Raccontarsi: la più alta
forma di filosofia. Farlo attraverso gli altri, passando da
un’autobiografia a una “autoeterografia”, è concettualmente
ancora più interessante perché significa rendere l’altro da sé
una componente essenziale della costruzione della propria
individualità. Giorgio Agamben, giunto a un punto cruciale di
bilancio della sua opera, nel suo Autoritratto nello studio
(nottetempo 2017),
completa una trilogia iniziata due anni fa con un libro su Pulcinella
e uno su Majorana (Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi,
nottetempo 2015 e Che cos’è reale? La scomparsa di Majorana,
Neri Pozza 2016).
La sua immagine di
filosofia, adesso piegata completamente sulla forma di vita e sulle
pratiche, si riarticola intorno a tre immagini: scomparire, superare
i limiti del linguaggio, raccontarsi.
In questo libro,
apparentemente intimo, e in cui c’è spazio per le fotografie e i
ricordi di una vita intrecciata con quelle di Elsa Morante o Italo
Calvino, di Martin Heidegger e di Giulio Einaudi, si cela in realtà
un più universale senso di una vita pensata in cui troviamo
spiegazioni per alcuni gesti che hanno reso Agamben leggendario e
inspiegabile ai filosofi. Il ritiro dall’insegnamento
universitario, il licenziamento dalle istituzioni americane,
l’ostilità verso le conferenze, l’assenza da ogni possibile bega
accademica, il disinteresse per i media, le televisioni, i social.
Un essere fuoritempo,
dentro e fuori le cose come il “suo” Pulcinella, che Agamben
giustifica come la capacità filosofica per definizione: per capire
la regola, e seguirla, devi necessariamente essere al di fuori di
essa.
Questo Autoritratto,
così concentrato sugli oggetti delle scrivanie veneziane o romane,
ma anche sugli scorci di Parigi e della Germania heideggeriana e “di
formazione”, sembra raccontare anche del valore delle cose,
dell’accumulo, o di quello che Jacques Derrida avrebbe chiamato
“mal d’archivio”.
L’ossessione per i
libri, per le foto significanti solo per chi ne conosce già il
senso, sono tutti elementi materiali di una tesi che Agamben recupera
da Plutarco, contro ogni spirito del tempo possibile: «I più
credono che la filosofia sia soltanto quella che si fa parlando
seduti su una cattedra o tenendo lezioni su un libro e di quella
filosofia che viene continuamente fatta con le azioni o con le opere
e che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni ignorano anche
l’esistenza». Mentre si diffonde sempre più l’idea di una
filosofia come qualsiasi professione Agamben, in un libro che sa
anche di congedo, ricorda a tutti l’impossibilità stessa di un tal
gesto: la filosofia è una postura, un modo d’espressione, e non un
sapere codificato.
Mentre cavalca una vita
intera Agamben si concede il vezzo dei nomi propri senza i cognomi
(Elsa, Italo, Patrizia) e pare suggerire, con aneddoti apparentemente
estemporanei e ridicoli, la pratica della tesi con cui già aveva
analizzato le maschere napoletane: il senso della vita, ovvero i
limiti del linguaggio, non sono un’esperienza mistica ma
tragicomica. È con allegria e pianto che andiamo oltre l’espressione
e se proprio dovremo morire, come diceva Deleuze, almeno lo faremo
ridendo.
Pagina 99, ottobre 2017
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