Cuba, Un rito della santerìa |
L’AVANA - Nella vita
quotidiana dell’Avana c’è molta più magia di quanto si possa
pensare seduti nella penombra del patio dell’Hotel Nacional,
sguardo al Malecón. La crisi dell’esserci,
che Ernesto De Martino indicava come vacillamento e perdita della
presenza al mondo nel mezzogiorno italiano del dopoguerra, appare
all’Avana un pericolo costante, cui ovviare con strategie religiose
rigenerative quali la transe o lavori (trabajos)
e ammares, che sciolgono fatture e malocchi o, al contrario,
ne formulano.
Così, ad un’antropologa
che studia la reinvenzione della santería può accadere di
essere avvisata dall’affittacamere della casa particular in
cui dorme nel Vedado, di star attenta e di non intervistare
santeras/os di cui non ha previe referenze, di non parlare con
chiunque, perché «metti, se c’è una persona malata, potrebbero
rubarti la tua energia per darla al malato e poi ti ritrovi ammalata»
o perché «magari ti offrono un caffè per farti una macumba, così
poi ti innamori di un santero». Questa stessa padrona di casa, la
quale si dichiara a più riprese atea e non interessata a «esas
cosas», tornando sull’argomento durante un caffè mattutino,
qualche giorno dopo, commenterà che a Cuba ormai tutti si fanno
passare per santeros e babalawos.
Insistendo, davanti a
quello che interpreta come un eccesso di buona fede, mentre cerco di
spiegarle che il mio criterio euristico non riposa sul binomio
vero/falso e che l’incontro con i santeros «ciarlatani»
può anch’esso rientrare nella ricerca, per sottolineare i rischi
che corro, apre la credenza
della sala da pranzo e
assertiva dice: «Vedi questo è il mio altare, questo sono i miei
orichas, allora anch’io potrei essere una santera».
E si scopre che anche Dania, che in «queste cose» non ci crede, è
stata a consultare vari santeros, si è iniziata e ha fatto
iniziare sua figlia in età adolescente perché ammalata di dolori
allo stomaco che i medici non riuscivano a curare. La figlia
guarisce, Dania dice di non praticare più, però conserva i suoi
santi e ogni tanto, tra una telenovela e l’altra e un ospite
europeo e l’altro, gli fa una preghiera e un’offerta: «Non si sa
mai».
Nello stesso modo, non
credenti, parenti di credenti, lasciano che i loro familiari gli
facciano qualche trabajo o seguono il consiglio di compiere
periodiche limpiezas (pulizie), orientate alla persona ma
anche ad oggetti e luoghi. Una faccenda lustrale frequente riguarda
gli spazi della casa, da purificare da spiriti malevoli e dal
malocchio; un'altra, la macchina, il cui tetto deve rimanere cosparso
per una serie di giorni di una polvere bianca, formula determinata
principalmente dalla macerazione del guscio delle uova.
Il mercato religioso
cubano è molto più fluido e mobile di quel che la vecchia Europa
monoteista potrebbe immaginare. La santería o Regla Ocha,
definita all’inizio del XX secolo brujería, stregoneria,
nel libro Los negros brujos di Fernando Ortiz, è oggi
probabilmente la religione più diffusa a Cuba. Essa si mescola con
il culto d’Ifá e con un’altra regla sacra di origine
africana: il palo monte o Regla Cong, sistema di credenza dei
Congos, nome dato agli schiavi Bantu provenienti dall’Africa
centrale.
La santería e il culto
divinatorio d’Ifá, erano invece la religione degli schiavi
d’origine yoruba, chiamati a Cuba Lucumí: questo popolo del
sud-ovest della Nigeria e dell’est dell’attuale Benin,
organizzato in città stato, credeva negli orichas, sorta di
antenati mitici, divinità fondatrici del luogo e della dinastia
regnante.
La pratica della santería
è strettamente connessa a quella del palo monte ma anche a
varie forme di spiritismo, penetrate a Cuba durante il periodo
neocoloniale (1902-1952) sotto l’influenza statunitense. Una stessa
persona può «rayarse en palo» (iniziarsi), passare poi alla
santería e contemporaneamente, successivamente o alternativamente
praticare lo spiritismo. Lo stesso specialista religioso può
indirizzare il credente di cui è padrino o madrina verso uno
specialista dell’altra religione, stimando che per esempio una
messa spiritista o il tradizionale uso delle erbe dei paleros
aiuterà a risolvere il problema quotidiano che affligge l’adepto.
Ugualmente, può esser consigliata la partecipazione alle messe
cattoliche e la frequentazione delle chiese mentre il battesimo,
ritenuto una pratica utile al potenziamento della crescita
spirituale, è spesso indicato come necessario per l’iniziazione
del futuro santero.
La santería è
genericamente descritta come un sincretismo, termine tanto frequente
quanto mutevole, applicato anche al candomblé brasiliano. Ma
vari autori, a partire dagli anni ‘50, hanno contestato questa
definizione, chi per ragioni interpretative e etimologiche – Roger
Bastide, sostenitore della purezza del candomblé, il quale
preferiva il concetto di interpenetrazione di civiltà all’idea di
mescolanza espressa dal sincretismo - chi per ragioni ideologiche –
antropologi brasiliani critici verso la valenza coloniale o
neocoloniale del concetto, considerato troppo intrecciato a giudizi
di valore su una presunta inferiorità della religione dei dominati.
Il citato antropologo Ortiz, considerato oggi il padre degli studi
sulla cultura afrocubana, in un libro pietra miliare, El
contrapunteo cubano del azúcar y del tabaco – in cui tra
l’altro conia il termine «afrocubano» - propone una definizione
alternativa: la «transculturazione». Tornato sulle proprie
posizioni iniziali e sulla definizione della santería come brujería
sullo stimolo del suo discepolo mulatto Rómulo Lachatañeré,
l’autore del Manual de Santería (1942) in cui per la prima
volta viene affermata in maniera esplicita la volontà di
riabilitazione di questo sistema religioso, Ortiz si dedica
appassionatamente allo studio della cultura afrocubana.
In scambio dialettico con
l’antropologia britannica e in particolare con Bronislaw
Malinowski, il famoso patrigno del concetto di osservazione
partecipante, che firma l’introduzione del Contrapunteo,
Ortiz, desideroso di sostituire il termine etnocentrato di
acculturazione, identifica nella storia coloniale cubana il
«trapasso» di elementi della cultura africana e di quella bianca di
matrice spagnola: pur dominati, gli schiavi non son vinti, come
testimonia la resistenza ai dogmi egemoni espressa dalla santería,
fenomeno di transculturazione in cui si mescolano la religione
africana e il culto dei santi barocco. El contrapunteo,
pubblicato nel ‘40, è un denso e appassionante volume dallo stile
brillante, che combina il tono da saggio antropologico, la denuncia
sociale della condizione nera e le rivendicazioni razziali a un
carattere da feuilleton e romanzo da salotto, ricco di
citazioni tratte da cronachette, erbari, trattati medici, note e
apologie di gesuiti e viziosi cardinali del ‘700 romano nonché da
versi di poeti cubani o spagnoli quali Quevedo, Lope de Vega e Tirso
de Molina. In queste folte pagine, l’uragano culturale introdotto
dalla Conquista e dalla schiavitù e la relazione tra Cuba e l’Europa
sono ripercorse a partire da un dato strutturale: la fabbricazione,
diffusione ed esportazione del tabacco e la produzione dello zucchero
a Cuba.
Il termine "transculturazione" appare immerso in un affresco rievocante il
movimento delle navi che solcano l’oceano, circolando tra il
vecchio e il nuovo mondo e quello delle mani dei congos e dei lucumí
che avvolgono sigari precursori dei Partagas e Romeo e Julieta
ormai celebrati sinonimi della cubanità.
Nella santerìa fumano tabacco uomini e dei |
La storia del tabacco
permette di illustrare una prima transculturazione: quella
dall’ambiente dei suoi consumatori, gli indigeni taínos, al
mondo multietnico degli schiavi africani congos e lucumí, che nei loro riti
magico-religiosi conservano il carattere catartico del fumo, stimolo
per la possessione nella santería e nel palo monte,
repertorio materiale assieme ad altri elementi derivati stavolta dai
costumi dei brujos bianchi, quali l’aguardiente, il
vino seco bevuto dai soldati spagnoli e dai mercenari, le
candele e i ceri. Nella santería fumano tabacco uomini e dei. Il
sigaro distingue Changó, Eleguá e Ogún, orichas guerrieri
che maneggiano il fuoco.
Il secondo processo di
transculturazione studiato da Ortiz è il passaggio del tabacco,
deprecata yerba del diablo, dal contesto subalterno afrocubano
al suolo europeo, dove esso, introdotto nei salotti seicenteschi da
clero e cardinali, diviene sostanza che distingue la classe egemone.
Mentre il tabacco conquista il mondo, a Cuba esso viene onorato più
di Cupido e Bacco, cantato come dio benefico che solleva dai dolori
umani. Nell’800 diventa una seconda bandiera cubana, simbolo dei
mambises e della storia patriottica, come testimonia José
Martí, padre della lotta per l’indipendenza e eroe della nazione
repubblicana, nei suoi versi: «La hoja india, consuelo de
meditabundos, deleite de soñadores, arquitectos del aire, como
fragrantes del ópalo alado». Nuovamente icona alla fine del
periodo neocoloniale, il legame tabacco- cubanità si rinnova nella
voluta di fumo della rivoluzione e nei sigari dei barbudos e
del Che Guevara.
Ma torniamo alla
santería, che secondo il termine transculturazione proposto da
Ortiz, consiste in un sistema nuovo, bricolage specificamente cubano
di credenze africane e cattoliche, composto di riaggiustamenti e
reinvenzioni. Nel corso degli anni ‘40 e ‘50 gli studi di Ortiz,
Lachatañeré e Lydia Cabrera segnano un’epoca. La cultura
afrocubana, riscoperta dalle loro ricerche etnografiche, è valutata
come parte ingente del patrimonio nazionale cubano. Il passo
successivo sarà fatto con la rivoluzione. La santería, sincretismo
che combina il culto barocco dei santi spagnoli agli antenati mitici
yoruba (tra gli orichas-santos più noti:
Obatalá/Virgen de las Mercedes, Yemayá/Virgen de Regla,
Ochún/Virgen de la Caridad del Cobre, Changó/santa Barbara, Babalú
Ayé/san Lazzaro, Eleguá/ sant’Antonio di Padova), diventa il
simbolo di un’identità che lotta e resiste al cattolicesimo egemone. Nel laico
contesto rivoluzionario, le danze e i ritmi segreti degli schiavi
celebrati nei barracones loro dimora di fronte ad altari
improvvisati, diventano espressione di cubanità. Sono altrettanto
benvenuti gli studi sui cabildos de nación, sorta di società
di mutuo soccorso africane tollerate dagli schiavisti, che,
ricostituendo legami etnici, in mancanza di quelli familiari
disintegrati dalla tratta, funzionarono come nucleo di trasmissione
della tradizione bantu e yoruba.
Ma la promozione
governativa della cultura di origine africana opera in un senso
preciso: la riabilitazione non insiste sull’aspetto religioso bensì
su quello più generale della cultura nera cubana e sulle sue
manifestazioni estetiche e folkloriche quali la musica, la danza, la
mitologia. Le religioni afrocubane, descritte come reliquie e
superstizioni del passato, ormai in corso di disintegrazione,
rappresentano una memoria storica nazionale della resistenza nei
confronti dell’invasore europeo.
Questa politica di
istituzionalizzazione della cultura afrocubana mira a elidere il
rischio di un radicato e possente livello di cultura subalterno
interno, eventualmente dannoso per l’unità nazionale. Ma essa
partecipa anche di un’altra logica che si interseca con il
presupposto precedente: la Cuba africana testimonia i limiti della
Cuba bianca e cattolica delle classi medie e superiori di origine
europea. Riconoscere la matrice africana è promuovere la nuova
costruzione nazionale, dire una volta di più, e sotto altra forma,
che Cuba è fatta di cubani, bianchi, neri, mulatti e cinesi anche.
La santería, nel cui culto ogni oricha africano ha anche il
volto di un santo cattolico e in cui, come descritto da Lydia Cabrera
nel tomo El Monte, i malefici dei chinos sono temuti
come i più malvagi, poiché solo gli stessi chinos possono disfarli,
è una chiave di lettura di tutto questo, del miscuglio di razze e
culture che forma la cubanidad.
Negli anni ‘80 le
autorità politiche esprimono una maggiore tolleranza verso la
religione. Il líder máximo, come riportato nel libro Fidel
y la religión, intervista tra Castro e il teologo della
Liberazione brasiliano Frei Betto, dichiara che la religione «non è
in sé né un oppio né un rimedio miracoloso». Ma è durante gli
anni ‘90 ed il critico periodo special en tiempo de paz che
si afferma un vero revival delle varie espressioni religiose diffuse
a Cuba e in particolare della santería, il cui radicamento nel
tessuto sociale appare ora esplicitamente sulla scena pubblica. Nel
1995, l’Associazione culturale yoruba (ACY) a cui aderiscono
santeros/as e babalawos (i sacerdoti che rappresentano
il più alto grado gerarchico nella santería) desiderosi di
ufficializzare la loro credenza, viene ubicata per volontà del
governo in Habana Centro, a qualche centinaia di metri dal Capitolio
Nacional. Mentre questa collocazione traduce nello spazio urbano il
recupero delle radici africane, l’associazione diventa un
riferimento istituzionale per la santería.
I numerosi congressi
mondiali yoruba che vi si organizzano e il motto «Ifá ayer, Ifá
hoy, Ifá mañana» riferito al culto di Ifá, l’arte della
divinazione legata alla città sacra nigeriana di Ilé-Ifé, indicano
un riferimento alla tradizione africana nazionale ma anche a un
ecumene yoruba transnazionale e a un mondo globalizzato dalla
scoperta delle Americhe e dalla tratta degli schiavi. All’interno
dell’ACY si trova una libreria, una caffetteria, una boutique
e soprattutto, un didattico Museo degli orichas, in cui si è
rigorosamente accompagnati da una guida che sottolinea l’autenticità
della religione africana cubana, non contaminata dal monoteismo
cattolico che colpisce l’Africa al punto che «anche dal Brasile
vengono qua per studiare, perché è qui la culla, è qui che si è
conservata l’autentica tradizione degli schiavi».
Ma aldilà della realtà
dell’ACY che, insistendo sulla componente yoruba
della santería, opera per una sua desincretizzazione e
reafricanizzazione, le applicazioni della Regla Ocha
all’Havana sono molteplici e in molti casi più interessate alla
risoluzione di problemi pratici ed immediati che alla risoluzione di
dibattiti teorici. Questa religione dell’immediato aiuta a
resolver, come si dice in cubano, problemi che riguardano
principalmente la salute, il lavoro e l’amore. Le tradizionali
familias de santos in cui si organizzano i credenti si
riuniscono in base a vari criteri di affinità che non si risolvono
nel fattore etnico: la santería è un linguaggio di
condivisione di una comune ascendenza africana ma essa è anche
praticata da familias estremamente miste, composte da neri,
bianchi e mulatti, che si formano sulla base di una solidarietà di
quartiere, di genere o di preferenze omosessuali. Ed è anche un
linguaggio che attrae gli stranieri e permette a santeros/as e
babalawos di alimentare una discreta economia informale fatta
di divinazioni, ingredienti magici ed istruzioni, a volte
iniziazioni.
Una tienda de religión a L'Avana |
Fuori dalla Chiesa della
Virgen de Regla, patrona della baia dell’Avana, che sincretizza con
il potente oricha femminile Yemayá, dea legata alla maternità e
all’oceano, chiromantiche figure vestite di bianco offrono ai
turisti letture della mano e dei tarocchi. Contemporaneamente,
all’ombra della pietra della cattedrale e del Palacio de los
Capitanes Generales, mulatte sonnolente che nascondono l’età sotto
la maschera di nastri e merletti della santera, completata dal
tradizionale sigaro, offrono sorrisi e invitano lo straniero a posare
in foto. Nelle boutique dell’Habana Libre Hotel, nel cuore del
Vedado, accanto all’attrezzatura da spiaggia, alla locandina del
film Fragole e cioccolato e alle magliette del Che Guevara, un
esercito di bamboline di Yemayá e Ochún, ordinate in ranghi nel
loro scaffale guarda al di là della vetrina la vita ed i passanti
scorrere in Calle L. Solo i CUC, la moneta degli stranieri, potranno
portarle via.
Intanto, nelle case di
chi pratica, gli orichas stanno in altare, nelle zuppiere di
porcellana in cui l’entità è supposta incorporarsi, in compagnia
di offerte ai morti e di bóvedas espirituales (offerte
spirituali), bicchieri d’acqua dedicati agli spiriti. In Habana
Centro, in rudimentali botteghe chiamate tiendas de religión,
non identificabili dal forestiero al milieu della santería,
inservienti affannati dispensano da dietro il bancone candele,
aguardiente, noci di cocco, erbe, semi, collane e braccialetti
degli orichas che solo gli iniziati possono indossare.
I venditori del mercato
dei fiori a pochi metri sanno che ogni oricha vuole il suo
colore e il suo petalo. E nel bugigattolo dietro la pompa di benzina
Hatuey, mentre la 600, il maggiolone o il cocotaxi di turno si
fermano, diffondendo nell’aria l’ostentato suono del reggaeton,
viene rapidamente venduta una colomba o un gallo, abilmente
maneggiati in vista di un sacrificio agli dei.
Nella credenza diffusa in
questo mondo magico si fonda e alimenta la struttura della santería,
religione dell’immediato che lega in un rapporto di protezione e
riverenza credente e orichas, angeli guardiani dal carattere
mondano, generosi e volitivi, sensuali, suscettibili, spesso
iracondi, con cui viene intrattenuta una quotidianità basata sul
reciproco ascolto di volontà e desideri. L’oricha vuole una
festa, un’offerta, dell’aguardiente, dei fiori, del vino
seco o del miele. Il praticante vuole risolvere un incantesimo
d’amore, sbarcare il lunario, guarire da una malattia, proteggere
una gravidanza, comprarsi un paio di jeans, un giorno viaggiare.
La santería-brujería
che meritò ad inizio ‘900 lo studio di criminologia antropologica
di Ortiz è praticata da molti cubani, ormai apertamente ed
armonicamente creyentes e revolucionarios, per poter
costruire e ricostruire il mondo e seguire la buona regla di
vita. E mentre questo universo laborioso di ritualità, formule
yoruba reinventate e tradizioni tramandate palpita e la Cuba
dei turisti tintinna nel ghiaccio e le foglie di menta di un mojito,
è frequente il vedere in città gli iyawós, i neo-iniziati alla
religione, che durante un anno intero devono rispettare l’obbligo
rituale di vestirsi di bianco da testa a piedi, intersecare lo spazio
urbano marcato dai murales dei Comitados de la revolución.
La bianca figura dei
nuovi nati nella santería si sovrappone per un attimo alla
scritta, scolorita o sfavillante, a seconda del quartiere e dei fondi
investiti «Con la guardia in alto -Todo por la revolución -
Seguimos el combate».
“alias il manifesto”,
ritaglio senza data, ma 2011
2 commenti:
FORSE IO SONO UNO DEGLI UNICI COMPETENTI A SPIEGARE LA SANTERIA CUBANA CON SOLO UN PAIO DI PAROLE, EBBENE MOLTI DI VOI HANNO AVUTO ESPERIENZE CON CARTOMANTI OCCULTISTI
MAGHI STREGONI, CHE PROMETTONO MARI E MONTI , LA SANTERIA CUBANA E' LO STESSO, FA PRESA SPECIALMENTE SU QUEI POVERETTI AMMALATI O HANNO PAURA DI AMMALARSI, TUTTO QUI
Meno male che ci sei tu ad urlare la tua verità; mai andato da un cartomante ma se invece metti il tuo nome e cognome, invece che nasconderti come utente anonimo, ti faccio vedere come i Morti ti cambiano la vita. Prima di dire che sei competente in queste cose, ne hai di libri da leggere. Il Lukumi cambia la vita delle persone, come qualsiasi religione sentita, la Fede e' Fede, ma probabilmente e' inutile sia qui a spiegarlo, dalle tue poche parole di capisce che badi solo al Corpo e non allo Spirito; mi auguro che in altre vite la penserai in maniera diversa.
Cordialità.
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