un messaggio che viene da una realtà
formale e, incarnandolo, ne offre la decifrazione. In lei Silvia e
Nerina, fanciulle lunari ormai tramontate, consegnate alla morte e
per sempre mute, si rianimano e rispondono. L'insopportabilità della
lettura leopardiana ha la sua radice in un fenomeno assai più
marcato di una identificazione empatica. Matilde viene eletta a
medium, si fa voce in cui si risolve il silenzio delle fanciulle
leopardiane e le accade di dialogare con il poeta e di leggere, nella
memoria amorosa di lui, nelle parole che la invocano, il proprio
destino non ancora adempiuto. Questo incontro si sarebbe perso nei
mille disguidi dell'essere senza lasciar segno di sé, se una serie
di eventi che è stato possibile ricollegare fra loro — l'esistenza
di Matilde, il rapporto con il padre scandito dalle lettere fra i
due, il gesto gentile di Giuseppe Turrini — se tutti questi "fatti"
in cui si esprime e si codifica un senso, assume realtà una
sfumatura del possibile, non fossero stati inseguiti, rintracciati,
connessi fra loro e interpretati. Il saggio introduttivo di Garboli
al diario di Matilde decodifica e traduce in una nuova forma un
fantasma del passato, restituendolo all'esistenza e permettendoci di
incontrarlo e assumerne cognizione.
Da “Linea d'ombra”
n.82, maggio 1993
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