7.7.16

Noi londoniani, società segreta (Beniamino Placido)

L'articolo, in realtà un breve saggio, acuto e brillante, è dichiaratamente la continuazione di una antica provocazione, quella di costituire una associazione, piccola e segreta, di appassionati di Jack London, vista la sua emarginazione in italia e in Europa dai piani alti della letteratura. Sull'argomento Placido aveva già pubblicato, tredici anni prima, un articolo il cui testo ritrovate in questo stesso blog. ( http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2015/09/jack-london-il-merito-di-scrivere-male.html )

Perché non è nata per davvero, poi, l'Associazione segreta Lettori d Jack London? Perché non è stata costituita formalmente: con quella formalità sommessa ma implacabile che le Società, le Associazioni segrete devono pur avere? Perché: visto che si tratta di un' Associazione di innocenti lettori: senza scopi di lucro o di potere: a fin di bene?
Quindici anni fa ci eravamo andati molto vicino. Posso dirlo come testimone e come autore della proposta. Quindici anni fa, introducendo per Savelli (un editore romano alternativo che adesso non c' è più) Il richiamo della foresta e altri racconti della febbre dell'oro (con cinque domande a Giorgio Bocca, Savelli, Roma, 1975) avevo avanzato quella proposta. Subito, erano giunte le prime adesioni. Prima fra tutte, quella che considero tuttora la più lusinghiera e la più cara. Sebastiano Timpanaro mi aveva scritto da Firenze per dirmi: guarda che io e mia moglie siamo lettori appassionati di Jack London. Mandaci la tessera, consideraci della partita. Sebastiano Timpanaro mi dava del tu, senza conoscermi: era fatta. Sebastiano Timpanaro: il grande filologo, classico e moderno, che vive schivo e appartato, ammirato in Italia e all'estero.
Del resto, sapevo di potermela permettere, una proposta come quella. Sapevo di poter iscrivere d'autorità, fra i soci fondatori dell'Associazione, Lenin e Trotskij: che avevano espresso apertamente, ripetutamente la loro ammirazine per lo scrittore americano. Sul letto di morte, Lenin si faceva leggere qualche pagina de L'amore della vita da Nadeva Krupskaja. E ne chiedeva sempre qualche altra. Sapevo che Ernesto Che Guevara si chiamava così in onore del vigoroso protagonista de Il tallone di ferro: Ernest Everhard.
Sapevo anche per converso che l'americanistica, nei cui ranghi avevo militato, anche accademicamente, non guardava a Jack London con altrettanto amore. In cinque anni di permanenza presso l'Istituto di Letteratura americana dell'Università di Roma (fra il ' 70 e il ' 75) non mi ricordo di una sola tesi di laurea su Jack London. Ci sarà pure stata, forse. Sarà anche stata assegnata, e poi compilata e discussa, ma non me ne sono accorto. Del resto, tutti sanno che Cesare Pavese aveva dedicato a questo scrittore un solo e distratto accenno. Che Emilio Cecchi lo detestava. Quel culto balordo, diceva, parlando della religiosità popolare che c'era sempre stata, intorno a London. Che Elio Vittorini lo tollerava soltanto. Che la mitica Americana di Vittorini e Cecchi, l'antologia pubblicata da Bompiani a Milano nel 1942, presenta un solo raccontino: Accendere un fuoco, ma quasi di malavoglia. Con una nota di accompagnamento in cui si dice che London aveva preso in prestito alcuni temi da Melville per renderli poi addirittura triviali. Così i racconti di London sono sistemati.
Quanto alle opere più grandi e più grosse: Nessuno dei suoi romanzi è particolarmente notevole. Davvero? Nessun romanzo di London? Nemmeno Il tallone di ferro, che Pudovkin e Gardin portarono in teatro e sullo schermo? Nemmeno Martin Eden, che Majakovskij e Burljùk portarono sul palcoscenico, nella Russia avanguardistica (prima e più ancora che rivoluzionaria)? Ricordo di aver chiesto il perché di questa freddezza della nostra cultura ufficiale a Giorgio Bocca; che rispose, sempre per quel volumetto savelliano. E rammento, rileggendo, che Bocca affermò: “Direi che London non appartiene agli americani della Pivano o di Pavese per questi motivi. Gli americani che piacciono alla Pivano o a Pavese sono degli scrittori che restano uniti da un cordone ombelicale alla cultura europea; che sono cioè, anche quando fanno di tutto per non sembrarlo, dei letterati. London invece è americano dalla testa ai piedi: con la rozzezza, l'ingenuità, il semplicismo dell'autodidatta americano”.
Ma se le cose stanno così e stanno così, in parte, perché non si è mai pensato a Jack London per risolvere l' annoso problema del Grande romanzo americano? È un problema piccolo, d'accordo: fors'anche un po' buffo. Ma non ho mai promesso di dedicarmi solo alle cose serie e intelligenti. Un problema che si pone così: possibile che l'America, a differenza delle nazioni europee, non abbia il suo Grande romanzo nazionale, che la rappresenta immediatamente, integralmente? Perché non possiamo proporre, come Grande romanzo americano, il combinato disposto di quei due romanzi di Jack London che sono Il richiamo della foresta (1903) e Zanna bianca (1906)? Due romanzi di zanne e artigli, di città e di foreste, di uomini e di animali. Diversi ma simmetrici. Nel secondo c' è la fascinazione della casa; del ritorno al focolare domestico di un cane: Zanna bianca. Nel primo c' è la fascinazione dei grandi spazi aperti, della fuga, del ritorno alla natura di un altro cane: Buck.
E come gli animali, gli uomini. L'Homo americanus è in continua tensione fra la tentazione di fuggire, di muoversi, di esplorare, e il piacere di tornare. Quel piacere di tornare a casa nel salotto regolare, in seno alla sua regolare famiglia che il film hollywoodiano medio ha esaltato. Costruendo un modello di cinema e di comportamento sociale.
Oppure: perché non proporre, per il titolo Grande romanzo americano, quel Martin Eden (1909) che è il romanzo americano più letto, più amato nel mondo? Le Lettere di Jack London riempiono tre grossi volumi. In apertura del secondo volume, che comprende le lettere dal 1906 al 1912, c' è una bellissima mappa di quel viaggio dello Snark che London fece fra il 1907 e il 1908 (aveva poco più di trent'anni; sarebbe morto, a quaranta, nel 1916). È il viaggio che fa da premessa e da matrice a questi Racconti del Pacifico. E quindi ci sono, nella mappa, le isole Samoa e Bora Bora. Le isole Marchesi, e c' è Honolulu. Ci sono, insomma, le mitiche isole di Melville, di Stevenson, che Jack London aveva voluto visitare. Nelle lettere, ci sono le popolazioni indigene, che Jack London aveva voluto conoscere. Quegli indigeni primitivi, dolenti, dignitosissimi che sono i protagonisti di queste narrazioni. Leggete il primo, di questi racconti: Chinago. Leggetelo adesso, subito. Dovunque vi troviate. È un racconto breve, dopotutto. Su per giù, quindici pagine. È il più bel racconto antirazzista che io abbia letto. Ma dire antirazzista è un' affermazione riduttiva, di circostanza. E' molto di più. E' la storia di un uomo: primitivo, dignitoso e volenteroso che si chiama Ah Cho. Il suo destino si confonderà drammaticamente, inevitabilmente con il destino di un altro indigeno che si chiama Ah Chow, con la w finale. Ma chi volete che distingua fra i due cognomi, se si tratta di indigeni? Ma chi volete che distingua fra due indigeni, impegnati a lavorare nelle piantagioni? Gli indigeni, i primitivi, si sa, sono tutti uguali. No, dice (anzi racconta, e raccontando dimostra) Jack London. Gli indigeni sono diversi, diversissimi uno dall'altro. E una w in un cognome fa una gran differenza. Come da noi c' è differenza e quanta fra un signore che si chiama Rossi e un altro che si chiama Rossini. Non ci sogneremmo mai di confonderli l'uno con l'altro. Soprattutto, non ci permetteremmo mai di accusarli, di giudicarli e poi di condannarli l'uno al posto dell'altro.
E ancora vorrei segnalare l'ultimo adepto (lo sappia o no, lo voglia o no) della nostra Associazione. E' una donna. Quest' estate, per “il manifesto” del 22 agosto, ha scritto un lungo articolo saggio sul mito filosofico-letterario della caverna. Comincia citando le pagine freschissime, e incredibilmente penetranti, di Zanna bianca, quando il piccolo lupo grigio si avventura verso la luce, fuori della sua tana. Non saprei dire se Jack London conoscesse o no il mito platonico della caverna, scrive Gabriella Caramore. Nemmeno io lo so (credo di no). Ma questa sorprendente coincidenza mi autorizza a dire che Jack London è malgrado tutta la sua americana modernità, uno scrittore antico. Dagli scrittori antichi che forse non conosceva affatto London riprende, e riformula, il tema del destino. Non è vero che ci costruiamo da noi la nostra vita, come detta l'ottimismo americano. Martin Eden ci ha provato a costruirsi la sua vita, e il suo successo, da sé. Non c'è riuscito. Si è suicidato, alla fine (sembra che si sia suicidato, alla fine, anche London)? Sembra che il capitalismo che egli da americano ammirava sia solo felicemente produttivo. È anche terribilmente espansivo. Nell' espandersi trascura i diritti dei più deboli. Anzi, li ignora. Non distingue più fra Ah Cho e Ah Chow. È un triste destino. Un destino, comunque. Forse è questo che è sfuggito agli americanisti come Pavese e come Fernanda Pivano. Ai quali rinnovo qui, ma so che è superfluo, il mio devoto omaggio.
Cesare Pavese aveva intuito, credo, una cosa importante. Che dietro le mitologie letterarie americane modernissime in apparenza c'erano tensioni mitologiche più antiche. E lui pensava a quelle classiche: di scuola. Ma noi abbiamo la possibilità, e quindi il dovere, di azzardare un passo più in là. La moderna mitologia letteraria americana è ancora più remota. Nello spazio, se non nel tempo. Quel West che è sempre presente, incombente in forma di mare o di pianura o di foresta con la sua Wilderness aspra e selvaggia, è il deserto della Bibbia. Il midbar: termine dentro il quale i finissimi interpreti antichi leggevano in trasparenza, un altro termine ebraico: dabar. Che vuol dire: parola. Perché? Perché nel deserto (come nel West, come nella Wilderness) sei solo. E forse disperato. Ma sei finalmente con te stesso. E con te stesso devi parlare. È lì che ritrovi la parola; la parola importante. Se non sbaglio, è proprio quello che accade ai personaggi uomini o cani che siano di Jack London. Quando abbandonano la città, la civiltà; si inoltrano nei deserti innevati dell'Alaska, alla ricerca magari di una capanna perduta. E lì parlano finalmente con se stessi. Lì esplorano la loro natura e il loro destino. Scoprono che il gran guaio degli uomini (e dei cani, se è per questo) è di non saper vivere da soli. E nemmeno in compagnia. Perché ogni società è una società di cani, anzi di lupi. Affettuosi e feroci. Affettuosi, qualche volta; feroci, quasi sempre. Ma emerge qui, in questi racconti, specie in quelli dei lebbrosi, un altro tema antico, antichissimo. Biblico anch'esso. Abbiamo dimenticato che la Bibbia fa da fondamento alla cultura americana? Qualcuno se ne sta ricordando, oggi. Qualcuno che scrive libri che si intitolano La geremiade americana (The American Jeremiad di Sacvan Bercovitch, The University of Wisconsin Press, 1978). Il tema dell'hesed, parola ebraica antica sostanzialmente intraducibile. E già questo è un brutto segno: per noi. Non abbiamo la parola perché non abbiamo più il concetto. Significa pressapoco, e tutto insieme: solidarietà, ascolto attento, affettuosa intelligenza dell'altro. Che è un altro tenero e feroce. Ma fragile e prezioso. Come noi, del resto.
Non si deve confondere Ah Cho con Ah Chow. Sono due persone diverse. Li distingue solo una lettera una w? Ma è già tanto. È ciò che conta. Adesso so perché non abbiamo formalizzato, a suo tempo, l'Associazione segreta Lettori di Jack London. Perché non vogliamo. Non vogliamo uscire allo scoperto (ogni associazione segreta prima o poi si fa scoprire). Perché sappiamo che cos'è, come funziona la letteratura. La letteratura, è stato detto non so da chi, ma benissimo è un linguaggio clandestino che ci serve per comunicarci dei segreti. Quando leggiamo Jack London vogliamo essere soli. Come i suoi personaggi: sul mare, sulle nevi o in una capanna sperduta. Solo se siamo soli, o isolati, possiamo comunicarci per vie misteriose, imprevedibili dei segreti. Ci diciamo, leggendo London in solitudine, che ogni uomo è un'isola come aveva ripetuto anche il suo allievo Hemingway. Ma un'isola diversa da tutte le altre. Affetta da un diverso, solitario destino. Così come sono diverse, diversissime fra di loro queste isole del Pacifico. Che sembrano tutte uguali nei dépliants delle agenzie pubblicitarie. Non so se siamo pochi o molti, noialtri lettori di Jack London, ma ci conosciamo. Siamo pochi, ma ci siamo.


“la Repubblica”, 6 gennaio 1990  

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