“Cari genitori non
pensate per favore che io sia incosciente. Grazie a voi sono
cresciuta istruita, intelligente e soprattutto forte. E questa forza
in questo momento me la sento tutta. È giusto e sacrosanto quello
che sto facendo, la storia mi da ragione come l’ha data alla
Resistenza del ’45. Ma voi direte, sono questi i mezzi da usare?
Credetemi, non ce ne sono altri.”
(Lettera ai genitori,
1972)
Cosa
spinge una ragazza cattolica, che resterà sempre legatissima alla
sua famiglia, a scegliere la clandestinità e la lotta armata?
Margherita è l’ultima di tre figlie: il padre gestisce a Trento
la “Casa del sapone”, la madre lavora in una farmacia.
La
famiglia è molto unita, in settimana si lavora e si va a scuola, la
domenica a messa perché la religione è molto sentita da tutti.
D’estate la figlia grande, Milena, va agli scout, mentre Lucia e
Margherita in colonia. Margherita ha come guida spirituale un prete
gesuita, nei pomeriggi tiene compagnia agli anziani negli ospizi di
Trento. È sportiva: scia, gioca a tennis, le piace camminare in
montagna. Alle superiori si iscrive a ragioneria e si diploma con la
media del 7. Durante la scuola comincia a studiare chitarra classica
e in breve diventa la terza chitarrista più brava d’Italia,
suonando anche all’estero: potrebbe essere quella la strada da
intraprendere. Invece no, si iscrive alla facoltà di sociologia a
Trento.
In
Italia non esiste nulla di simile. Tra i professori ci sono Beniamino
Andreatta e Romano Prodi.
Tra gli studenti Renato Curcio e Mauro
Rostagno, che dividono una casa in riva al fiume Adige. Questo
rifugio diviene ben presto un punto di riferimento per gli studenti.
Margherita, da tutti definita seria, tranquilla e riservata, è una
delle poche ragazze che frequenta la casa sul fiume, e si lega subito
a Curcio.
È il 1966 e gli studenti di Trento decidono di occupare
l’università: è il primo caso in Italia.
Anche Margherita
partecipa a questa protesta ma non rimane a dormire in facoltà,
perché i genitori non glielo consentono, deve rientrare a casa alle
19,00…
L’anno
successivo comincia a collaborare al giornale «Lavoro Politico» che
nel 1968 diventa un periodico di riferimento per la sinistra.
Alla
Facoltà di Sociologia arriva come rettore Francesco Alberoni. A lui
Margherita propone la tesi: uno studio sulla Qualificazione
della forza lavoro nelle fasi dello sviluppo capitalistico.
Si laurea il 29 luglio del 1969 con 110 e lode. Dopo la proclamazione
del voto saluterà tutti con il pugno chiuso: nessuno – ricorderà
Alberoni – prima di quel momento, aveva avuto questo ardire.
Il
primo agosto Margherita e Renato si sposano, contro il parere del
padre di lei, che non reputa Curcio capace di prendersi cura della
figlia. Il matrimonio verrà celebrato in chiesa, nonostante quello
che entrambi pensano del “matrimonio borghese”, ma Margherita
vuole evitare la rottura con la sua famiglia.
Dopo un breve
viaggio di nozze i coniugi si trasferiscono a Milano, perché Mara ha
vinto una borsa di studio di due anni per un corso di sociologia.
Studia la vita di fabbrica, mentre l’impegno politico diventa
sempre più pressante. Siamo in pieno “autunno caldo”: scaduto il
contratto nazionale dei metalmeccanici, le iniziative di protesta
sono continue.
Margherita e Renato frequentano il CUB (Comitato
Unitario di Base) della Pirelli e i Gruppi di Studio che si
costituiscono nelle grandi fabbriche: SIT Siemens, Alfa Romeo,
Marelli; conoscono Mario Moretti e Alberto Franceschini.
Il
12 dicembre del 1969 accade qualcosa che cambierà per sempre il
destino di questa generazione e la storia del paese. In piazza
Fontana scoppia una bomba che uccide diciassette persone e ne ferisce
novanta e che disorienta completamente l’opinione pubblica con i
depistaggi, la morte di Pino Pinelli, l’arresto di Pietro Valpreda.
Ha inizio la strategia della tensione.
Nel settembre dello stesso
anno era nato il CPM (Collettivo Politico Metropolitano) costituito
da militanti della sinistra extra-parlamentare. Dal convegno CPM di
Pecorile (settembre 1970) nasce il primo nucleo che darà vita alle
Brigate Rosse. L’incontro viene organizzato da Franceschini, il
quale di Margherita dirà: “L’impressione che ne ebbi fu di
grande fiducia. Mara, che pur non appariva e non ci teneva a farlo,
non era considerata da nessuno una figura secondaria. Anzi, era poi
fondamentale nelle scelte concrete. Così la vedevo io, così la
vedevano tutti.”
In
questi convegni si parlerà per la prima volta di lotta armata e di
clandestinità. Curcio nel suo Progetto Memoria scriverà: “Che lei
abbia voluto l’organizzazione armata quanto me, se non più di me,
è un fatto.”
Margherita
scrive lunghe lettere alle sorelle e alla madre, alla quale
racconterà di aver imparato molto più in pochi mesi a Milano che in
cinque anni di università. Scrive di come la sua coscienza stia
cambiando, di come Milano le appaia
“Come un mostro
feroce che divora tutto ciò che di naturale, di umano e di
essenziale c’è nella vita. Questa società (…) ha estremo
bisogno di essere trasformata da un profondo processo rivoluzionario.
Tutto ciò che è possibile fare per combattere questo sistema è
dovere farlo, questo io credo sia il senso della nostra vita.”
Il
gruppo decide di “passare all’azione” ma ci vuole una sigla. In
memoria delle brigate partigiane decideranno di usare la parola
“brigata” e Margherita proporrà “rossa”. Come simbolo verrà
scelta la stella a cinque punte iscritta in un cerchio, la stessa
utilizzata dai Tupamaros uruguaiani. Margherita sceglie il suo nome
di battaglia: Mara.
Cominciano
le prime azioni. Franceschini e la Cagol bruciano l’auto del capo
del personale della SIT-Siemens, colpevole di aver fatto fotografare
i partecipanti ai picchetti e di averli poi licenziati
Curcio,
il teorico del gruppo, scrive il volantino di rivendicazione. I
coniugi sono già conosciuti dalla polizia che va a perquisire varie
volte la loro casa.
Franceschini
decide di passare alla clandestinità affittando un appartamento
sotto falso nome a Milano, in zona Ticinese, dove ospiterà la Cagol
e Curcio.
Nei
vari covi delle BR verranno ritrovate le norme di comportamento
stilate dai tre in quel periodo. Tra le altre:
– la
casa verrà frequentata solo da chi vi abita e conosciuta solo da un
altro compagno;
– dovrà
essere proletaria, modesta, pulita, ordinata e completamente arredata
del necessario;
– le
bollette vanno pagate subito;
– ogni
compagno deve essere decorosamente vestito e in ordine nella persona.
Occorre
procurarsi armi, meglio se fornite da ex Partigiani delusi dal Pci.
Dirà Curcio: “consegnarci la pistola con cui avevano combattuto
contro i fascisti, trent’anni prima, era come passarci un
testimone”.
Nel
1971 Mara rimane incinta, ma perderà il bambino al sesto mese, dopo
una caduta dal motorino. Nel 1972 il passaggio definitivo alla
clandestinità e alla lotta armata li farà rinunciare per sempre
all’idea di un figlio. In seguito all’occupazione delle case
popolari di Quarto Oggiaro, operazione della quale era l’anima,
Mara viene arresta per la prima e unica volta: rimane a San Vittore
per cinque giorni. Coi genitori minimizzerà.
Cominciano
le rapine, definiti “espropri proletari”, i “sequestri lampo”:
nel marzo 1972 Idalgo Macchiarini, dirigente della SIT-Siemens, verrà
fotografato con la pistola alla tempia e un cartello al collo. Il
cartello recitava “Brigate rosse. Mordi e fuggi. Niente resterà
impunito! Colpiscine 1 per educarne 100! Tutto il potere al popolo
armato!”.
Anche
in clandestinità Mara non riuscirà a tagliare definitivamente i
ponti con la famiglia; lacerata dai sensi di colpa, nelle lunghe
lettere si inventerà una vita parallela.
La soffiata di un
informatore (Marco Pisetta) fa scoprire covi e arrestare una trentina
di brigatisti; la Cagol e Curcio si rifugiano in un casale nel
Piacentino e capiscono che troppe cose non hanno funzionato, e che
occorre riorganizzarsi profondamente.
A Milano non possono più
tornare, pertanto si trasferiscono a Torino formando una cosiddetta
“colonna”.
I genitori di Mara li scongiurano di lasciar
perdere tutto, ma verrà loro risposto che la scelta è fatta ed è
irreversibile.
Le
BR alzano il tiro al “cuore dello Stato”.
Il bersaglio è il
giudice Mario Sossi, e il “piano” richiederà un anno e mezzo.
Sossi viene sequestrato nell’aprile 1974 da una ventina di
brigatisti a Genova, compresi Cagol e Franceschini. La prigionia di
Sossi durerà 35 giorni e i giornali quasi non parleranno d’altro
fino alla sua liberazione.
L’8 settembre del 1974 Renato Curcio
e Alberto Franceschini vengono arrestati a Pinerolo, denunciati da un
infiltrato – Silvano Girotto, detto Frate Mitra.
Vengono presi
altri brigatisti, la Cagol rimane sola a portare avanti la colonna
torinese. Si preoccupa di quello che i suoi genitori possono pensare
adesso che Renato è in carcere. Scrive loro la lettera citata in
apertura. Ma il gruppo è in difficoltà, perché molti sono in
carcere. Mara pensa in grande e propone di liberare i prigionieri, a
cominciare dal carcere di Casale Monferrato, dove Curcio è
rinchiuso, che non sembra essere così inespugnabile. Moretti è
perplesso e come lui altri. Ma dopo tre mesi di discussioni
Margherita li convince. Farà arrivare a Curcio un biglietto: “il
pacco con le maglie di ricambio arriverà domani”.
Il 18 febbraio 1975 Margherita, con una parrucca bionda e altri cinque uomini arriva al carcere di Casale. È giorno di visite, suona il campanello con un pacco in mano. Appena le viene aperto punta un mitra verso il piantone.
Il 18 febbraio 1975 Margherita, con una parrucca bionda e altri cinque uomini arriva al carcere di Casale. È giorno di visite, suona il campanello con un pacco in mano. Appena le viene aperto punta un mitra verso il piantone.
Entra
nel carcere. “Renato dove sei?”
Curcio
è al piano superiore, scende, verrà liberato senza sparare un
colpo. Il «Corriere della Sera» commenterà: “Un’umiliazione
dello Stato” e il generale Dalla Chiesa inveirà contro chi ha
lasciato il capo delle Brigate Rosse in un carcere “di cartapesta”.
Mara rimane a capo della colonna di Torino, Moretti a Genova e Curcio
a Milano. Dopo una perquisizione verrà trovata in un covo di Torino
la chitarra della Cagol dalla quale fino a quel momento non si era
mai separata: ci ha rimesso il suo adorato strumento ma lei l’ha
scampata. Le Brigate Rosse ora sono a corto di denaro e decidono di
finanziarsi con un rapimento. Mara propone il nome di Vittorio
Vallarino Gancia, industriale dello spumante: chiederanno più di un
miliardo di lire. Nei sequestri le BR si sono date delle regole: no
donne e bambini e l’ostaggio non si tocca, in caso di problemi lo
si libera.
Il
sequestro è deciso per il 4 giugno 1975, Gancia verrà portato in
una cascina vicino a Canelli. Tre anni prima la Cagol aveva comprato
per sei milioni e mezzo la cascina Spiotta che pensava
strategicamente perfetta come covo, a un’ora di macchina da Milano,
Torino e Genova. Aveva dato il nome falso di Marta Caruso e
raccontato che si trovava in convalescenza. Lavorava nei campi e si
faceva aiutare ad arare dai vicini: durante gli interrogatori
descriveranno Margherita come bella, gentile e disponibile. “Con
noi è sempre stata molto affabile e infatti da noi era molto
stimata”. Ma la mattina del rapimento qualcosa va storto. La
macchina che rapirà Gancia e lo condurrà alla cascina Spiotta (dove
ad aspettarlo ci sono Mara e un altro brigatista mai identificato) al
ritorno ha un incidente. Alla guida un giovane militante alle prime
armi che, fermato dai carabinieri si rifiuta di fornire i documenti e
si dichiara “prigioniero politico”. Mara sta riposando, ha fatto
il turno di guardia di notte, il suo compagno, che avrebbe dovuto
darle il cambio, si è appisolato e non vede avvicinarsi i
carabinieri.
In
tre bussano alla porta, l’uomo apre e inizia uno scontro a fuoco.
La Cagol e il compagno tentano di scappare in auto ma c’è un
quarto carabiniere, il quale non appena vede la macchina dei
fuggiaschi spara. Mara scende, ha una ferita al braccio e una alla
schiena, non è armata e grida “Basta, basta. Non sparate. Siamo
feriti.” Il compagno scappa per i campi. Mara invece morirà con un
colpo sparatole sotto l’ascella che le trapasserà il torace. Un
colpo sparato per uccidere, affermerà qualcuno. Il carabiniere dirà
che l’uomo si è fatto scudo con la compagna, ma il brigatista in
un lungo resoconto scritto a Curcio, ritrovato poi in un covo, in
merito alla dinamica dei fatti riferirà un’altra versione: mentre
scappa si accorge che Mara non è con lui, si volta e la vede seduta
nel prato con le braccia alzate a discutere con il carabiniere. Si
allontana non potendo più fare nulla. Poi sente uno, forse due colpi
secchi. Gancia intanto verrà liberato e vent’anni dopo in
un’intervista rilasciata all’ «Espresso» dal titolo Grazie
a Mara che mi salvò la vita racconterà
che il Generale Dalla Chiesa gli fece leggere il rapporto
particolareggiato che il compagno di Mara aveva scritto a Curcio. Le
aveva gridato “Ammazziamo quel bastardo e andiamo via” ma lei gli
aveva risposto “Lascialo che non c’entra niente”. “Capisce?
In piena battaglia Margherita Cagol descritta da tutti come una
sanguinaria, era stata lucidissima: mi ha salvato la vita e un minuto
dopo è morta. Questa cosa mi sta sul cuore.”
Il
riconoscimento del cadavere di Mara lo faranno le sorelle, ritrovando
anche la cicatrice sopra il labbro che si era fatta da bambina. Due
giorni dopo, il funerale a Trento. L’opinione pubblica la dipingerà
come la donna che per amore è stata disposta a tutto, perfino a
sparare, negandole quell’autonomia di pensiero e di iniziativa che
ha invece caratterizzato tutte le sue scelte. Un mazzo di rose rosse
verrà ritrovato davanti alla cascina Spiotta l’indomani della
sparatoria e così il 5 giugno di ogni anno, per molti anni.
Da Enciclopedia delle Donne -
Voce pubblicata da Sabrina Castoldi e Laura Saccà. Progetto Intrecci
2016, Rozzano
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