Amadeo Bordiga in un disegno a penna degli anni 20 del Novecento |
Napoli, maggio (Dal
nostro inviato speciale)
Vicino agli ottantun anni
e afflitto da disturbi circolatori, Amadeo Bordiga è costretto quasi
all'inattività. Riesce a star seduto, ma la posizione l'affatica. E'
un corpaccione afflosciato. Poggia i piedi gonfi su un cuscino e
l'ampio torace alle mani annodate sull'impugnatura di un bastone che
gli fa da puntello. Ci vede poco, le figure sono filtrate da lenti
molto spesse.
«Tu», subito il tu che
invita al rapporto confidenziale, «hai scritto un mucchio di ...»,
e qui un'espressione plebea, «ma non sei una carogna».
Come accoglienza non è
poi tanto male. Ci avevano avvertito. Da venticinque anni Bordiga
rifiuta le interviste, non ama i giornalisti, li giudica tutti
«mercenari». Che abbia acconsentito a vederci, è quindi un fatto
già di per sé incoraggiante.
D'origine piemontese,
figlio d'un professore d'economia rurale a Portici ed anch'egli, dopo
la laurea in ingegneria, assistente a Portici di meccanica agraria,
ebbe un ruolo preponderante nella fondazione del partito comunista
d'Italia e lo diresse, capo incontrastato, sino al ritorno di Gramsci
da Mosca e Vienna nel '24. Un po' tutti ne subivano il fascino,
compresi gli uomini dell'Ordine Nuovo, di formazione culturale assai
diversa.
Il primo a staccarsene fu
Gramsci, che però del leader napoletano ammirava la «personalità
vigorosa», l'ingegno, l'intraprendenza e il carattere «tenace ed
inflessibile». Quando il Comintern gli propose di prenderne il posto
alla guida del partito, ebbe inizialmente forti esitazioni: «Per
sostituire Amadeo nella situazione italiana bisogna avere più di un
elemento perchè Amadeo, effettivamente, come capacità generale di
lavoro, vale almeno tre». Più lenti a respingere le posizioni
schematiche e settarie di Bordiga furono altri «ordinovisti» come
Togliatti e Terracini e Gramsci, una volta fatta la sua scelta sulla
linea dell'Internazionale, non mancò di dolersene.
A colloquio con
Lenin
Poco più che trentenne,
Bordiga era stato il primo dirigente comunista italiano a conoscere e
a scontrarsi con Lenin, il quale tuttavia ne aveva grande stima. Si
videro per l'ultima volta pochi giorni dopo l'ascesa di Mussolini al
potere. Di quest'incontro abbiamo adesso la testimonianza diretta.
«Si svolgeva a Mosca»
ci racconta il vecchio capo, «il IV Congresso dell'Internazionale.
Gli altri della delegazione italiana avevano lasciato l'Italia prima
della "marcia" su Roma. Io fui l'ultimo a partire, e questo
avvenne dopo il 28 ottobre. Lenin era malato: si diceva che non ce
l'avrebbe fatta a venire al congresso. Preoccupato, chiesi di
vederlo. Non era facile, perché i medici gli avevano sconsigliato i
colloqui prolungati e le discussioni politiche. Ma all'improvviso mi
fu concesso di fargli visita, Lenin voleva conoscere da me gli
avvenimenti italiani, e proposi a Camilla Ravera di accompagnarmi.
Vennero anche D'Onofrio e Silone. Non poterono salire e
s'accontentarono di aspettare giù in attesa. Ricordo che Lenin ci
accolse non a letto ma nel suo studio. Ce l'aveva, scherzosamente si
capisce, con i medici, molto severi nel controllargli la durata dei
colloqui coi compagni».
Parla torrentizio,
mangiandosi le parole, e si fatica a seguirlo: «Subito mi chiese un
rapporto sui fatti d'Italia. Gli dissi della "marcia" su
Roma, dell'incarico dato dal re a Mussolini di formare il governo
eccetera; poi aggiunsi la mia interpretazione degli avvenimenti».
Secondo il capo del
Pcd'I, fascisti e liberali andavano messi nello stesso mucchio, tutti
nemici di classe, tutti ugualmente difensori dell'ordine
capitalistico: Mussolini valeva Giolitti o Turati, e dunque dov'era
il fatto nuovo se un partito borghese, quello fascista, prendeva il
posto d'altri partiti borghesi alla guida del governo? Del resto, in
ciò Bordiga era seguito da Terracini, che giudicava la "marcia"
su Roma e l'affidamento del potere a Mussolini «una crisi
ministeriale un po' mossa», e da Togliatti, per il quale il «tiranno
bieco» da combattere aveva «un solo aspetto e un triplice nome:
Turati, don Sturzo e Mussolini».
Non riusciamo a sapere da
Bordiga se Lenin ebbe qualcosa da obiettare a simile interpretazione.
«Mi chiese come avessero reagito gli operai. Gli raccontai i molti
episodi di lotta avvenuti in luoghi diversi per respingere le
violenze fasciste. Allora Lenin ci esortò a mantenere, ed anzi ad
accrescere, i contatti con le masse. Prevedeva che saremmo andati
incontro a momenti difficili. Si parlava appunto di questo, quando
entrò la moglie. Dovevamo accomiatarci: il tempo concesso dai medici
per il colloquio era scaduto».
Ebbe inizio il declino di
Bordiga, sino alla definitiva sconfitta nel congresso di Lione
(gennaio del '26). Poi l'arresto, il 10 ottobre del '27,
l'assoluzione due anni dopo e l'invio a Ponza, confinato.
«Ripresi a fare
l'ingegnere» ricorda.. «I ponzesi erano piuttosto causidici,
litigavano per questioni di confine dei terreni, e se una famiglia si
affidava per la perizia a Peppino Romita, altro ingegnere confinato,
la controparte veniva da me. Facevo anche progetti di case. Ma un
giorno ci chiamano in Comune: "I vostri progetti non potranno
più essere approvati". E perché mai? Il confinato ha l'obbligo
di lavorare. Deve mettersi forse in un mestiere che non sa?
Inoltrammo ricorso al ministero dell'Interno. La risposta: picche.
Liberato nel '30 tornai a Napoli. Vita difficile: i clienti per paura
s'allontanavano».
Intanto Bordiga, sempre
più in contrasto col nuovo gruppo dirigente guidato da Togliatti,
era stato espulso dal Pci. E qui cade opportuna una domanda. A quel
tempo, Trockij viveva a Royan, nei pressi di St-Palais (Gironda).
Alfonso Leonetti, altro dirigente espulso, era andato a trovarlo.
Sentì chiedersi: «Perché Bordiga non viene a darci una mano?».
«Trasmisi l'appello all'ex capo del partito», ci ha testimoniato
Leonetti, «ma non ne ebbi risposta». Chiediamo dunque: «Come mai,
dopo che foste espulso...».
Non ci lascia terminare,
«Io», esplode, «non sono mai stato espulso». Lo grida con tutta
la sua antica vigoria, è squassato da un impeto d'ira. Ha sollevato
il bastone, lo agita a mulinello davanti al nostro viso, tutto il
corpo vibra «Sono stato io a buttarli fuori quei...» e giù una
tempesta di parole triviali.
Emerge infine un lato
insospettabile della sua personalità. Le nuove generazioni quasi ne
ignorano il nome. Sino a pochi anni fa, le storie ufficiali tacevano
la parte dominante da lui avuta nella formazione del partito. Chissà
quanti lo credono morto, tanto a lungo s'è fatto silenzio intorno
alla sua figura. In ogni caso, un Bordiga direttamente impegnato
nella lotta politica quarant'anni dopo il suo ritiro dalla milizia di
partito chi poteva immaginarselo?
Eppure è così. Il
fondatore del partito comunista d'Italia si considera ancor oggi il
capo dell'unico vero partito comunista operante nel paese. Ha
«buttato fuori» Togliatti e soci, i cui eredi gestiscono «un
partito riformista». («Gli avvenimenti storici hanno dimostrato che
avevo ragione io», sostiene) e dopo «l'espulsione» dei «traditori»
ecco, depurato della frangia «opportunista», il solo partito
rivoluzionario d'Italia, il suo, quello più seriamente ispirato ai
testi classici del marxismo, il «partito comunista internazionale».
Ha un migliaio di seguaci («il numero non m'interessa», dice), in
generale vecchi emigrati politici che gli sono rimasti fedeli.
Pubblica un quindicinale, «il programma comunista», un mensile di
lingua francese, «Le proletaire» ed un periodico in lingua
danese «Kommunistik Program». Le tesi attuali del «Partito
comunista internazionale»? Esattamente quelle del 1921-22.
Tifo sportivo
Ripensiamo ad una battuta
riferitaci in apertura di colloquio; di Zinoviev che diceva, per
definire l'ostinato dirigente napoletano: «E' un palo telegrafico.
Dov'è piantato, dopo dieci anni lì lo trovate». Lo abbiamo
ritrovato lì dopo cinquant'anni. E ancora non s'arrende. «Al lavoro
di partito non rinunzio anche se mi dicessero che dopo due ore
muoio».
L'assiste, leggendogli i
giornali e scrivendo sotto dettatura lettere e articoli, Antonietta
De Meo, che ha sposato cinque anni fa, dopo la morte della prima
moglie Ortensia, sorella di Antonietta. Oltre la politica, ha una
sola passione, rivelata da questo episodio. Gli telefona Sergio
Zavoli, chiedendogli un'intervista per la televisione. Il vecchio
rivoluzionario, puntigliosamente sfuggito per decenni a fotografi e
cineprese, risponde immediatamente di sì; ma non all'intervistatore
di Von Braun, Schweitzer, Follerau, accetta di ricevere l'animatore
del «Processo alla tappa», ritrattista di ciclisti. I campioni
della bicicletta hanno in Bordiga un ammiratore fervido. «Prima che
si iniziassero le riprese» sappiamo da Zavoli, «a lungo mi ha
parlato di Lenin, Gimondi, Stalin, Trotckij e Motta».
La Stampa, n. 102, 16
maggio 1970
1 commento:
Tra le tante cose che di Amadeo Bordiga si potrebbero ricordare forse vale la pena rammentarne una, considerandone l'attualita'.
Quando i nuovi vertici del pcd'I ,in occasione delle elezioni politiche del 6 aprile del 1926 gli offrirono la candidatura alla camera dei deputati, Bordiga rifiutò sdegnato.
Riportiamo le sue parole a monito di coloro che oggi a "sinistra" si accapigliano per esercitare uno dei mestieri più redditizi al mondo:
" Il criterio che la notorietà designi candidati e, elettoralisticamente, logico ma non è comunistico.Nulla scorgo di più filisteo ed opportunistico per gli elettori gli eletti di questo tradizionale fatto: pochi mesi di carcere portano alla conseguenze che alla prima occasione la "vittima" presenti al proletariato la nota e la riscuota sottoforma di voti".
E si parlava di carcere.....
Da Storia del Partito comunista italiano di P.Spriano
Da Bordiga a Gramsci
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