28.7.16

Aldo Capitini e la rivoluzione (S.L.L. - Il Ponte, giugno 2016)

Quello che segue è il testo del mio intervento all'incontro di studio “Siate musica, non statue” (Perugia, Archivio di Stato, 21 aprile 2016) in occasione della pubblicazione del volume di Aldo Capitini Un'alta passione, un'alta visione. Scritti politici 1935-1968, a cura di Lanfranco Binni e Marcello Rossi, Il Ponte Editore, 2016. È stato pubblicato su “Il Ponte”. (S.L.L.)
Aldo Capitini
Aldo Capitini amava molto la sua città sulla quale scrisse pagine appassionate. Vivo a Perugia da 35 anni e non mi pare che la città abbia adeguatamente ricambiato quest'amore - almeno la città ufficiale, la città che appare. L'impressione è che nella vita di tutti i giorni essa abbia dimenticato questa figura atipica di religioso senza chiesa e di politico senza partito e che, quando - nei dì di festa - ne recupera occasionalmente la memoria, da una parte lo beatifichi, dall'altra ne fraintenda e sterilizzi il pensiero.
C'è qualche eccezione, in verità. E non mi riferisco solo ai gruppi e ai singoli, non di rado in polemica tra loro, che direttamente si richiamano all'insegnamento del maestro; ma anche al Fondo Walter Binni o al mensile “micropolis”, che – pur senza rivendicare alcuna ortodossia (il che peraltro sarebbe l'esatto contrario della “religione aperta” proclamata da Capitini) – in più occasioni hanno sottolineato il valore internazionale di un'esperienza di ricerca e di lotta maturata nella nostra provincia un po' isolata. Gli scritti politici, recentemente raccolti, di Walter Binni, allievo e sodale di Capitini in tante battaglie, come le testimonianze di Maurizio Mori, che, giovanissimo, ne fu collaboratore al “Corriere di Perugia” e nell'esperienza dei COS per poi orientarsi verso la Quarta internazionale e il marxismo critico, hanno già da qualche anno contribuito a demolire le deformazioni agiografiche di segno moderato, un tempo assai in voga, e a far emergere il carattere rivoluzionario della nonviolenza capitiniana.
Questa immagine forte e combattiva del pacifista Capitini è confermata e consolidata dalla pubblicazione di Un'alta passione, un'alta visione. Scritti politici 1935-1968, la raccolta curata da Lanfranco Binni e Marcello Rossi per le edizioni de “Il Ponte”, un libro “necessario”, giacché restituisce la parola a Capitini e favorisce un approccio alla sua concezione politica non mediato, ma orientato da lui stesso. Attraverso due terzi del secolo, il testo che non casualmente apre la raccolta, è infatti una rigorosa autobiografia intellettuale stilata nel 1968, ma per la morte improvvisa e imprevedibile del suo autore in quello stesso anno, oggi appare una sorta di testamento spirituale e una chiave utilissima per la lettura delle opere.
Si intravede in tutti gli scritti raccolti, dai pensieri sparsi contenuti nel Taccuino del 1935-36 allo scritto incompiuto sull'Onnicrazia del 1968, un nucleo di pensiero e di azione denso e compatto, in cui la dimensione religiosa e spirituale, quella politica, quella etica, quella educativa si connettono strettamente, non già in un “sistema” definito una volta per tutte, ma in una ricerca a spirale nella quale ogni tema viene ripreso a un livello più alto e più profondo con il metodo dialogico, ascoltando l'altro e con lui relazionandosi, attraverso quel TU che il pensatore perugino pone a fondamento di ogni socialità. Capitini non amava i dogmi e gli irrigidimenti dottrinari; e, di conseguenza, non amava le Chiese dogmatiche; lo ribadì con nettezza e dolcezza proprio in quella che è forse la sua ultima “lettera di religione”: “l'idea di un'ecclesia che abbia la stessa ideologia ci sembra una vecchia idea, irrispettosa della diversità che può sorgerci vicina ed essere migliore di noi”.
La pubblicazione di questa raccolta è un'occasione anche per la sua città: come dimostra questo convegno ha già messo in movimento energie e intelligenze e ancora di più ne metterà; ma è anche un'opportunità offerta alla sinistra in gran parte sbandata e senza punti di riferimento dopo la sconfitta del comunismo novecentesco e la caduta di tante illusioni riformistiche. La Perugia democratica e civile che Capitini amava, la Perugia del 20 giugno, ha il dovere di farsi centro in questo impegno per restituire alla cultura politica italiana e internazionale un pensiero forte, un'esperienza esemplare. Registro come il direttore del Polo Museale dell'Umbria si proponga una valorizzazione dei luoghi capitiniani, a cominciare da quella torre campanaria di Palazzo dei Priori che ne fu l'abitazione e che negli anni del fascismo divenne sede di cospirazione democratica. Sento ragionare di una riedizione degli scritti più importanti a cura della Fondazione e delle associazioni, vedo come il lavoro svolto negli anni all'Archivio di Stato sulle carte di Aldo Capitini, peraltro già amorosamente ordinate da Maria Luisa Schippa, renda concreta la possibilità di un portale dedicato al grande perugino, individuo segnali di interesse nelle Università cittadine e nelle scuole secondarie della regione. È un momento importante. È giunto il tempo di riaprire i libri, le carte, i verbali e le lettere di Capitini per metterle a disposizione delle nuove generazioni. Penso a un gruppo di studiosi, in prevalenza giovani, in collaborazione tra loro, che nelle istituzioni e fuori di esse lavorino ad elaborare un “lessico capitiniano”, a decostruire e ricostruire il suo pensiero intorno ad alcune parole chiave, 15-20 al massimo: per esempio religione, potere e potenza, violenza/nonviolenza, compresenza, aperto/chiuso, socialismo, libertà, chiesa, centro, rivoluzione. Vorrei che la riflessione investa anche termini più specifici, di valenza più limitata, ma in vari modi caratteristici del pensiero capitiniano nei suoi diversi momenti, un centinaio al massimo e tra questi moltitudine, sciopero, straniero, frontiera, gruppo, cooperativa, contestazione.
Quanto a me vorrei solo comunicare qualche suggestione nata dalla lettura degli Scritti politici.
La prima riguarda il termine “Rivoluzione”. Sull'argomento il testo chiave di Capitini mi sembra essere Rivoluzione aperta, un saggio pubblicato per la prima volta nel 1956 presso l'editore Parenti e dichiaratamente ispirato all'esperienza che Danilo Dolci stava sviluppando in Sicilia, costruendo dei centri di iniziativa sociale. Testo di battaglia dunque, di risposta alla offensiva mafiosa e conservatrice contro il lavoro di un uomo che da solo, senza nessun incarico e nessuna uniforme, a Trappeto e a Partinico aveva messo in movimento contadini e pescatori per grandi obiettivi di giustizia sociale; ma anche testo teorico, teoria inseparabile dalla prassi, dall'esperienza. Sulla rivoluzione così Capitini si esprime: “Noi non dobbiamo avere paura di questa parola, anzi ci diciamo senz'altro rivoluzionari, proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l'oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste. Rivoluzione vuol dire cambiamento di tutte queste cose, liberazione, rinascita come persone liberate e unite”. E poi: “la storia deve mutare (il corsivo è di Capitini) […] la nostra rivoluzione, oggi qui e subito, ha qualche cosa di diverso, perché è fatta con l'animo di tutti, con l'animo nostro unito a tutti anche se non ci sono accanto, è rivoluzione con tutti e per tutti”.
Userò come pietra di paragone per la proposta di Aldo Capitini un testo importante scritto qualche anno dopo, il libro di Hannah Arendt Sulla Rivoluzione (la prima edizione americana è del 1963, quella definitiva del 1965; la prima traduzione italiana del 1980, per le Edizioni di Comunità). È un'opera della filosofa americana di origine ebreo-tedesca molto meno citata del celebre opuscolo sulla banalità del male o delle Origini del totalitarismo, il cui intento dichiarato è una ricognizione teorica, storica, fenomenologica sulla rivoluzione come tentativo di rifondare la politica e la vita. Hobsbawm la giudicava assai “poetica”, il che a me sembra una lode, non una stroncatura come è sembrato ad altri. Il libro mostra sempre rispetto, talora simpatia per le esperienze rivoluzionarie sia democratiche che socialiste, ma il bilancio che traccia sulla tradizione rivoluzionaria risulta complessivamente negativo. Anche Capitini in più di un'occasione prende le distanze dai maestri di rivoluzione degli ultimi due secoli, Robespierre, Marx, Lenin, Mao, e per ragioni non dissimili: la violenza che tutto guasta, il prevalere del determinismo economico che riconduce la rivoluzione dal regno della libertà a quello della necessità. Non escludo che la Arendt, il cui interesse per i temi della non-violenza e della disobbedienza civile (a cui dedicherà un libro) risale agli anni 50 del Novecento, conosca sia pure indirettamente l'elaborazione di Capitini. C'è peraltro in Capitini e in Arendt una sostanziale consonanza nella interpretazione del concetto di rivoluzione: l'uno e l'altra valorizzano l'idea di “nuovo inizio”, di fondazione di un nuovo ordinamento sociale e civile rispetto a quella, più vulgata, di sovvertimento violento dell'ordine costituito. La differenza maggiore riguarda semmai i compiti della Rivoluzione, che per la Arendt avrebbero dovuto e dovrebbero esaurirsi nella fondazione di nuove istituzioni politiche capaci di restituire alle comunità umane le pubbliche libertà dell'antica polis greca; mentre per Capitini vanno assai oltre e comportano una liberazione “totale e corale”, civile, economica, etica e religiosa, che non si esaurisce, ma resta aperta, e in cui è fondamentale l'esperienza diretta della liberazione, fondata sulla non-menzogna, la non-collaborazione con il potere oppressivo, la non-violenza.
Un posto speciale ha nel libro della Arendt quello che ripetutamente definisce il “tesoro perduto” della Rivoluzione, la conquista forse più effimera nella sua efficacia attuale, ma nondimeno più preziosa e solida nel suo significato libertario: la pratica e l’istituzione di quelle forme di potere dal basso che, con nomi diversi (Comuni, Soviet, Rate), ma con funzioni sostanzialmente identiche, sono emerse in tutti i processi rivoluzionari ad esprimere l’accesso al “cielo della politica” di strati popolari, a sostanziare un processo di diffusione delle libertà pubbliche, che va molto al di là della cerchia dei “già liberi”. Anche in questo Capitini sembra anticipare l'elaborazione della grande intellettuale emigrata nel Nuovo Mondo: chiave della sua rivoluzione sono quelli che chiama COS, i Centri di Orientamento Sociale, luogo del dialogo, della socialità, del potere di tutti. Non si tratta tanto di una escogitazione intellettuale, di una intuizione teorica, quanto di una pratica coltivata con pazienza rivoluzionaria in Umbria e in Toscana negli anni del dopoguerra, che Capitini mette in prima linea nel suo progetto di rivoluzione. Quando nel 1963 pubblicherà il suo sintetico “manifesto” Per una corrente rivoluzionaria nonviolenta tra i primi obiettivi indicherà “la rapida costituzione di centri di orientamento sociale aperti, in periodiche riunioni, a tutti e alla discussione di tutti i problemi della vita pubblica”.
In questi centri presenti anche e soprattutto nelle periferie Capitini vede il realizzarsi ed il progressivo articolarsi nel reciproco legame federativo di un potere dal basso, che è in primo luogo controllo dei poteri costituiti, ma è anche progettazione di progresso, in grado di condizionare e di orientare anche la politica ufficiale, i governi e i parlamenti elettivi. Nell'ultima pagina del saggio sull'“onnicrazia” (il potere di tutti), pubblicato postumo, addirittura scrive di “due fasi del potere: la prima fase è senza governo, ma è già un potere largo e complesso, da articolare instancabilmente, è rivoluzione permanente”.
Su una elaborazione così ricca e complessa pesa un pregiudizio analogo a quello visto all'opera nei confronti della Arendt: Capitini è poeta, profeta, ma nulla sa della politica reale, della politica politicante, che è di necessità “sangue e merda”.
Non mi pare che sia così. A me sembra che nella vicenda di Aldo Capitini sia possibile rintracciare molta più politica di quanta non ve ne sia nei suoi critici “politicisti”. In verità non mancò in lui né attenzione né comprensione per quanto si muoveva tra i partiti, in parlamento, nelle assemblee elettive, nei movimenti politici di massa. Allo strumento partito preferì sempre l'azione diretta di minoranze attive, di piccoli gruppi, di singoli, ma non scoraggiò la partecipazione ad esperienze di politica partitica di amici, compagni, allievi.
Capitini dopo la liberazione dal fascismo combatté il potere democristiano che si andava affermando: vedeva operanti al suo interno elementi di conservazione e restaurazione e ne temeva la contiguità con la “religione di Pio XII” e con la sua chiesa, nella quale scorgeva pratiche fortemente illiberali e contro cui combatteva battaglie importanti in nome della laicità delle pubbliche istituzioni e della scuola. Ebbe ammirazione e rispetto per il mondo comunista, per le energie di liberazione che il Pci animava nelle moltitudini, tra le classi operaie e tra i contadini, ma nutrì una fondata diffidenza verso l'autoritarismo, il dogmatismo, il conformismo che caratterizzarono spesso l'azione del partito comunista durante il periodo staliniano e anche oltre. Vide, peraltro, subito i moderatismi e le subalternità presenti nell'azionismo dei La Malfa e dello stesso Calogero e optò per un liberalsocialismo pienamente socialista. Le sue simpatie prevalenti dunque, specie dopo la fine del Partito d'Azione, andarono verso il movimento socialista e i suoi partiti.
All'inizio del 1948, benché alcuni dei suoi amici più cari (Binni e Codignola, per esempio) avessero fatto scelte diverse, più caratterizzate dall'autonomismo socialista, Capitini si dichiarò favorevole alla costituzione del Fronte democratico popolare, che s'apprestava a raccogliere in unica lista per le elezioni politiche il Pci di Togliatti, il Psi di Nenni e Morandi e alcune personalità indipendenti. Negli Scritti politici sono due testi a rappresentare questa fase: il primo reclama l'inserimento nel programma del Fronte di libere assemblee popolari sul modello dei COS, il secondo, pubblicato su “Italia socialista”, dopo la partecipazione di Capitini all'assemblea di lancio del Fronte, svoltasi al Planetario il 28 gennaio, ne vorrebbe una strutturazione dal basso, come comunità aperta che supera i vincoli partitici “con le conseguenze assolutistiche, funzionaristiche”.
Questo tentativo di dotare l'alleanza di sinistra di strumenti autonomi, non partitici, segnala una contiguità forse inaspettata, ma – a mio avviso – molto significativa. Qualche giorno prima del Convegno del Planetario, il 21 gennaio, al XXVI Congresso Nazionale del Psi aveva svolto il suo intervento Raniero Panzieri, un giovane studioso di filosofia, che Nenni salutava nei suoi diari come uno degli elementi più giovani messi in valore dal dibattito (vedi Raniero Panzieri, L'alternativa socialista, Scritti scelti 1944-1956, Einaudi, 1982): secondo lui gli organismi di base del fronte erano “le cellule embrionali di una società nuova” e in quanto tali cooperavano al superamento della democrazia formale.
Capitini e Panzieri sicuramente ebbero tra loro dei rapporti, specie nel periodo tra il 1953 e il 1957, quando il secondo svolse ruoli di primo piano nel Psi nazionale, ma non risultano manifestazioni di reciproca simpatia. I loro nomi, in ogni caso, possono essere accostati in più di una circostanza anche dopo quel fatidico Quarantotto, nonostante le evidenti differenze tra “il potere di tutti” e il classismo del dirigente socialista, considerato il capostipite dell'operaismo. Non mi pare mera coincidenza un Capitini che nel 1963 incoraggia la ricerca sugli immigrati meridionali a Torino di Goffredo Fofi, uno dei suoi allievi, già sodale in Sicilia di Danilo Dolci, purché sia un aiuto al fare, non un alibi al non fare, e un Panzieri che viene licenziato dalla Einaudi, ove curava alcune collane, proprio perché vuole a ogni costo pubblicare quell'inchiesta scomoda.
In un testo firmato insieme a Lucio Libertini nel 1958, le Sette tesi sul controllo operaio, Panzieri rivendicò sulla programmazione economica un controllo operaio dal basso che si fa potere, orientando le decisioni di governo e parlamento; parlò – riprendendo una formula usata da Lenin nelle Tesi di aprile (1917) – di “dualismo di potere”. Solo che in Lenin il dualismo tra i “governi provvisori” insediatisi in Russia dopo la “Rivoluzione di febbraio” e i soviet appariva frutto di un equilibrio provvisorio, da superare in tempi brevi, mentre la compresenza tra Parlamento e governo da una parte e controllo operaio dall'altra è per Panzieri destinata a durare nel tempo.
Lo stesso concetto, in forma perfino più radicale, si ritrova in tanti scritti nel Capitini di quegli stessi anni. Ecco per esempio cosa si può leggere a proposito della programmazione nel già citato manifesto Per una corrente rivoluzionaria non violenta: “A coloro che obiettassero che la pianificazione economica sociale di uno stato moderno non può che essere centralistica e autoritaria, rispondiamo che la pianificazione può e deve essere accompagnata dall'esistenza di organi popolari che ne rendano possibile la preparazione, il controllo della esecuzione, la revisione. Questi organi sono l'unica garanzia che l'autoritarismo della pianificazione non si trasferisca nell'autoritarismo di tutto l'apparato statale, come ha dimostrato l'esperienza sovietica. Questi organi, infatti, continuando l'azione già svolta nella situazione di economia privatistica dai consigli dei lavoratori, dovranno svilupparsi fino a diventare i protagonisti del mondo produttivo socialista nei due settori pubblico e cooperativo di autogestione”.
Infine quando, a Torino nei primi anni 60, Raniero Panzieri, è promotore dei “Quaderni rossi”, ma ormai deliberatamente fuori dalla vita dei partiti, alle sollecitazioni perché “rientri in politica” reagirà con parole che ricordano quelle di Capitini sulle minoranze attive, sui piccoli gruppi capaci di lavorare molto più in profondità dei partiti verso il cambiamento. È la conferma di una contiguità che non va sopravvalutata, ma neanche sottovalutata; i critici ortodossi, in ogni caso, usano per l'uno e per l'altro gli stessi accenti, le stesse accuse: “intellettualismo”, “astrattismo”, “minoritarismo”, eccetera.
Sono questi due esempi nel Novecento italiano di maestri controversi, di eretici che apparivano ai margini del corso principale della storia. Ce ne sono altri. Penso a Leonardo Sciascia, Franco Fortini, Walter Binni, Mario Mineo, Edoarda Masi, Sebastiano Timpanaro. Altri farebbero altri nomi, di sicuro altrettanto importanti o forse di più, di intellettuali e politici molto diversi da questi e tra loro. Non sono molti, comunque, e sono proprio quelli che possono aiutarci a riprendere i percorsi dell'uguaglianza, della libertà di tutti e per tutti che appaiono interrotti. A Perugia abbiamo una grande opportunità, cominciare da Capitini. Non sprechiamola.


“Il Ponte”, Anno LXXII n. 6 – Giugno 2016

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