«Ho amato alla
follia - disse - ma per me è l'unico modo di amare»
PARIGI
— Adieu, tristesse. Adieu, Françoise.
Una pietra tombale e un requiem per il mito letterario che fece
fremere la gioventù degli Anni Sessanta. Chi non si riconobbe nei
suoi personaggi? Françoise Sagan è morta ieri nella più squallida
indigenza, magra come un chiodo, da tempo incapace di scambiare non
solo delle idee, ma qualche parola. Se n’è andata per un'embolia
polmonare. È accaduto all’ospedale di Honfleur, in Normandia,
davanti al mare tempestoso della Manica.
Il
mondo della letteratura l’aveva ormai abbandonata, povera drogata e
povera alcolizzata, povera di tutto. Del resto i giorni incantati,
intessuti d’innocenza e perversione che raccontò nel 1954 in quel
suo primo romanzo intitolato «Bonjour tristesse»
erano ormai un ricordo svanito dalla sua povera memoria malata.
Ricordava vagamente d’essere stata una scrittrice. I vicini della
clinica di Honfleur la chiamavano la «povera vecchia». Aveva
sessantanove anni, ma ne dimostrava quindici di più. Una «foglia
morta». Anche Juliette Gréco, la sua grande amica, non andava più
a trovarla: «Non riconosce più nessuno. I suoi occhi sembrano
pozzanghere spente». Era stata una scrittrice prolifica. Quasi
cinquanta opere, tra romanzi, sceneggiature, novelle, drammi
teatrali. Avrebbe dovuto finire i suoi giorni da ricca signora delle
lettere, invece il fisco e la giustizia, per un losco affare di
petroli in cui lei s’era atteggiata a mediatrice, l’avevano
perseguita fin dal 1990 con ferocia, come solo sa fare la stato
francese.
Un
tempo ci fu dunque «Bonjour tristesse».
Era il romanzo scritto da una ragazzina viziata, Françoise Quoirez,
nome d’arte Sagan, esile e insignificante, ma spudorata al punto
che la soprannominarono il giunco infocato della letteratura
francese. Era infarcita di Camus, Sartre e Rimbaud e narrò la
scabrosa storia di Cécile e di suo padre Raymond, ambientata nella
Costa Azzurra degli Anni Cinquanta. Il libro ebbe un successo
folgorante: un milione di copie tradotte in venti lingue. Best
seller. Robert Julliard, editore, aveva letto in una notte il
manoscritto. Le parole «Bonjour tristesse»
erano del poeta Eluard e si addicevano alla vicenda. I toni erano
piatti e le scene scorrevano come fotogrammi. Quel che ci voleva
nella letteratura francese di quei giorni, dominata e angosciata da
Sartre, Gide, Mauriac e Camus. Julliard aveva chiesto all’aspirante
scrittrice: «È autobiografico?». «No», rispose lei. «Sono
figlia di una famiglia piccolo borghese che ha salvato alcuni ebrei
durante la guerra, ma che è rimasta imprigionata nella sua
condizione sociale. A casa mia, a Parigi, c’è un gran puzza di
cavolo bollito». «Quanto vuoi?», chiese Julliard. «Duecentomila
franchi». «Te ne darò il doppio», disse l’editore.
Il
nome Sagan l’aveva scelto nella Ricerca
di Marcel Proust dove infatti c’è un principe di Sagan. Il regista
americano Otto Preminger, nel 1957, fece anche un film con David
Niven e Jean Seberg. Furono anni di furia, dall’abisso dei peccati
alle vette dei riconoscimenti culturali. Françoise era alla moda, i
francesi l’ammiravano per la sua disinvoltura anche quando
apprendevano dai settimanali che lei e il marito, l’artista
americano Robert Westhoff, facevano orge e si scambiavano le amanti e
gli amanti. Seguì, nel 1956, il successo, di «Un certain
sourire», poi «Aimez-vous
Brahms...» nel 1959.
Françoise
scriveva di notte, a letto o in una vasca da bagno, consumo medio di
whisky: un litro al giorno, se non di più. Passarono tanti anni di
alcol, droga e maldicenza, la Sagan dei tempi incantati non esisteva
più. La realtà era quella d'una candela che si stava spegnendo in
una una foresta di guai. L’ultimo suo vero successo risaliva ormai
al 1972, in italiano era intitolato «Lividi sull’anima».
Il
resto della produzione letteraria era un succedersi di tentativi
(quasi pietosi) di risollevarsi dall’abiezione. Prima ci fu il
processo per droga, perché Françoise frequentava le «tout
Paris» della gente bene ma
marcata dalla cocaina. Mitterrand, che la scrittrice aveva conosciuto
nel 1979, due anni prima del trionfo della sinistra, l’andava a
trovare una volta alla settimana e la supplicava di astenersi dalla
droga. Poi s’era fatto avanti il fisco e al processo che le aveva
intentato lo Stato francese, lei non aveva avuto il coraggio di
presentarsi. Tutta la Parigi perfida e spietata era corsa ad
aspettarla, nei bui e squallidi corridoi del Palais de Justice,
pronta a sghignazzare del «relitto Sagan». Era come inseguita da
una maledizione, forse lanciata dagli invidiosi del suo primo
successo letterario, quel «Bonjour tristesse»
poi tanto odiato dalla stessa scrittrice.
A
forza di vederla con Mitterrand, un agente dell’Elf le chiese un
giorno d’intervenire perché un ministro dell’Uzbekistan fosse
ricevuto all’Eliseo. Era il 1993. Mitterrand si piegò al desiderio
della sua amica che, per il suo intervento, ricevette dall’ Elf
quattro milioni di franchi. Secondo il fisco, lei li nascose
volutamente sotto il materasso. Secondo la Sagan, fu una dimenticanza
nella dichiarazione dei redditi. Dimenticanza che in Francia prevede
qualche anno di galera. Nei suoi giorni di dolore, la Sagan si
chiedeva con un filo di voce: «Perché la Francia mi odia?». A
sessantasei anni era impresentabile: le stampelle per una malattia
delle ossa, un volto corroso dal tabacco e da notti insonni e
sofferenti. Françoise era come un’ombra che sfuggiva la luce. Non
possedeva più nulla. E persino i fotografi le davano la caccia per
mostrarla nella sua estrema povertà fisica e mentale. È dovuta
morire perché una certa Francia smettesse di odiarla.
Corriere
della Sera, 25 settembre 2004
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