10.7.16

Selfie e action cam. Protesi tecnologiche dell’io (Peppino Ortoleva)


Un capovolgimento di ruoli tra fotografo e realtà
Uno dei primi teorici della fotografia, l'americano Oliver Wendell Holmes, diede una definizione fulminante, e da allora citatissima, di quel dagherrotipo che brevettato nel 1839 ha aperto la strada alle immagini fatte a macchina: «Uno specchio dotato di memoria». Quando poi a quei suggestivi ritratti racchiusi in una cornice di vetro e metallo subentrarono nuove tecniche, fondate sulla produzione di un negativo da stampare poi su carta, e si diffuse l’abitudine della fotografia su cartoncino, sempre Holmes parlò di una «cartamoneta sentimentale della civiltà», fatta soprattutto per passare di mano in mano, come il denaro circolante.
Il selfie, l’uso della fotocamera digitale o del cellulare per effettuare autoritratti, che ha conosciuto agli inizi del XXI secolo una diffusione straordinariamente rapida - secondo alcune fonti sarebbe nato proprio nel 2001 o nel 2002, ma si tratta sempre di datazioni piuttosto arbitrarie -, sembra assommare in sé tutte e due le definizioni date allora da Holmes. Che il selfie sia una sorta di prolungamento tecnologico dello specchio, destinato se non proprio alla “memoria” futura quanto meno a prolungare nel tempo l’istante spesso occasionale in cui è stato prodotto, non c’è dubbio; un’immagine in cui ci riconosciamo non tanto perché ci rassomiglia quanto perché è stata prodotta nel nostro display da un nostro gesto, e perché farla è stata un nostro divertimento. Ma è altrettanto evidente che il selfie sarebbe un fenomeno ben diverso, e non esisterebbe nella forma in cui oggi lo conosciamo, senza la vorticosa messa in circuito dell’immagine anche la più privata, che passa naturalmente per i social network, ma anche per email e What-sapp. Un circolante non tanto “sentimentale” quanto scherzoso e narcisistico, come tanti dei contenuti che vengono immessi nella rete.
Se dal tempo di Daguerre in poi la retorica dominante della fotografia è stata espressa dalla parola stessa che definiva l’occhio della macchina, l’obiettivo, la depersonalizzazione dello sguardo imposta dall’intervento della macchina (e l’“obiettività” attribuita al mezzo è alla base del valore di prova largamente riconosciuto alle sue immagini), con l’avvento del selfie si è venuta imponendo una simmetrica e opposta retorica della soggettività: la fotografia non come documento di realtà “catturate” dalla macchina dal punto di vista del suo proprietario, ma come prova della realtà del fotografo dal punto di vista della macchina. Questo ci aiuta a capire l’ossessione del “farsi un selfie” con i personaggi famosi, che ha preso il posto di una passione rimasta viva per tutto il corso del Novecento, quella dell’autografo. Se prima a prevalere erano la passione collezionistica del possesso e quella feticistica della traccia, ora siamo alla celebrazione della compresenza, con il display come testimone e la rete come circuito senza il quale quella celebrazione sarebbe priva del suo rito.
Ma c’è un’altra forma di rappresentazione tecnica e fotografica della soggettività che sta emergendo. Se la GoPro, nata nel 2002 da un’azienda di piccole dimensioni e pensata soprattutto per l’ambito di nicchia degli sport “di vertigine” moderni a cominciare dal surf, è diventata in pochi anni un nome noto in tutto il mondo e ha dato vita a un modello nuovo di apparecchio, quello delle cosiddette “action cam”, questo non è dovuto soltanto al fatto che si tratta di un piccolo prodigio di tecnologia a un prezzo accessibilissimo, ma anche al fatto che porta con sé, letteralmente, il mondo in soggettiva. Dove il soggetto-autore a differenza del selfie non è visibile, ma al centro c’è l’esperienza irripetibile fissata da un terzo occhio, da una sorta di telecamera di sorveglianza dove siamo noi la telecamera. Non solo il prolungamento del nostro sguardo, ma di tutto il nostro corpo.
Il selfie e l’action cam: sono due protesi tecnologiche dell’io apparentemente molto diverse, una aperta a tutti gli apparecchi capaci di fotografare, a cominciare dal telefonino, l’altra riservata (per ora) a specifici apparecchi; una allude al narcisismo elementare, infantile, del guardare la propria immagine, l’altra a quello più adolescenziale del mostrare la propria prestazione; una porta con sé, proprio per attenuare il narcisismo, un elemento quasi ineliminabile di giocosità, l’altra può prendersi terribilmente sul serio fino a correre veri rischi per documentare una prodezza. Ma come spesso accade c’è a unirle qualcosa che classicamente si chiamerebbe “lo spirito del tempo”: che sta rovesciando, magari inconsapevolmente, i modelli su cui la fotografia si era basata per più di un secolo e mezzo.


“Il Sole 24 Ore”, 5 giugno 2016

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