27.7.16

Sebastiano Timpanaro. Un nemico del '900 (Maurizio Bettini)

Su Sebastiano Timpanaro c'è già, in questo blog, un mio scritto per “micropolis” in occasione della sua morte. Posto e posterò nelle settimane avvenire testi suoi o scritti sulla sua figura che ne illuminino la ricca e complessa fisionomia.
Questo necrologio di Maurizio Bettini, da “Repubblica”, molto bello, ricorda soprattutto lo studioso; ma il titolo aiuta a definirne anche la visione politica, l'inattualità che la caratterizza rispetto al secolo in cui visse. Il cosiddetto “secolo breve” non si è concluso – come si suol dire – con l'Ottantanove controrivoluzionario, ma con il successivo trionfo del verbo e delle pratiche neoliberiste che hanno moltiplicato le disuguaglianze sociali e con esse le sofferenze patite dall'umanità ad opera degli uomini. Dopo è venuto il tempo della disperazione sociale e della nuova barbarie, dei conflitti di religione, della guerra di tutti contro tutti, del terrore.
La sconfitta senza appello del comunismo stalinista e della socialdemocrazia inevitabilmente riporta gli appassionati dell'uguaglianza ai maestri dell'Ottocento, ai primordi del socialismo e del comunismo. Ma non dovremo abbandonare, nella nostra ricerca di maestri, gli inattuali e gli sconfitti del Novecento. 
Ce ne sono di buoni. Per fermarsi agli italiani si può cominciare da Matteotti (quasi sconosciuto nel suo pensiero) e da Gramsci (apprezzato più all'estero che in patria), spesso ricordati soltanto come martiri e non di rado travisati. E poi ci sono anche Aldo Capitini e Sebastiano Timpanaro, Mario Mineo e Leonardo Sciascia, Franco Fortini e Raniero Panzieri. (S.L.L.)

Imparai a conoscere il suo nome da un ringraziamento. «Nell'ultimo stadio del lavoro», scriveva l'autore, «abbiamo avuto l'assistenza di Sebastiano Timpanaro. Chi lo conosce sa che cosa ciò voglia dire». Il libro lo aveva scritto Eduard Fraenkel, uno dei più grandi fra i filologi classici tedeschi. «Chi lo conosce», diceva dunque Fraenkel, e la frase suonava quasi come un invito.
Ma come si poteva fare a conoscere Timpanaro, lo studioso spentosi alcuni giorni fa? Per intanto bastava ascoltare. Si raccontava che portasse lo stesso nome di suo padre, Sebastiano Timpanaro senior, storico della scienza e appassionato raccoglitore di disegni; che sua madre fosse Maria Timpanaro Cardini, nota specialista di filosofia antica; che avesse studiato filologia classica con Giorgio Pasquali, il maestro dei migliori; che fosse dotato di un'intelligenza lucidissima, ma anche affetto da una fragilità nervosa che gli aveva impedito l'accesso all'insegnamento; che la sua straordinaria cultura gli permettesse di passare dalla filologia classica (quella più "dura") alla linguistica, dalla letteratura italiana dell'Ottocento alla storia degli studi classici, al materialismo, la sua filosofia. Ma il punto di maggior stupore, nel racconto, giungeva quando qualcuno ti indicava finalmente il luogo dove si poteva andare a conoscere Sebastiano Timpanaro. La Nuova Italia di Firenze, la casa editrice in cui il grande studioso faceva il correttore di bozze.
Che io ricordi non conosceva, o quasi, l' uso del «lei», anche con i più giovani. Non era solo un modo per rimarcare la sua non appartenenza all'accademia, il fatto è che per Timpanaro l'uguaglianza era una cosa seria. Chiunque studiasse era già un suo "collega". Aveva un'estrema fiducia nella ragione, anche linguistica, per cui parlava come scriveva: parole semplici, sintassi regolata, orrore per tutto ciò che definiva «civetteria» (categoria che sostanzialmente ricopriva l'intero armamentario dell'intellettuale medio, dalle citazioni allusive all'uso di termini alla moda). Il giorno in cui qualcuno pubblicherà il suo epistolario, che risulterà peraltro vastissimo, leggendo le sue lettere sembrerà di riascoltare la sua voce.
Ma in qualsiasi modo si esprimesse, Timpanaro aveva prima di tutto una grande capacità di mettere ordine. Del resto i suoi primi lavori di filologo (pubblicati a partire dalla metà degli anni ' 40) erano stati rivolti a un testo per l'appunto da riordinare, i frammenti del poeta latino Quinto Ennio. E alla filologia classica Timpanaro ha dedicato nel tempo studi di eccezionale acutezza, poi raccolti in due grossi volumi il cui titolo proprio per la sua naturale semplicità dice già tutto, o quasi, della personalità dell'autore: Contributi di Filologia e di Storia della Lingua Latina. E se i filologi classici non possono a tutt'oggi fare a meno neppure del suo La genesi del metodo del Lachmann, vera e propria archeologia della scienza criticotestuale (ma questa definizione non gli sarebbe piaciuta, perché «civettuola»), certo gli italianisti non potranno dimenticare La filologia di Giacomo Leopardi o Classicismo e illuminismo nell' Ottocento italiano. Sono studi che hanno modificato profondamente la percezione del nostro Ottocento, e di Leopardi in particolare.
Timpanaro è uno dei pochi studiosi che si continua ad avere in comune nonostante il proliferare delle cosiddette specializzazioni. Intere generazioni di cultori delle scienze umane hanno imparato da lui, qualunque fosse la loro disciplina. Comunque essere giovani, con Timpanaro, non era sempre facile. O più esattamente, con lui non era facile essere contemporanei. La discussione era continua. Della cultura del Novecento, infatti, o perlomeno di quella che si era venuta affermando fra gli anni Sessanta e Settanta, non gli piaceva quasi nulla. Alla psicoanalisi riservava poca stima, tant'è vero che dedicò un intero libro a dimostrare che il lapsus freudiano non esisteva: un buon filologo poteva spiegare altrimenti tutti i casi analizzati da Freud, l'inconscio non c'entrava. Ancor meno stima ebbe dello strutturalismo in generale e di Claude Lévi-Strauss in particolare, così come nessun interesse riservava alla semiotica o, nell'ambito del mondo classico, allo «strutturalismo mitologico» di Jean Pierre Vernant. In linguistica, poi, era piuttosto ostile a Saussure, alla scuola di Praga, a Roman Jakobson, insomma a tutti quegli studiosi "nuovi" che in Italia continuavano a suscitare interesse anche negli anni Settanta. Certe sue drastiche affermazioni in proposito avevano provocato la reazione di due suoi amici, Giulio Lepschy e Tullio De Mauro, reazione a cui dobbiamo un altro noto saggio di Timpanaro, Lo strutturalismo e i suoi successori.
Timpanaro non era di quelli che criticavano senza aver letto il saggio lo dimostra ancora in modo impressionante ma non era neppure di quelli che cambiano idea facilmente. E quando, in anni molto più recenti, pubblicò da Garzanti una sua magistrale edizione con commento del De divinatione di Cicerone, restammo colpiti non solo dal giudizio sostanzialmente negativo che egli manteneva su Vernant e la sua «scuola», come la definiva; ma anche dal fatto che le interpretazioni dei termini divinatori latini da lui riproposte erano ancora quelle dei grandi linguisti tedeschi dell'Ottocento.
È morto in un momento in cui i giornali erano in sciopero, per cui possiamo ricordarlo solo in ritardo. E questo, per chi credesse nei simboli dunque non certo per lui potrebbe avere un significato per l'appunto simbolico. Timpanaro era infatti un uomo estraneo ai ritmi e alle occasioni della cultura organizzata, i ritmi se li dava da solo, con la sua fedeltà a ciò che riteneva giusto. Non aveva alcun timore di contrastare il cosiddetto spirito del tempo, anzi, il contrasto lo cercava. Credo fosse per questo che aveva riproposto all' attenzione (o alla disattenzione) generale il De divinatione di Cicerone, un' opera "illuminista" che già duemila anni fa si prendeva gioco di profezie, miracoli ed eventi soprannaturali. Esattamente quelli a cui la nostra età contemporanea dedica invece interi scaffali di libreria, sotto la dicitura «Età nuova», e film televisivi che celebrano i miracoli di Padre Pio.
Rimpiangeremo Timpanaro non solo per tutto quello che ci ha insegnato, ma anche per il suo coraggio di essere inattuale.


“la Repubblica”, 5 dicembre 2000

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