Uno, che non è un
ragazzo e ogni giorno si combatte la vita, è venuto a parlarmi di
sue pene d’amore. È cosa tanto inconsueta, da meritare se ne
discorra, credo, senza ironia. La nostra cultura non dà luogo
all’amore infelice; dal secolo romantico ha accettato di occuparsi
della sofferenza sentimentale imposta dalla società, ma si distrae
dalla vista di chi ama non ricambiato. Eppure su quella situazione,
in altri tempi, si sono costruite letterature intere. Gli antichi
parlavano di follia. Noi facciamo quasi come loro. Diciamo che è
sindrome nevrotica, da narcisismo gravemente regressivo, da mancato
aggiustamento alla realtà. Le sofferenze di chi non è riamato,
abbiamo tendenza a giudicarle indice di immaturità. I ciechi hanno
fondate opinioni sugli orbi.
Non è un caso isolato.
Ci sono nodi di affetti, luoghi e formule storiche delle passioni e
della immaginazione, che stentiamo a ricostruire. Quelle pene d’amore
abitano il museo del passato in compagnia del desiderio del chiostro,
dell’idea di Arcadia, del patriottismo, che so, o della religione
delle lettere. Ma chi ne ride ignora che la storia non rifiuta mai
qualcosa per sempre e che l’unica memoria veramente necessaria è
quella che esalta il nuovo nell’atto in cui vi riconosce i
lineamenti dell’identico.
Intanto la «vecchia
storia» di cui parlava Heine, dove uno ama una, che ama un altro,
continua a «spezzare il cuore» alla gente; ma la gente non ne parla
perché si sa riprovata. I giovani (come sempre) dalla realtà
del cinismo borghese hanno assunto le parole del cinismo, le
recitano e fingono di credere che l’amore sia una invenzione
cristiano-umanistica, una trappola ideologica; onde, a chi ci casca,
ben gli stia. Eppure il delicato fossile che uno, giorni fa, è
venuto a porgermi, la situazione psicologica dell’amore non
ricambiato, testimonia oggi di qualcosa di essenziale:
«Nell’assurdità del rifiuto» (trent’anni fa scriveva Adorno)
l’innamorato respinto «comincia a rendersi conto della non verità
di ogni realizzazione puramente individuale». D’altronde, «chi
ama in più si mette» (in una società fondata sul rapporto di
scambio) «dalla parte del torto» e «degenererà in crudeltà
possessiva o fantasia autodistruttiva».
Chi, per il non-riamato,
parla solo di narcisismo vuole invero fargli accettare la legge della
realtà ossia la realtà della legge fondata sul valore di scambio.
Invece chi ama non solo vuol essere riamato ma, anche se non lo sa,
vuol essere amato sempre e da tutti e dunque amare tutti e sempre.
D’altronde, anche l’amore ricambiato e felice, se si accompagna
alla secessione dal mondo, alla cosiddetta solitudine in due, se non
osa rischiare il proprio piacere di fronte alla nemica «realtà» e
al suo «principio», si condanna al deperimento. Abbiamo tutti
sorriso, anni fa, degli amori che nascevano nelle occasioni
«contestatarie»; ma avevamo torto. Il rapporto amoroso, che chiede
il riconoscimento del sé più oscuro, e lo offre, tendeva a
misurarsi immediatamente sulla propria socializzazione; anche se
quella — per la sete di sacrificio e autonegazione che tormentava
quei giovani — finì col configurarsi, paradossalmente, come una
fuga dall’amore e dalla stessa identificazione di sé. (La
dialettica è come il sole, se la guardi direttamente ti acceca ma se
aspetti che passi viene notte.) Credevano di poter pervenire alla
padronanza totale di sé prevista nel comunismo. Non sapevano che,
nel comunismo, la padronanza di sé esiste negli altri
e che il «controllo sociale» non è quello di un partito. Sono
regrediti quasi sempre, senza saperlo, alla separazione fra volontà
«razionale» e corpo-macchina che era stata la resezione chirurgica
operata dall’illuminismo e dal sadismo borghesi, nel secolo XVIII.
In che senso «il
respinto diventa uomo» (Adorno) e l’amore «sempre sciocco,
ingannato, soverchiato» (Hólderlin) sia segno di una condizione non
solo individuale; e perché nella concessione, come nel rifiuto,
d’amore si celebrano la libertà e la grazia (ossia qualcosa che
non può essere stabilito mai in diritto e in accordo): ecco una
riflessione che potrebbe non essere inutile. Se i meccanismi
dell’amore accordato o rifiutato sono quelli medesimi di ogni
mancato riconoscimento o adempimento, allora bisogna onorare i
giovani che negli anni Sessanta anche in forme inautentiche e
disperate hanno cercato e osato socializzare nei loro gruppi i
rapporti interpersonali. Anche quei loro errori sono stati
infinitamente più ricchi della solitudine non voluta e della
infelicità improduttiva. Non appena avremo il coraggio di affrontare
sul serio il muro del rischio, anche dai modi di consumare felicità
e infelicità bisognerà ripartire.
Chi era venuto a parlarmi
era un operaio di fabbrica, immigrato dal sud, militante sindacale.
«Dico che se vogliamo la felicità degli altri, dobbiamo poter
volere anche la nostra», mi spiegava, dalla sua non speranza. Si
poteva intendere che non chiedeva per sé altro che sostegno ad una
identità vacillante e in pericolo: ma non fa questo anche la lotta
operaia? Che altro è quel che chiamiamo solidarietà e unità? Lotta
per un riconoscimento di tutti entro cui sia — non prima o altrove
— il riconoscimento di lui, di me, di te.
Per tutta la vita, ora
qua ora là, ho incontrato persone che questo avevano inteso: il
riconoscimento non può mai avvenire direttamente, non è mai nato
dalla volontà, la stretta anche più concorde di amanti beati può
rilevarsi tormentosa e mortale se non ha l’arte di «produrre
qualcosa con le capacità dell’altro» (Brecht); se non fa
accrescere nell’altro (negli altri) capacità di svolgimento, di
azione e futuro; contro un margine costante d’ombra e dolore, e
guardandolo fisso.
“Corriere della sera”,
14 aprile 1976; poi in Insistenze,
Garzanti, 1985
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