Corrado Alvaro da giovane |
Un paese ed altri
scritti giovanili (1911-1916) è una raccolta di scritti inediti
di Corrado Alvaro appena pubblicata da Donzelli. Ne parliamo con il
curatore del volume a cui va anche il merito della scoperta dei
preziosi testi. Il professor Vito Teti è ordinario di etnologia
presso la facoltà di lettere e filosofia dell’Università della
Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di antropologie e
letterature del Mediterraneo.Tra gli intellettuali meridionalisti più
accreditati, Teti si è occupato negli anni di percorsi della
costruzione identitaria, di antropologia dei luoghi e dell’abbandono,
del rapporto tra antropologia e letteratura. Per conto della Rai ha
realizzato reportage fotografici e numerosi documentari etnografici.
Dunque, professor
Teti, le è toccato di scoprire degli inediti di Corrado Alvaro, che
oggi compongono un’antologia da lei stesso curata e pubblicata da
Donzelli. Com’è avvenuto?
Le scoperte d’inediti e
manoscritti sconosciuti, anche quelli lasciati dai grandi scrittori,
hanno, insieme, qualcosa di casuale e, insieme, di misterioso e di
magico. Hanno un destino simile a quello delle opere pubblicate:
sfuggono alle intenzioni del loro autore. Provo a riassumere quello
che dovrebbe costituire un lungo racconto. Il 21 aprile 1940 Corrado
Alvaro riceve in Campidoglio un riconoscimento dall’Accademia
d’Italia. È la consacrazione anche “ufficiale” di uno
scrittore che aveva ormai conquistato grande riconoscimento della
critica e l’apprezzamento del pubblico. La lettura dei giornali,
che riportano l’evento, scatena in Domenico Lico, in quel periodo
farmacista ad Isca sullo Ionio, «un’onda di ricordi, vivi e
piacevoli». Lico era nato a S. Costantino Calabro nel 1893, due anni
prima di Alvaro, da una famiglia proprietaria di terre e benestante.
È tra i banchi del liceo Galluppi di Catanzaro – siamo negli anni
compresi tra il 1911 e il 1914 – che i due si conoscono e stringono
una forte e intensa amicizia; sono questi, anche, gli anni che vedono
il primissimo avvicinamento di Alvaro alla letteratura. Lico, come
ricorda nella Biografia su Alvaro, era tenuto in grande
considerazione dal padre di Alvaro, che non a caso lo sceglie come
padrino di battesimo del figlio Massimo nato nell’aprile 1914.
Per Lico il giornale in
cui legge del riconoscimento ufficiale ad Alvaro agisce come una
sorta di madeleine proustiana: gli scatena il ricordo di altri
giornali, altri scritti, altre opere. Guarda con un nuovo sguardo le
innumerevoli carte di Alvaro, amorevolmente conservate, quasi
immaginando che sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe potuto
tirarli fuori per la loro qualità letteraria. Lico comincia a
pensare a un libro, nel quale vuole raccontare il periodo al liceo
Galluppi di Catanzaro e la vita di soldato e di poeta di Alvaro.
Inizia a mettere assieme e raccogliere manoscritti e lettere
dell’amico Alvaro in suo possesso o di altri compagni del periodo
catanzarese. Lico, tra l’altro, entra in possesso delle lettere che
Alvaro invia dal fronte a Giuseppe Foderaro, amico conosciuto ai
tempi del Ginnasio a Catanzaro, dove era entrato in contatto con le
famiglia più in vista dell’ambiente borghese cittadino.
Con lavoro certosino, con
frenesia, raccoglie in pochi mesi le lettere che Alvaro invia dal
fronte e poi durante il periodo di degenza, spinto dalla volontà di
ricostruire le vicissitudini che lo scrittore vive dopo la partenza
dalla Calabria. Recupera le lettere inviate da Alvaro, durante la
guerra, ad Ottavia Puccini, nipote del conte Manfredi, deputato al
Parlamento, che aveva conosciuto a Firenze durante il suo soggiorno
quale allievo ufficiale.
Per varie ragioni, che
ricordo nel libro, non da ultima la perplessità di Alvaro su questa
iniziativa dell’amico di un tempo, questi materiali e una biografia
su Alvaro non vedranno mai la luce. Nel 1945 Lico lascia Isca e torna
a San Costantino, dove muore nel 1955, un anno prima di Alvaro. Gli
«innumerevoli stracci» sono consegnati da Domenico Lico ai figli
Raffaele, Rita (che vive ed abita a Stefanaconi) e Vittoria.
Raffaele, nato nel 1924 e morto nel 1980, medico cardiologo, porta le
carte del padre nella vicina Vibo in cui si era trasferito. Da Teresa
Coppola ha quattro figli Domenico (1957), Gaetano (1958), Cesare
(1960), Dorotea (1962), che si spostano in varie parti d’Italia. La
scelta di professioni liberali (medici, impiegati ecc.) e la
dispersione degli eredi di Lico, con ogni probabilità,
contribuiscono a che carte e documenti raccolti da Domenico restino
sostanzialmente chiusi in un cassetti. Gaetano Lico, prima di
spostarsi da Vibo, nel 2008 consegna il tutto a Gilberto Floriani,
direttore del Sistema Bibliotecario Vibonese, con la preghiera
(suggellata da una scrittura d’impegno), di custodire, guardare,
verificare l’importanza di quelle carte e il loro possibile uso e
se valesse la pena diffonderle o pubblicarle. È a questo punto che,
grazie a Floriani che mi coinvolge come studioso e conoscitore di
Alvaro, oltre che come Direttore del Centro di Antropologie e
Letterature del Mediterraneo dell’Unical, che comincia per me
un’avventura umana, culturale e del tutto inattesa, impensata, che
ho vissuto quasi come il compiersi di un destino e come il
destinatario di segreti e memorie che andavano custodite e
salvaguardate. Mi ero molto occupato di Alvaro e avevo avuto in mano
altri suoi manoscritti, ma quando, però, ho incominciato ad
osservare, sfiorare, leggere scritti giovanili, prime prove di
autore, bozze di racconti, poesie, un dramma compiuto, il racconto e
quando sono apparse, carte di cui nulla si sapeva, né si immaginava
l’esistenza, miracolosamente, e quasi per caso, salvate, mi è
stato difficile non pensare a una sorta di sorpresa, di dono, a un
qualche segreto che mi veniva affidato, per via misteriosa, dallo
«scrittore dei segreti». Una parte dei documenti viene, oggi –
grazie, anche, al sostegno di Mario Bozzo, presidente della
Fondazione Carical di Cosenza – pubblicata in questo volume che
permette un importante approdo al mondo letterario giovanile dello
scrittore calabrese. Un’iniziativa culturale ed editoriale che ha
visto dunque il dialogo e la collaborazione tra studiosi,
ricercatori, istituzioni culturali, una fondazione bancaria, un
editore tutti calabresi e che mostrano, pertanto, come anche in
questa terra di frammentazioni e di divisioni sia possibile operare
assieme per dare un’altra immagine di una regione capace di parlare
al mondo esterno con i suoi autori più importanti, con le sue
narrazioni culturali alte, ariose, europee, lontane da quei localismi
e da quelle retoriche che concorrono a marginalizzare la regione più
di quanto non facciano frettolosi osservatori esterni.
Di che materiale si
tratta?
Siamo in presenza di un
numero notevole di carte, manoscritti, appunti, lettere, poesie,
racconti, immagini di Alvaro e anche di tanti scritti di Lico sul
compagno di un tempo, di lettere inviate ad Alvaro dalla Puccini, dai
familiari, dagli amici. Lo scrittore stesso, quando incontra Lico a
Isca nel 1941, si sorprende della tante carte, rinvenute dall’amico,
se ne ricorda appena e sembra non dargli molta importanza. Era stato
lui a consegnare a Lico le poesie e le prove di racconto che non
erano uscite solo perché qualche rivista locale si era rifiutata di
pubblicarle e perché Alvaro e compagni non avevano fondi per
stampare un volume a cui avevano pensato. Alvaro aveva poi scritto a
molti editori nazionali ed aveva fatto delle letture pubbliche di
poesie. Molte poesie non le aveva pubblicate per paura del giudizio
del padre e le aveva salvato grazie alla madre e agli amici cui le
consegnava.
I tanti interventi, le
correzioni, le diverse versioni mostrano che il giovane Alvaro non
considerava irrilevanti tali pubblicazioni. Un materiale costituito
da copie di lavoro sulle quali Alvaro interviene a cassare,
modificare, ritoccare. Consapevole della propria vocazione
letteraria, il giovanissimo Alvaro si avvicina al mondo della
letteratura, correggendo, cancellando, rielaborando.
L’opera pubblicata da
Donzelli raccoglie un corpo di scritti giovanili inediti di Corrado
Alvaro, risalenti al periodo 1911-1916: cinquanta componimenti
poetici (composti tra il 1912 e il 1915, che vengono commentati da
Pasquale Tuscano, uno dei maggiori studiosi di Alvaro e profondo
conoscitore della storia letteraria e culturale italiana e
calabrese), cinque racconti brevi (datati, verosimilmente, tra il
1912 e il 1914: Giovedì di passione a San Luca, Raggio di
sole, Matrimonio in quattro, Verbo di modo finito e
Chi non sa vivere), il dramma Odio per amore (scritto
tra il 1911 e il 1912), e un racconto lungo – che dà il nome alla
pubblicazione – intitolato Un paese.
Scritto da un
giovanissimo Alvaro tra il 1911 e il 1912 (prima ancora del libretto
su Polsi) è Odio per amore che vuole essere la celebrazione
dell’odio che, con forza, corrode gli ultimi barlumi di amore, in
una società in cui l’onore domina i destini degli uomini e in cui
i personaggi si muovono in preda a deliri di follia che, alla fine,
annientano qualsiasi speranza di rinascita. Il dramma che doveva
essere «corretto a ferro e fuoco», non è stato rappresentato
perché una compagnia teatrale che si esibiva a Catanzaro aveva
preteso una somma cospicua per dei giovani studenti abbastanza
squattrinati. Alvaro manda all’amico anche numeri di riviste («La
Riviera Ligure»), dove aveva pubblicato.
Nel racconto Verbo di
modo finito – Racconto a Maria, ad esempio, Alvaro si
immedesima in Guido Albarosa e Maria non è che la Signorina Maria
F., che come si ricorderà, turba il giovane in occasione della sua
prima conferenza. Alvaro scrive di questa novella: «Pensata il 13
gennaio 1914 – scritta e corretta il 27 febbraio ore 12 -2 a. m. e
8-11 a.m. mandata alla “Scena Illustrata” il 1 Marzo 1913». La
distrazione o la concentrazione del pensiero, scrive Lico, faceva
perdere ad Alvaro la nozione del tempo. A questa vicenda giovanile
Alvaro s’ispira per scrivere L’amata alla finestra.
Il testo più
significativo e importante è il racconto: Un Paese. Tentativo di
romanzo qualificato da Alvaro come il primo tentativo di Gente
in Aspromonte fatto a Livorno nel giugno 1916 (consegnato
all’amico Domenico Lico nel 1940), tra un’operazione chirurgica e
l’altra, dopo le ferite riportate in combattimento nella prima
grande guerra. In un periodo di disagio e di attesa, in piena guerra
in Alvaro premevano dunque le memorie del mondo di origine e l’idea
e nascevano le pagine di quella che sarebbe diventata la sua opera
più nota, più studiata e più celebrata.
Un paese si rivela
una felice anticipazione di tante tematiche e atmosfere dove – come
scrivo nell’introduzione al volume – «per l’appunto il paese
diventa il protagonista, il microcosmo, il centro, l’axis mundi,
il punto di partenza da cui Alvaro non si allontana mai nelle sue
opere […]. Il paese còlto nella sua varietà e nella sua fissità,
nella sua mobilità e nelle sue leggende. Il paese «caldo e denso
come una mandra» di Gente in Aspromonte o il «paese
abbandonato» che si «sfascia rapidamente» con la chiesa spalancata
e l’altare spoglio. Il paese caldo, dove i pastori tornano con le
bestie e si siedono al fuoco o il paese che d’inverno diventa tutto
un torrente torbido e scende a valle». Un microcosmo, quello
raccontato in Un paese, che in Gente in Aspromonte
lascia il posto ad un respiro più ampio, contagiato dagli stilemi
letterari contemporanei.
L’incipit di Un
paese mostra con puntualità come Alvaro stia parlando del suo
paese, di S. Luca: «Il comune di Santa Venere non si legge in
nessuna carta geografica: nessuno si è accorto di lui appisolato
com’è sulla schiena di Aspromonte». Subito appaiono il mare
lontano e il fiume Bonamico, che, insieme alla montagna,
caratterizzano la memoria e la scrittura di Alvaro. Protagonista del
racconto è il maestro Antonio, che s’innamora della giovane figlia
del segretario comunale, che si oppone al matrimonio per invidie e
pretese tipiche dei benestanti. Il segretario osserva con diffidenza
ed animosità il giovane. «Se lo ricordava ragazzo e mal vestito. E
come gli volevano bene le donne del paese! Poi, una mattina, lo vide
salire la montagna, per il sentiero che fanno i muli che vanno
all’altro versante, con un paio di scarpe di vacchetta, nuove e
imbullettate, sulle spalle, e un vestitino meno lacero». Il maestro
Antonio andava a Bagnara, attraversando le montagne, per studiare da
uno zio prete e da lì sarebbe tornato con un titolo di studio e
pieno di ambizione, con la voglia di riscatto e di rivalsa, e anche
con il desiderio di fare un buon matrimonio e assicurare così studio
i figli in qualche città. Il maestro Antonio è richiesto e
apprezzato per la sua cultura e bravura nel parlare, per la sua
capacità di organizzare e animare le feste e i riti della comunità,
dai pochi notabili del paese e dalle donne. Aveva fama di seduttore.
Egli, per il Natale, «cantava il Gloria con tutta l’anima e tanta
bravura» e, durante il rito del maiale, tiene testa, con la sue
conoscenze letterarie, al parroco del paese.
Al parroco il maestro
Antonio, che conosce bene le dinamiche sociali e politiche del paese,
si rivolge perché interceda presso il padre di Antonuzza, che alla
fine, in occasione di una campagna elettorale, descritta da Alvaro
con grande ironia, acconsente, mal volentieri, al matrimonio. Non è
difficile capire che egli sta raccontando la storia del padre, della
madre, del nonno, che si oppone al matrimonio, quasi con le stesse
immagini e le stesse parole che poi torneranno in Memoria e vita,
dove scrive: «Al nostro paese non c’era scuola: un vecchio abate
impartiva un po’ d’istruzione ai ragazzi privilegiati. Mio padre
valicò dunque l’Aspromonte a piedi, scalzo, con le scarpe appese
pei lacci alla spalla per non consumarle, e per mettersele nuove
quando avrebbe fatto il suo ingresso nel paese marino […]Da allora
fece un patto con l’avvenire: che quanti figli avesse li avrebbe
fatti studiare sul serio, e mantenne il suo proposito».
In Memoria e vita,
Alvaro ricorda con affetto e ammirazione il padre: la «sua
considerazione e attenzione verso tutte le cose, sensibile, pronta,
fantasiosa» da cui «proveniva forse in lui quello speciale ingegno
per cui era all’occorrenza buon falegname, viticultore, muratore,
apiaio, ogni mestiere che si metteva a fare», come anche cantare
nelle grandi occorrenze. «Una ne faceva e cento ne pensava. Era
ordinatissimo ed economo» e aveva «un viso antico, colore di
terracotta, gli occhi castani mobili e intelligenti, piuttosto
maliziosi». La prima vittoria del padre fu il matrimonio con una
ragazza borghese, la madre sedicenne, figlia di un uomo forte e
testardo, di cui aveva sentito parlare con timore e con cui il padre
non era più in rapporto. In Memoria e vita Alvaro parla della
madre sedicenne, al momento della sua nascita, dei riti del Natale,
che vedevano protagonista il padre, che suonava l’organo, i litigi
del padre con il nonno. Sono immagini e motivi già delineati in Un
paese ed è probabile pertanto che Alvaro riprenda questo
racconto giovanile proprio per scrivere il celebre ricordo del padre,
all’indomani della sua morte nel 1941. Brillano, a volte con
l’intensità e la tenuta di un lampo, a volte con l’intensità di
un diluvio, i riferimenti al torrente Bonamico; lo zampognaro; in
parte, l’arciprete donnaiolo; il maestro elementare e le sue vanità
letterarie; donna Antonuzza e il basilico; il medico condotto; il
segretario comunale; la festa della macellazione del maiale con l’
interminabile “mangiata”, calata, con tutta la dimensione
umoristica, in un amplissimo, convulso periodo come il Bonamico in
piena.
La descrizione della
vigilia di Natale, quella del pranzo del maiale, le riunioni e le
diatribe politiche, le competizioni e gli imbrogli elettorali sono
squarci in cui il narratore rivela uno sguardo di antropologo ed
etnografo, tanto è puntuale nella narrazione di scene di vita
quotidiana e festiva. Quelle che possono apparire delle caricature,
frutto di uno sguardo ironico, sono descrizioni che restituiscono il
senso di una realtà: l’esagerazione, l’ironia, le esasperazioni
non sono un’invenzione, ma fanno parte di quel mondo di origine che
Alvaro aveva conosciuto, ascoltato, sentito da bambino e che
probabilmente gli tornava in mente mentre era ferito e a Livorno, e
da quel mondo si sentiva lontano e a quel mondo voleva tornare.
Cosa c’è in questi
scritti che possa integrare la nostra conoscenza del noto scrittore?
Contribuiscono a
conoscere meglio il cammino di uno scrittore, le sue prime prove, le
sue aperture, le prime delusioni e i primi successi, ma anche a
ricostruire un ambiente culturale periferico che però sapeva aprirsi
e anche per conoscere la vita di una città di provincia vivace e
vitale. Le carte del Fondo Lico consentono di individuare meglio le
modalità giovanili di approccio alla composizione letteraria e il
processo redazionale che conduce alla maturazione del testo.
Forniscono altri
documenti letterari preziosi, anche attraverso le corrispondenze
epistolari (esistono altri epistolari di Alvaro ben curati e
pregevoli), vicende rilevanti per meglio conoscere Alvaro uomo e
letterato. Sembra possibile ancora ampliare le conoscenze sulla sua
formazione di scrittore e ripensare, anche con un approccio
antropologico, i legami tra la produzione letteraria e l’ambiente
sociale, culturale e familiare di provenienza. Questi «stracci»
sono ulteriori, parziali, tracce per ripensare, in maniera più
approfondita, il formarsi di quelle memorie di un mondo sommerso che
costituiscono il progetto di una vita di scrittore e di capire i
percorsi per cui la letteratura è vita e la vita diventa
letteratura, senza confondere però vita, memoria, autobiografia,
poesia.
Un discorso, a parte,
meritano gli scritti su Alvaro. Lico probabilmente porta a termine la
Biografia su Alvaro, con in appendice lettere e documenti (188
fogli manoscritti densi e fitti e viene suddivisa in sette capitoli)
tra la fine del 1940 e i primi mesi del 1941, anche se poi ci tornerà
più volte con aggiunte, correzioni e precisazioni. Il racconto della
formazione giovanile e della creazione delle prime opere di Corrado
Alvaro, che si scopre «poeta» nel suo paese d’origine e nella sua
famiglia, e che questa scoperta (suscitata, incoraggiata, alimentata
dal padre) che comincia ad affiorare, tra paure e delusioni, sensi di
colpa ed entusiasmo, applicazione e passione, nel Collegio gesuita di
Mandragone e al Liceo Galluppi di Catanzaro, dove pure Alvaro scopre
quanto sia duro e faticoso cambiare condizione sociale attraverso lo
studio e fa esperienze anche umilianti per il suo essere giovane
libero, geniale, ribelle.
Il racconto della fuga
dalla Calabria, dell’arrivo a Roma e poi a Firenze, dei mesi che
precedono la guerra, dei mesi al fronte, del ferimento, del primo
dopoguerra, ripensato attraverso lettere che Alvaro scambia con
amici, familiari e con una «madrina di guerra», la giovane contessa
Ottavia Puccini, conosciuta a Firenze.
Nell’introduzione al
volume lei ha scritto: «L’ombra di Alvaro mi accompagna da sempre,
a volte mi ossessiona e mi sovrasta, benevola». Ne vuole parlare?
Corrado Alvaro è uno
degli scrittori che più amo e che, forse, meglio conosco. Alvaro è
stato saggista, giornalista, scrittore, memorialista, autore di
teatro, raffinato traduttore (fin da quando studiava a Catanzaro),
conoscitore delle lingue e del mondo classico, delle lingue e delle
letterature europee, viaggiatore curioso, autore di note di viaggio
(in Turchia, in Russia, in Francia, in Italia, nel Sud, in Calabria)
indimenticabili e attuali. È stato responsabile di pagine culturali,
collaboratore de “La Stampa” e de “Il Corriere della Sera”
(di riviste, altri giornali) con importanti impegni nel mondo
editoriale, nel cinema, nella radio. Alvaro spazia dalla critica
cinematografica a quella letteraria, dagli articoli di scienza e
quelli di costume, dai commenti alla vita politica e sociale
all’interesse per le grandi questioni che affrontava il mondo
separato in blocchi, l’uscita dall’Italia dalla guerra e anche il
passaggio dalla tradizione alla modernità, dalla civiltà
agro-pastorale alla civiltà delle macchine. Certamente è lo
scrittore che ha colto, narrato e interpretato l’antropologia
profonda della Calabria, segnalandone contrasti, bellezze, miti,
tortuosità, asprezze. Le sue analisi e riflessioni sociali e
politiche sono talmente puntuali e penetranti da essere punto di
riferimento per storici e studiosi dell’Italia tra le due guerre.
Ogni definizione della poetica e dello stile di Alvaro rischia di
apparire riduttivo. Il suo realismo, il suo riferimento al mito, il
dialogo con i classici, l’apertura alla letteratura europea ne
fanno un autore unico. La sua vocazione è quella di indagare la
cultura regionale quando incontra la grande tradizione italiana ed
europea. Non a caso dedica pagine fondamentali a Campanella e cerca
gli autori della sua regione che hanno dato un apporto alla cultura
moderna. Tradizione e modernità non sono termini inconciliabili, ma
dialettici, inseparabili.
Credo sia stato unico
nella sua capacità di restare fedele e ancorato a un luogo e insieme
nelle facilità di aprirsi al mondo, alla cultura esterna, a
sprovincializzare sia le culture regionali che quella nazionale, che
egli non vede separate. La sua scrittura, come ho mostrato in tanti
miei saggi, è densamente e profondamente antropologica. Ho
considerato fin da giovanissimo, quando ero ancora al liceo, un
“maestro” di stile e di scrittura e, nel tempo, sempre più punto
di riferimento per “comprendere” la Calabria, la società
italiana, il passaggio dalla civiltà contadina alla modernità. Un
«maestro» di etica: Alvaro è stato uno «scrittore morale».
Aggiungo che ho avuto una
certa frequentazione con il figlio Massimo, di cui custodisco una
lettera a me inviata in cui mi racconta del rapporto di Alvaro con
l’acqua, e che sono stato profondamente legato a Don Massimo e
adesso ai suoi nipoti. Ho visto nel corso degli anni e delle mie
ricerche, molti fogli manoscritti e dattiloscritti di Alvaro: nella
casa di don Massimo, fratello dello scrittore, con cui ho avuto una
lunga frequentazione, culturale e amicale, e presso la famiglia di
suo nipote Mario Saccà (figlio di Maria, sorella di Alvaro) e a Roma
nella casa del figlio Massimo, grazie alla cui disponibilità e
generosità, ho avuto modo di curare e fare pubblicare (dalla
Monteleone editore di Vibo Valentia), in una collana da me diretta, I
libri di cento pagine. Sintesi del pensiero umano”(1993), una
raccolta di articoli pubblicati in vari periodi su «La Stampa», e
Viaggio in Turchia (1995; ed. or. 1932), con una bella e intensa
presentazione di Mario Fortunato. Per queste ragioni si può
immaginare l’emozione e lo stupore, la commozione e la sorpresa che
mi hanno assalito quando mi sono trovato davanti poesie, racconti,
lettere, fotografie del giovane Alvaro, manoscritti, con la sua
grafia inconfondibile, a volte leggibile, altre volte veloce, con le
sue correzioni e i suoi interventi sui testi, che apportava nelle
primissime prove di autore, a conferma che scrittore era nato e tale
si era sentito da giovanissimo, non lasciando nulla al caso, e
cercando sempre quella che lui considerava la perfezione.
Alvaro e la Calabria.
Che rapporto è?
Un legame intenso,
profondo, controverso, sofferto, dolente, mai interrotto. Alvaro vive
pochi anni nel suo paese e in Calabria, vi tornerà di rado e
malvolentieri, anche per le invidie e le ostilità paesane nei
confronti del padre, ma da quel suo universo non si staccherà mai.
Uno dei temi portanti della poetica di Alvaro è l’amore viscerale
per il suo paese, che racconta in pagine stupende, in Gente in
Aspromonte, in Calabria e in tanti altri scritti e
racconti. S. Luca, il paese d’origine, Polsi, il Santuario
nell’Aspromonte, dove si svolge la festa della Madonna della
Montagna, assunto a metafora dell’erranza, dei viaggi, delle ansie,
dei desideri dei ceti popolari calabresi: è questo il «mondo
sommerso» di Alvaro che sembra avere, nonostante le tensioni e i
movimenti che lo attraversano, la saldezza, la forza e la compattezza
dello shetetl di Roth e di altri scrittori ebreo-orientali. Mentre
viveva a Berlino ebbe, come ricorda un altro grande scrittore
calabrese, Saverio Strati, contatti personali con Benjamin, con
Brecht, e lesse le opere dei grandi scrittori di lingua tedesca, da
Kafka a Roberto Walsen, da Doblin a Joseph Roth, dai fratelli Mann e
Hermann Hesse.
Odio e amore, lontananza
e distanza, comprensione e fuga. Luogo della memoria e
dell’impossibile ritorno, della nostalgia che consuma e logora e
che, qualche volta, acquieta. Come l’acqua che è elemento puro di
distruzione. Non è concessa una doppia appartenenza, una doppia
identità, ma una personalità lacerata, frantumata, come tante
schegge, che deve trovare un senso del vivere e dell’abitare in un
mondo anche ospitale che comunque ci sembrerà sempre ostile, e che
impedisce ogni reale ritorno, una volta che lo si è abbandonato, nel
paese dei padri, che è diventato lontano ed estraneo già al momento
della partenza. Quel mondo perduto, per sempre, dove non potrà
tornare, perché ogni ritorno è impossibile, sarà narrato da Alvaro
con pietas e grande rispetto, come un mondo dell’innocenza e
dell’infanzia, dove tutto è accaduto, ma anche segnalandone le
asprezze e le angustie. Alvaro ritorna e riprende motivi, immagini,
figure del mondo di origine, del paesaggio infantile e della
giovinezza. In fondo egli sembra scrivere, da postazioni diverse, la
sua “biografia”, quanto è accaduto, per sempre, nell’infanzia
e questo lo vediamo soprattutto nel rapporto con il padre e con il
paese. Metafore e simboli della cultura di origine ritornano nelle
sue opere, anche in quelle più lontane, apparentemente, dal suo
universo di appartenenza. Mi sono soffermato altrove sul motivo
dell’acqua (come elemento di distruzione e di salvezza, di
purificazione e di comunione), del cibo, dei pellegrini come figure
erranti. E come se Alvaro osservasse il mondo in cui è caduto con i
sensi, la percezioni, le immagini del mondo di origine.
Si può parlare di
un’eredità di Corrado Alvaro?
L’«eredità di Alvaro
intellettuale, letteraria, culturale è enorme, attuale, esaltante,
preziosa, come mostrano molti autori, saggisti, critici,
intellettuali italiani e calabresi. Non sempre però, questa eredità
viene riconosciuta nella sua verità e con le sue scomodità, assunta
criticamente, considerata come fonte di consapevolezza e di
responsabilità, ripensata come un testamento morale, di memoria e di
speranza. Alvaro, in Calabria, è più citato che letto e pensato.
Non si fa molto – anche se ci sono però rispettabili e
apprezzabili iniziative da parte di istituzioni, editori,
biblioteche, università, singoli studiosi che andrebbero
puntualmente ricordate- perché sia riconosciuto nella sua ricchezza,
complessità, originalità, nella sua modernità che egli viveva
sempre in rapporto con la tradizione, nel suo essere ancorato al
mondo di origine e impegnato, non senza fatica e dolore, a navigare
in mare aperto. Alle parole e alle dichiarazioni che ascoltiamo
durante rituali convegni e celebrazioni non seguono mai i fatti, le
iniziative adeguate e coerenti, l’impegno culturale e concreto
degli enti pubblici, del mondo della scuola e della politica,
dell’Università e degli intellettuali per fare conoscere Alvaro e
quegli scrittori meridionali e calabresi che hanno saputo e sanno
parlare anche all’Italia e all’Europa.
Calabria on web, 7
ottobre 2014
Nessun commento:
Posta un commento