10.7.16

“Colei che non amava le donne”. Nicla Vassallo contro Simone de Beauvoir

Ho esitato a scrivere per rendere omaggio (o oltraggio) a Simone de Beauvoir nel centenario della nascita. In molti, forse troppi, lo avevano già fatto, specie oltralpe, impiegando ogni possibile risorsa mediatica, mentre la corposa uscita gennaio-marzo di “Les Temps Modernes” era intitolata La transmission Beauvoir. A convincermi a scrivere è stata la lettura di uno stringatissimo saggio sulla rivista stessa, in cui Élisabeth Badinter dichiara: «La philosophie à l’œuvre dans Le deuxième sexe a fait prendre conscience aux femmes de leur inestimabile droit de dire NON». Non so se si possa parlare davvero di filosofia, ma leggendo Le deuxième sexe ho senz’altro detto NO alla maggioranza dei suoi contenuti e dei suoi goffi tentativi di argomentare a favore di tesi non del tutto chiare. NO, anche perché la penso proprio come la grande Stevie Smith: «Miss de Beauvoir has written an enormous book about women and it is soon clear that she does not like them, nor does she like being a woman».
Ho però esitato a scrivere anche per altre ragioni. Se da una parte la mia lettura degli scritti di de Beauvoir risaliva ai tempi lontani in cui ero una ragazzina, e non mi aveva entusiasmato, nonostante durante l’adolescenza ci si lasci facilmente incantare da un carisma intellettualoide tutto parigino, dall’altra, una volta superata l’adolescenza, la figura “Simone de Beauvoir”, proprio perché di fascino francese, l’ho trovata sempre più sgradevole. L’immagine, magari anche pregiudiziale, che mi si è conficcata in mente è quella di lei seduta al Café de Flore, a bere, a fumare Gitanes senza filtro (o erano Gauloises?), a scrivere, a chiacchierare con Jean-Paul Sartre, con quell’insopportabile posa del “noi siamo i filosofi”. Di Sartre, poi, non ho mai apprezzato nulla, e meno che mai quella che è considerata la sua opera maggiore, L’être et le néant. La coppia più “cerebrale”, libera e libertina dell’ultimo secolo francese mi è sempre parsa infida, capace di quella joie de vivre che si concretizza nel sedurre (senza la minima responsabilità etica) le giovani studentesse, priva di un’effettiva originalità intellettuale, impegnata a scandalizzare per il mediocre gusto dello scandalo, contrabbandato però come un gesto eroico di lucida autenticità.
La sua urgenza abulica di scrivere, il suo volersi imporsi agli occhi del mondo come la pensatrice della ristretta cerchia dei maîtres à penser, il suo essere non la donna bella e al contempo intelligente, ma la donna che deve mostrarsi bella e deve mostrarsi intelligente, talmente pretenziosa da volere parlare a nome di ogni donna, così come di svelare gli orizzonti di ogni singolo aspetto della femminilità, il suo negare importanza alla “razza” e alla classe di appartenenza, le sue generalizzazioni avventate, a partire dalla propria esperienza di donna bianca, privilegiata e dell’ottima bourgeoisie francese, mi hanno sempre reso piuttosto antipatica de Beauvoir. Nei confronti delle persone antipatiche, provo in genere una certa freddezza, o una qualche forma di pigrizia; quindi, non mi interessa se de Beauvoir fosse frigida e/o ninfomane, quali fossero in realtà i suoi orientamenti sessuali, se ha scritto Le deuxième sexe per uno sconfinato rancore nei confronti di Nelson Algren (la cui unica colpa era quella di essere uno splendido amante), se ha iniziato a dichiararsi (troppo tardi – negli anni settanta, mi pare) femminista per mera convenienza. Riuscire però a stendere le circa mille pagine di Le deuxième sexe in poco più di due anni non è un’impresa da tutti e a risentirne sono senz’altro le argomentazioni ben poco rigorose, i contenuti che rivelano tra le righe tratti di eccelsa misoginia, l’ostilità esagerata per la maternità, l’errata equazione tra rifiuto della maternità e indipendenza, le tante confusioni e contraddizioni, la mancanza di oggettività complessiva del volume. Pubblicato nel 1949 in due parti, Le deuxième sexe è da poco uscito in una bella nuova riedizione italiana de Il Saggiatore, nella pregevole traduzione di Roberto Cantini e Mario Andreose, con una prefazione di Julia Kristeva e una postfazione di Liliana Rampello. Un libro da leggere ancor oggi, senz’altro, anche per comprendere i tanti luoghi comuni sulle donne e delle donne del circolo “de Beauvoir”, della bourgeoisie dell’epoca: occorre leggerlo da un punto di vista sia storico-sociologico per chiederci quanti di quei luoghi comuni appartengono ancora ad alcuni o a molti di noi, sia filosofico per continuare a dire NO ai suoi contenuti e alle sue argomentazioni.
Nei confronti di de Beauvoir, sono convinta di non essere debitrice di (quasi) nulla, né come donna, né come filosofa, e ritengo che ciò valga anche per molti/e altri/e: è allora ancora nel torto Élisabeth Badinter quando, parecchi anni orsono, ha dichiarato senza esitare «Femmes, vous lui devez tout!» e recentemente «Elle a été la philosophe de la liberté des femmes». Le idee di Bernard-Henri Lévy (si veda La donna che uccise Madame Bovary, Il Corriere della sera, 13/05/08) mi risultano poi enfatiche e al contempo strampalate: è vero, niente affatto un cliché come pretende invece BHL, il fatto che «l’insurrezione femminista [fosse] inesorabile, necessaria, che si sarebbe prodotta comunque e di essa la Beauvoir si sarebbe limitata a recuperare la fiaccola»; oltre al resto, mi lascia assai perplessa che grazie a lei «tutte le donne sono, ovunque nel mondo, anche sotto il burka o in stato di schiavitù, un po’ più donne, un po’ più libere, un po’ più sovrane di quanto sarebbero state senza di lei e senza il suo libro». Cosa significa, per esempio, “essere un po’ più donne”?; un po’ più come Carla Bruni Sarkozy, un po’ più come un’africana falcidiata dall’Aids, un po’ più come una prostituta bambina destinata al turismo sessuale?; che consapevolezza ha BHL dei tanti modi in cui nel mondo le donne sono rese libere o schiave?; ha mai dato anche solo un’occhiata al volume Are Women Human? And Other International Dialogues di Catharine MacKinnon (Harvard University Press)? Ma si sa, la superficialità dei nouveaux philosophes è incontenibile.
Non pensate che ce l’abbia con Parigi. È pur sempre a Parigi che c’è il ritratto sessualmente più intrigante dell’intera storia dell’arte, la Gioconda, e quello più perspicuo, L’Origine du monde. E’ pur sempre Parigi che vede George Sand vestirsi da uomo, consente a Coco Chanel di lanciare lo stile androgino, ospita al contempo l’edonismo di Colette e l’ascetismo mistico di Simone Weil. Quanto diverse sono le due Simone – Weil e de Beauvoir – quanto apprezzo la prima, e non la seconda, sia negli scritti, sia nella coerenza di vita, e cosa non darei per assistere a un loro incontro/scontro nel cortile della Sorbonne, per assumere le difese di Simone Weil e rimproverare a Simone de Beauvoir l’alterigia, l’indifferenza, la competitività nei confronti delle donne, nonché l’ordinario desiderio di essere solo un altro, ennesimo, uomo tra gli uomini. E non apprezzo affatto che “la Grande Sartreuse”, considerata davvero a torto l’icona dei movimenti di liberazione femministi, si trovasse talmente a suo agio sotto il regime di Vichy, da essere disposta a concedersi (senz’altro con aristocratica nonchalance) piacevoli vacanze in montagna. Dov’era e cosa faceva in quegli stessi anni Simone Weil? Come ha rilevato Susan Sontag, Simone Weil «ci commuove, ci dà nutrimento», nonostante i suoi eccessi mistici e il suo problematico supplizio. Simone de Beauvoir, invece, ci nutre ben poco e non ci commuove quasi per nulla.
Magari Le deuxième sexe, sebbene sia l’opera beauvoiriana per eccellenza, di successo, quella più ricca e venduta (ma in quanti l’hanno letta integralmente, nonostante in molti la ritengano una specie di bibbia?) è un testo che non ha più nulla da dirci, perlomeno sotto il profilo filosofico, sempre che abbia avuto da dirci qualcosa in passato, e/o che non fosse meramente «a modern-day sex manual», come lo giudicava Blanche Knopf. Certo, Betty Friedan ha riconosciuto a de Beauvoir il merito di averle fatto comprendere la condizione delle donne, ma se non ci si chiede quali siano queste donne, e se nel chiedercelo ci si trova costretti a rispondere che le donne in questione non sono altro (a voler essere generosi) che tante ambivalenti de Beauvoir, il merito può trasformarsi rapidamente in un demerito. E se nel volume c’è qualcosa di filosofico, esso si trova talmente ingarbugliato con molte altre considerazioni non sempre appropriate (di tipo antropologico, biologico, letterario, politico, psicoanalitico, sociologico, storico, e via dicendo) da restituirci l’idea di una dea-scrittrice assurdamente onnisciente, o di una vampira-scrittrice che amalgama alla rinfusa quanto riesce a trovare alla Bibliothèque Nationale. C’è di sicuro un po’ di Agostino, Aristotele, Diderot, Engels, Hegel, Kierkegaard, Marx, Merleau-Ponty, Montaigne, Montesquieu, Nietzsche, Platone, Rousseau, Sartre; c’è di sicuro un po’ di accidente, Altro, Assoluto, determinismo, dualismo, essenza, esistenzialismo, fenomenologia, immanenza, materialismo storico, nulla, mitsein, Soggetto, sostanza, trascendenza, Uno, mentre c’è pochissimo Descartes, Locke, Pascal, Spinoza, Voltaire. Ma tutto ciò è lungi dal restituirci una filosofia beauvoiriana compiuta, invece che posticcia, specie quando de Beauvoir privilegia i motti, piuttosto che le argomentazioni, delle diverse filosofie a cui si ispira, e in ogni caso evita spesso le filosofie che argomentano per concedersi più facilmente a quelle che abbagliano per retorica ed effetti speciali.
C’è chi viene in soccorso di de Beauvoir, sostenendo che, nonostante tutto, ha piegato in modo originale la filosofia – sebbene una cattiva, fragile filosofia – alle tematiche del sesso e della sessualità. Sinceramente, non vedo come si possa venire in soccorso della cattiva, fragile filosofia di chiunque, solo perché il soggetto che tratta è (più o meno) nuovo. Nuovo? E il Simposio di Platone? Se comunque applicassi una cattiva e fragile filosofia al portapenne della mia scrivania per circa mille pagine, acquisirei davvero qualche seria credibilità nell’olimpo filosofico francese? Quando, invece, mi viene detto che la sostanziale innovazione di de Beauvoir si situa nell’insistenza sull’eguaglianza delle donne, replico che di innovazione non si tratta affatto – basta leggersi (tra le altre) le belle pagine di John Stuart Mill e Harriet Taylor (si veda, in traduzione italiana, il loro Sull’equaglianza e l’emancipazione femminile, edito da Einaudi). Qualora si insista poi sul fatto che la reale rivoluzione di de Beauvoir consiste in una disamina acuta di come le donne sperimentano il proprio corpo e il proprio esistere in quanto donne, ribatto che c’è sempre un lato soggettivo del proprio sperimentare e del proprio esistere, che c’è un effetto che fa a me essere donna che non è l’effetto che fa a te essere donna, perché c’è un modo di conoscere che è “interno”, o “in prima persona” (si veda, per esempio, Thomas Nagel, “What Is It Like to Be a Bat?”, Philosophical Review, 83, pp. 435-450). Ancora si può sostenere che l’effettiva originalità di de Beauvoir si condensi tutta nel Libro secondo. L’esperienza vissuta di Le deuxième sexe, il libro controverso, polemico, uscito a cinque mesi dal primo, nel novembre del 1949, che ha scandalizzato, e oggi non ci scandalizza più perché i “costumi” sono mutati. Scandalizza invece e ancora la sottoscritta. Basta citare un capitolo, quello intitolato “La lesbica”, per capire quanto l’articolo determinativo, ricorrente anche in altri capitoli (“La fanciulla”, “L’iniziazione sessuale”, “La donna sposata”, “La madre”, “La vita di società”, “La donna narcisista”, “La donna innamorata”, “La donna mistica”, “La donna indipendente”) ci restituisca, volente o nolente, tutta una lunga serie di luoghi comuni (ed eterosessisti) sul lesbismo, spesso incoerenti tra loro, stereotipi forse legati alla cultura del tempo, ma anche a una qualche appiccicosa ignoranza o censura di de Beauvoir stessa. “La lesbienne” ci offende per il tentativo (peraltro rinnegato e comunque mal riuscito) di rintracciare un’unica lesbica, un modo singolare di poter/dover essere lesbica, che troppo spesso ha a che fare con un’assoluta sovranità erotica o un’altrettanto assoluta indifferenza, più che con una vera e propria scelta di esistere, di amare, di cui l’erotismo viene a fare parte integrante. Anche quattro sole citazioni sono illuminanti in proposito: «L’omosessualità può essere per la donna tanto un modo di respingere quanto di assumere la propria condizione» (p. 389); «Come la donna frigida desidera il piacere pur rifiutandolo, la lesbica spesso vorrebbe essere una donna normale e completa, pur non volendolo» (p. 393); La donna lesbica è «pari a un castrato… imperfetta come donna, impotente come uomo» (p. 394); «Assenza o insuccesso di relazioni eterosessuali… voterà [le lesbiche] all’inversione» (p. 399).
Sì, mia cara Simone, ti tradisci davvero, quando continui a parlare di lesbismo come di un’inversione (rispetto a che?), e non riesci neanche a immaginare, figuriamoci ad anticipare, la complessità delle filosofie lesbiche, che analizzano temi come l’amicizia, l’amore, l’autobiografia, il “continuum”, l’etica, il desiderio, il diritto, i femminismi, la letteratura, il nomadismo, l’oppressione, la politica, i razzismi, la salute, la sessualità, il separatismo, la violenza, la storia, e molti altri, tra cui la maternità lesbica che a te avrebbe fatto orrore per il solo fatto di essere “maternità”.
Mi si rimprovererà a questo punto di non aver ancor menzionato il famoso slogan con cui il secondo libro si apre: Donna non si nasce, lo si diventa. In realtà, non volevo nominarlo: è solo uno slogan sovrastimato. Vi si parla di “donna” e non “di donne”: il concetto di donna, soprattutto quando lo si traduce in “La donna” (al pari di “La lesbica”, e via dicendo) conferisce credito alla convinzione che l’essenza della donna non sia una finzione al servizio del maschilismo e dell’eterosessismo. Eppure lo slogan riassume la “vera” de Beauvoir, incapace di capire che parlare di “donna”, e non di “donne”, conduce a legittimare determinate pratiche e a delegittimarne altre – per esempio, ad assegnare alla donna e, pertanto, alle donne ruoli culturali, intellettuali, professionali, sociali, distinti e inferiori rispetto ai ruoli assegnati all’uomo e, pertanto, agli uomini. Per di più, lo slogan non anticipa la distinzione tra sesso e genere, non solo perché de Beauvoir stessa non utilizza i termini (la lingua francese, del resto, non ne agevola l’impiego) e tratta esplicitamente solo di “secondo sesso”, non di “secondo genere”, ma anche perché i termini che adopera (“femmina” e “donna”) possono rimandare a concetti legati sia alla natura, sia alla cultura – sempre che la distinzione tra natura e cultura abbia senso, che ci siano solo due sessi (cosa assai dubbia) e solo due generi (cosa altrettanto dubbia). Meglio, decisamente meglio, addentrarsi nelle meravigliose complessità della differenza tra sesso e genere leggendo “la più lunga lettera d’amore della storia”, ovvero Orlando di Virginia Woolf, e lo stesso vale per capire qualcosa del concetto di donna: «“Che cosa, dunque? Chi, dunque?” diceva Orlando. “Trentasei, in macchina; una donna. Sì, ma un milione di altre cose ancora. Snob, io? La Giarrettiera, nel vestibolo? I leopardi? I miei antenati? Orgogliosa di essi? Sì! Golosa, lussuriosa, viziosa? Io? (Qui entrò un nuovo io.) Me ne importa un fico, se lo sono. Sincera? Credo di sì. Generosa? Oh, ma questo non conta. (Qui entrò un nuovo io.) Starsene a letto al mattino, a sentire tubare i piccioni fra le lenzuola di tela d’Irlanda; piatti d’argento; vini; cameriere; domestici. Viziata? Forse. Troppe cose per nulla.”…» (Orlando, Mondadori 1996, p. 286). Le differenze tra Virginia Woolf e Simone de Beauvoir sono molteplici, a partire da una oltremodo evidente: la prima, a differenza della seconda, è una scrittrice e pensatrice di eccelsa levatura. E Virginia Woolf pensava che la superiorità intellettuale e creativa non fosse né maschile, né femminile, bensì semplicemente androgina, al contrario di de Beauvoir che ha sempre cercato di imporsi come la pensatrice (o il pensatore?) in un mondo declinato tutto al maschile.


“L'Indice”, ottobre 2008

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