7.7.16

Zecche (Marco Belpoliti)

Nessuno ama le zecche. Essere definiti «una zecca» è chiaramente un insulto. Le zecche, come si sa, succhiano il sangue, sono dei parassiti. La parola che le definisce nella nostra lingua viene dal longobardo zekka (in tedesco oggi è Zecke e in inglese tick). Le zecche sono Aracnidi come i ragni, ma non hanno tutti i lussi dei ragni propriamente detti, come spiega Karl von Frisch. Non posseggono infatti reti per la caccia, né letti sericei per le uova, non applicano filtri d’amore alle dimore delle femmine, né possono gettare vele per aria per spostarsi senza troppa fatica, non hanno neppure ghiandole sericipare. Il posto che gli spetta tra gli Aracnidi in verità è nel gruppo degli Acari, per altro assai ricco di specie.
Gli acari vivono su qualsiasi buona superficie: la pelle dell’uomo, il formaggio, la farina; ma ci sono anche acari che prediligono piccoli insetti come cavallette, farfalle e altri ancora. C’è persino un acaro che vive nei condotti respiratori delle api e finisce per infettare interi alveari sterminandoli. Si nutrono di fluidi, grazie a una faringe aspirante.
Le zecche sono parassiti ematofagi, dei giganti nel popolo di nani degli Acari. Dato che non è così facile e piacevole vederle, von Frisch le descrive brevemente: il corpo privo di articolazioni, una testa mobile con una specie di colletto, la proboscide con cui succhia, dalle qualità perforanti, che si protende in modo minaccioso in avanti. Le femmine sono diverse dai maschi per via di un ricco drappeggio sulla pelle, e sono molto più voraci, per ragioni riproduttive, del sesso opposto o complementare. Quando sono gonfie di sangue, la loro dimensione è quella di un pisello. Se un uomo tentasse di gonfiarsi in modo analogo, scoppierebbe ben prima di raggiungere una dimensione proporzionale. Nelle femmine della zecca la pelle è estensibile perché corrugata: una specie di piega, in definitiva.
Forse per questo piace così tanto a un celebre filosofo francese, Gilles Deleuze, che alla piega ha dedicato uno studio. In più occasioni Deleuze parla con entusiasmo della zecca. La ragione dipende dal suo «carattere» ridotto. La zecca risponde, o reagisce, solo a tre stimoli o «eccitanti»: l’odore, la temperatura e il tatto. Sale su un filo d’erba, o un ramo, attirata dalla luce, dice il filosofo in una conversazione, perché richiamata dalla luce; poi lì aspetta per lungo tempo senza mangiare, senza fare niente, completamente amorfa, fino a che non passa un essere vivente; quindi si lascia cadere attratta da un eccitante olfattivo. Una volta caduta sul pelo di un animale, un mammifero in genere, che riconosce grazie a un organo sensibile alla temperatura, cerca la zona meno coperta di peli, e spinta da un eccitante tattile si ficca nella pelle e sugge: «Del resto non le importa assolutamente niente. In una Natura brulicante, estrae e seleziona tre cose...»
Deleuze ha tratto queste informazioni da un naturalista tedesco, Jakob von Uexküll, considerato un pioniere dell’etologia e dell’ecologia, autore di un libro suggestivo, in cui parla, tra le altre cose, della zecca: Ambienti animali e ambienti umani. Von Uexküll, che è stato amico di Konrad Lorenz, nonché vicino al nazismo, definisce la zecca un «brigante di strada, sordo e cieco ». Privo di occhi, questo insetto si avvicina alla vittima attraverso l’olfatto, stimolato dall’acido butirrico prodotto dai follicoli sebacei di tutti i mammiferi; è questo acido a fornire alla zecca un segnale per abbandonare la zona dove si è appostata, facendola cadere sulla vittima (il cane, come sanno bene i padroni).
È il mondo della zecca ad attrarre lo zoologo tedesco, che ha studiato anche i pesci ed è morto a Capri, perché amava come altri suoi connazionali il Sud dell’Italia. Questi racconta come presso l’Istituto zoologico di Rostock sono state tenute in vita delle zecche digiune per 18 anni. Di certo gli esseri umani non possono resistere così tanto tempo senza mangiare. Secondo von Uexküll se la vita umana è composta da una serie di istanti, ovvero segmenti temporali molto brevi, all’interno dei quali il mondo non sembra presentare alcun cambiamento, in quell’intervallo di tempo che è l’istante, scrive, «il mondo è fermo». Per la specie umana questa brevissima durata può essere di «un diciottesimo di secondo»; per la zecca, che attende il mammifero su cui lasciarsi cadere, in uno stato simile al sonno, questo istante può benissimo durare per 18 anni come nell’Istituto di Rostock. Per questo ogni animale vive chiuso nel suo mondo-ambiente. Il tempo appare come il contenitore per qualunque avvenimento, ma anche l’unico elemento stabile nel continuo fluire degli avvenimenti, ad esempio, umani. Per questa ragione Deleuze ama le zecche? Probabilmente sì. La zecca è a suo modo un essere bergsoniano.


Dal sito “doppiozero”, 5 luglio 2016

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