7.7.16

Trump. La sfida impossibile di un povero miliardario (Dario Fabbri)

Conquistate di fatto le rispettive nomination, sul piano finanziario Donald Trump e Hillary Clinton non partono alla pari. Anzi, in questa fase paiono alquanto distanti. Per il magnate newyorkese l’imperativo massimo è trovare i soldi per affrontare l’elezione generale, l’ex first lady invece dispone già di una straordinaria macchina finanziaria.
Trump manca del sostegno di molti oligarchi conservatori e non sembra capace di vincerli alla causa. La Clinton ha dalla sua tutti i megadonors storici della sinistra. Vantaggio potenzialmente decisivo, perché le cifre necessarie per giungere alla Casa Bianca non sono paragonabili a quelle spese durante le primarie.
Finora Trump ha surrogato tale mancanza con la sovraesposizione mediatica e il patrimonio personale, ma senza il simpatetico intervento di finanziatori esterni rischia di non essere competitivo. Proprio mentre la sua sfidante prova a sfruttare la delusione dell’establishment conservatore per aggiudicarsene l’appoggio. In una fase destinata ad avere un impatto decisivo sulle possibilità di vittoria.

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Le dimensioni elettorali di primarie e votazioni generali sono assai diverse. Alle consultazioni partitiche partecipano solitamente circa 40 milioni di cittadini – nel 2016 probabilmente si raggiungerà la cifra record di 50 milioni – in un Paese abitato da oltre 300 milioni di persone. Mentre alle presidenziali del 2012 hanno votato 126 milioni di elettori.
Non solo. Gli americani che si esprimono alle primarie hanno un approccio ideologico alla politica e se ne interessano indipendentemente dalla capacità dei candidati di attirarne l’attenzione. Per conquistare il loro voto può bastare sconfiggere dialetticamente gli avversari o occupare con assiduità gli spazi televisivi. Già predisposti verso la liturgia elettorale, questi necessitano solo di un nome da sostenere o da osteggiare. A livello generale invece gli americani mediamente non si curano della politica. Per ragioni scientifiche e di conformazione della società d’oltreoceano.
Preoccupati di impedire il replicarsi nel Nuovo Mondo delle distruttive passioni europee – proposito beffardo per chi era comunque alla testa di una rivoluzione –, i padri fondatori della repubblica crearono un’architettura istituzionale barocca e mediata che impedisse ai cittadini di appassionarsi alle vicende pubbliche e producesse diaframmi pressoché insormontabili tra loro e i professionisti della politica.
Non a caso da queste parti le elezioni si svolgono di martedì, giorno feriale che a fine Settecento precedeva il mercato. Inoltre per dimensione geografica e sviluppo storico, la vitalità economica e demografica del Paese da sempre si palesa a distanza e a dispetto di Washington, delle cui beghe ignora l’esistenza.
Ne deriva che il voto negli Stati Uniti è un atto eminentemente volitivo (e filtrato). A differenza dell’Europa, la campagna elettorale si svolge dal basso verso l’alto. È necessario coinvolgere porta a porta i cittadini, prima persuadendoli a registrarsi per le elezioni, quindi a recarsi fisicamente alle urne. Non bastano gli spot televisivi o i dibattiti pubblici.
Nello heartland americano l’unica politica partecipata è quella locale. E ogni quattro anni i politici nazionali devono convincere i loro concittadini che le questioni di cui trattano li riguardano realmente. Dalla politica fiscale a quella estera, passando per il welfare. Processo estensivo che richiede la creazione di comitati politici sullo sterminato territorio del Paese. Stato per Stato, contea per contea.

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In nuce: per imporsi nelle presidenziali è necessario disporre di cifre astronomiche. Nel 2012 il campo di Barack Obama e quello di Mitt Romney sborsarono circa un miliardo di dollari ciascuno e secondo le previsioni quest’anno la Clinton dovrebbe spendere quasi la stessa somma.

Una soglia inquietante per Trump, che ha devoluto “appena” 49 milioni di dollari alla fase preliminare delle presidenziali, di cui 46 di tasca propria. Molto meno della stessa Hillary, che ha speso nelle primarie 182 milioni, di cui 151 milioni raccolti direttamente e 31 provenienti da finanziatori esterni. Decisamente meno anche di Bernie Sanders (164 milioni); Jeb Bush (137 milioni di dollari, di cui 103 forniti da oligarchi); e Ted Cruz (112 milioni, 42 da gruppi esterni).
In questi mesi Trump ha sopperito all’assenza di fondi stimolando, soprattutto attraverso le televisioni, la pancia dei suoi sostenitori che, già politicizzati in partenza, ne hanno abbracciato il messaggio quasi in automatico. Ma per sperare di vincere ha bisogno adesso di condurre alle urne milioni di bianchi normalmente avulsi dalla politica, e dunque di accedere a maggiori risorse finanziarie.
Di certo il tycoon newyorkese non ha intenzione di saccheggiare il patrimonio personale di circa 4,5 miliardi di dollari. Né i figli glielo consentirebbero. Per questo ha cominciato a rivolgersi ai principali finanziatori repubblicani, nel tentativo di corroborare il suo fundraising. Incontrando alcune porte aperte, ma anche molte porte chiuse.
Nelle ultime settimane si sono ufficialmente schierati dalla sua parte alcuni tra i più influenti oligarchi conservatori. Su tutti: il fondatore di Home Depot Ken Langone, il re dei casinò Sheldon Adelson, l’imprenditore televisivo Stanley Hubbard. E, come segnalato dall’endorsement di Reince Priebus, ora può contare sul Comitato nazionale repubblicano che ha in cassa circa 100 milioni di dollari e nei prossimi mesi metterà a sua disposizione ulteriori fondi.
Tuttavia gli restano ostili molti pesi massimi legati all’establishment repubblicano. A partire dal network della famiglia Bush – da Mike Fernandez ai petrolieri texani T. Boone Pickens, Ray Hunt, Annette Simmons – che non pare intenzionato a sostenerne la candidatura. Specie dopo la negativa presa di posizione di Bush padre, George W. e Jeb. Così come gli industriali degli idrocarburi Charles e David Koch, storici finanziatori della campagna di Mitt Romney e in assoluto i più munifici del fronte repubblicano, che nelle ultime settimane hanno speso circa due milioni di dollari proprio in spot anti-Trump. Quindi i principali manager di Wall Street (vedi box). Ed è qui che per il candidato repubblicano la situazione si complica notevolmente.
Anzitutto perché la Clinton può contare su un fundraising formidabile, alimentato dai principali oligarchi della sinistra. Tra gli altri: il celeberrimo George Soros, che nel 2012 orchestrò profumatamente la conferma di Barack Obama; Tom Steyer, manager di hedge fund con un patrimonio personale di 118 miliardi di dollari; Jeffrey Katzenberg, amministratore delegato della Dreamworks; Irwin Jacobs, fondatore di Qualcomm; Haim Saban, produttore televisivo e in passato proprietario di Abc Family.

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Inoltre la candidata democratica ha cominciato a corteggiare i finanziatori che si mostrano scettici nei confronti del rivale. Il messaggio è chiaro: in materia di assistenza sanitaria, politica commerciale e interventismo militare, l’ex first lady è maggiormente in linea con l’ortodossia repubblicana di Trump. A parte il caso di Ralph Herzka, noto manager di Wall Street che ha appena cambiato fronte, i donor della destra paiono ancora indecisi e potrebbero comunque rifiutarsi di supportare un’esponente democratica, ma l’offensiva della Clinton potrebbe centrare il duplice obiettivo di rallentare il processo decisionale degli oligarchi e incrementare l’aura di inevitabilità di una candidatura tanto spavalda da invadere il fronte altrui.
Elementi e connotati di una competizione che è soprattutto finanziaria, giacché gli sfidanti necessitano di enormi somme per comunicare agli elettori la propria esistenza. Contrariamente a ogni previsione, Trump è stato fin qui molto credibile nel cavalcare la rabbia della classe media bianca, declinata in nativismo e semi-isolazionismo. Temi ciclicamente ricorrenti nella storia politica degli Stati Uniti. Ma per conquistare la Casa Bianca deve persuadere i suoi potenziali elettori a tramutare l’insofferenza in voto. Raggiungendoli nei villaggi e nei luoghi di lavoro, attraverso comitati e spot acquistati sulle migliaia di radio e tv locali.
Stesso discorso per la Clinton che inevitabilmente punterà sul carattere maggiormente inclusivo della sua campagna e sulla presunta pericolosità dello sfidante. Rivolgendosi soprattutto all’elettorato etnico che, in molti casi, non si è mai recato alle urne e deve essere motivato al punto da richiedere la cittadinanza e registrarsi per il voto. Imprese che richiedono uno straordinario dispendio di mezzi. Possibile soltanto per il candidato che si rivelerà meglio finanziato.


Pagina 99, 7 maggio 2016

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