Divano in stile Luigi XV |
Occidente, Nord e Sud
a pezzi, troni in
briciole,
regni in bilico. Fuggi
nel puro
Oriente, assaggia
l’aria dei
Patriarchi!
Fra canti, amore e
vini
ritornerai ragazzo
nella fonte di Chiser.
Laggiù, nella
purezza,
nel giusto, io voglio
immergermi
negli abissi
all’origine
della specie degli
uomini...
Era il 1819 e Goethe era
ormai anziano; anziano in un modo straordinario però. Inseguiva
l’oriente da tempo, nella letteratura religiosa come nella poesia
persiana, ma gli riuscì di evitare l’orientalismo. Cosa non facile
per quei tempi. «Orientaleggiare lo trovo assai pericoloso» scrisse
in una letera. Con grandissima eleganza non si lasciò sedurre dal
facile fascino di esotismi erotici o di colori e profumi stravaganti.
Il suo oriente divenne una raccolta di poesie che testimoniaiva
eccezionale volontà e capacità di rinnovamento. In quei versi
attinse alle più varie esperienze di vita e di cultura. C’era
un’idea grandiosa in tutto questo, l’idea di «riunificare»,
come ha fatto Dio all’inizio dei tempi, «tutte le cose separate da
sempre». Costringere, disse lui, a rispondersi la vita e la lingua,
a rimare gli opposti, a trasparire il buio nella luce e la luce nel
buio, a echeggiare l’uno dentro l’altro fenomeni estranei e
nemici, a ricomporsi il mondo frantumato. Chiamò tutte questo
Westöstlicher Divan, Divano occidentale orientale,
utilizzando un termine che gli era ormai caro, perché indicava la
raccolta poetica completa, il canzoniere, dei poeti arabi e persiani.
Quell’idea di riunificazione, inseguita dal poeta tedesco,
riecheggiava in effetti anche nel titolo, nella parola stessa. Perché
il divano, a suo modo, è proprio ciò che raduna: poesie, uomini e
persino decisioni politiche. A patto di intendersi, naturalmente.
I linguisti ne hanno
discusso parecchio, ma con ogni probabilità la parola risuonò
originariamente in persiano, divàn, col significato di lista,
inventario o ruolo.Con l’avvento dell’islam, la parola passò
subito in arabo: diwan (ﺩﻳﻮﺍﻥ),
modificando solo leggermente la pronuncia dato che l’arabo non
possiede la v e spesso tende a sostituirla con la u. Probabilmente fu
già sotto il califfo ‘Umar nel 641, che la parola trovò il suo
primo significato politico, definendosi come diwan al-jund. Si
trattava di un elenco comprendente i nomadi arabi che avevano
partecipato alle prime conquiste (jund indicava l’esercito).
Il califfo aveva incaricato tre esperti per stabilire la loro esatta
genealogia, in che misura fossero legati alla famiglia del Profeta, e
dunque a quanto ammontasse ciò che spettava loro per i servizi resi
in guerra.
Ma la principale
preoccupazione di ogni stato che si rispetti è soprattutto
riscuotere le tasse; quindi non stupisce che di lì a poco il più
importante elenco, il più importante diwan, diventasse
quello. A quel punto la parola indicava già l’organizzazione
burocratica, il gruppo di persone incaricato di gestire, in questo
caso, la riscossione. Ci volle poco perché, dalla metà dell’VIII
secolo, la dinastia degli Abbasidi perfezionasse ulteriormente questa
istituzione. Di diwan i nuovi califfi ne svilupparono
parecchi; o meglio, con lo stesso termine si indicarono diverse
funzioni dell’apparato governativo. In primo luogo la cancelleria
vera e propria, una specie di segreteria di stato, poi le esattorie;
infine l’organo che si occupava dell’arruolamento e del pagamento
dell’esercito. In questo senso amministrativo la parola si legò da
subito con una delle più alte cariche dello stato, il wazìr
(da una radice che vuol dire «prendere su di sé», «farsi
carico»), titolo originariamente attribuito ai segretari e agli
scrivani della cerchia più intima del califfo. Poi, dal IX secolo un
wazìr divenne il capo effettivo dell’amministrazione
califfale e da quel momento la sua importanza aumentò a dismisura.
Il wazìr insomma divenne sempre più chiaramente il capo di
uno o più diwan.
Fu in questo periodo e
attraverso questo significato di ufficio amministrativo ed esattoria,
che la parola comincio a viaggiare al di là dei confini del mondo
islamico. Quando nell’XI secolo i normanni conquistarono la Sicilia
musulmana conservarono e adattarono gran parte delle abitudini e
delle istituzioni già consolidate sull’isola. Ruggero II costruì
un regno centralizzato, il cui cuore era Palermo e più precisamente
il Palazzo dei normanni: in esso avevano sede la cancelleria, i
comandi militari e un vero ministero, che ne 1133 fu affidato
all’ammiraglio (dall’arabo al-amìr, «emiro», cioè
«governatore») Giorgio di Antiochia. Tale struttura amministrativa
era divisa in più uffici fiscali e politici. Il più importante, la
dohana, prendeva ovviamente il nome dall’arabo diwan, era
gestito da un consiglio di funzionari normanni e arabi e custodiva i
registri dove erano riportati, in greco e in arabo, i confini dei
feudi, i nomi dei contadini e i redditi delle tasse. La nostra
dogana, è abbastanza evidente, viene da lì.
Raccogliere dati, stilare
elenchi. La parola diwan fini presto, per analogia, per
indicare altri tipi di raccolte. Soprattutto un tipo: le raccolte
poetiche.
I filologi arabi di epoca
abbaside cominciarono a raccogliere la poesia preislamica
sopravvissuta attraverso tradizioni orali E chiamarono queste
raccolte diwan. Non poteva essere diversamente: in fondo la
poesia era e avrebbe continuato a essere l’arte più amata del
mondo islamico. Ancora di più, la poesia è sempre stata considerata
il diwan al-arab, il registro delle tradizioni degli arabi,
una risorsa in tempi di dolore e di felicità, un’espressione degli
ideali culturali e delle più elevate aspirazioni del popolo arabo.
Una cosa pubblica insomma; anche una cosa politica in un certo senso:
perché la poesia legittima il potere, stigmatizza i tiranni, offre
senso e identità e contribuisce a condividere valori sociali.
Uno dei modi preferiti
per ordinare i poemi raccolti era l’ordine alfabetico basato sulle
rime finali. Un altro modo di identificazione, invece, considerava
l’inizio del poema. Un esempio tra i più famosi è la muàllaqa,
una delle poesie preislamiche, di Imru' I-Qays, una delle poesie che
tutti i bambini arabi hanno incontrato a scuola e che comincia col
famoso incipit: «Fermatevi entrambi, e piangiamo» (qifà nabki).
Quei primi secoli della storia di islam hanno prodotto alcuni diwan,
di poeti a dir poco classici e celebrati.
Il poeta maledetto Abù
Nuwàs (m. 815), amante del vino e (stando almeno ai racconti delle
Mille e una notte che lo vedono protagonista) compagno di
avventure notturne del califfo Hàrùn al-Rashid. Oppure il poeta per
eccellenza, il più celebrato, al-Mutanabbi (m. 965).
Lo stesso avvenne,
ovviamente nel mondo islamico persiano, a cominciare dal grande
Shamsoddin Mohammad, detto Hàfez (m. 1390), il cui divàn (da
scriversi secondo la pronuncia persiana questa volta) secoli dopo
avrebbe ispirato così profondamente Goethe:
Vieni, Coppiere! E
quel vino che l’estasi porta,
aumenta nobiltà e
perfezione ci dona
donami, che follia
molta m’ha preso d’amore
e d’ambo le cose
nulla ho avuto di buono.
Vieni, Coppiere! E
quel vino che alla coppa di Giam
dona l’ardir di
parlare di visioni nel Nulla
donami, sì che io
divengo in grazia alla Coppa
Come Giamscid accorto
di tutti i segreti del mondo.
Vieni, Coppiere! E
quella alchimia conquistatrice,
che sa combinare gli
anni di Noè coi tesori di Core,
donami, a che ti
s'apra ancora sul volto
la porta del successo
e della lunga vita.
A metà del XV secolo,
l’oriente mediterraneo divenne in buona parte turco: gli eserciti
della dinastia ottomana dilagarono dai Balcani sino all’Africa
settentrionale. Governo e apparati amministrativi, pur con molte
novità, si forgiarono sulle tradizioni politiche islamiche
precedenti, e così pure il divano, ovviamente.
I pochi fortunati ammessi
all’interno del Topkapi l’avrebbero fisicamente visto, il divan
(che in turco suonava esattamente come in persiano). Il Topkapi, la
residenza del sultano collocata sulla punta estrema dell’antica
Costantinopoli, assomigliava più a un accampamento che a un palazzo.
I padiglioni tutti
diversi, i suoi maestosi giardini, le sue stanze sontuose: era come
se quegli antichi nomadi delle steppe avessero voluto fissare nella
pietra e nella terra la loro idea di bellezza e di felicità. Ma il
Topkapi era anche una cittadella che doveva riprodurre nella sua
topografia il senso stesso del potere: ogni porta dava accesso a un
cortile più privato, più vicino, fisicamente e idealmente, al
sultano.
La sala del divan
si trovava nel secondo cortile del palazzo, sul lato sinistro
rispetto all’entrata. Fu costruito a metà del XVI secolo,
all’epoca di Solimano il Magnifico, e costituiva la sede del
governo. Dal punto di vista teorico, per la parola non era cambiato
molto: col termine divan gli ottomani designavano il consiglio
formato dai principali responsabili dello stato. Normalmente il
sultano non vi partecipava, ma il controllo del divan da parte
sua rimaneva costante: l’edificio stesso era provvisto di una
finestrella, chiusa con una grata, al di là della quale il signore
poteva vedere e sentire di nascosto.
Il divan ottomano
si riuniva quattro mattine a settimana, da sabato al martedì, e
sostanzialmente funzionava come una corte di giustizia suprema, preso
la quale i sudditi o le comunità potevano presentare petizioni o
impugnare sentenze. Ma questa istituzione era anche un consiglio di
governo in cui si discutevano gli affari importanti. A presiederlo
era il gran vizir, assieme ad altri vizir, ai controllori
delle finanze, ai cosiddetti giudici dell’armata e altri dignitari.
Anche questo termine, vizir, modificava ben poco della sua
pronuncia e del suo significato rispetto all’arabo wazìr.
semplicemente vi era una moltiplicazione di ruoli. I vizir
rimanevano gli amministratori, e alla loro testa era posto un
gran vizir (vezir-i a‘zam) che rappresentava la seconda
figura dello stato dopo il sovrano e che gestiva l’amministrazione,
sovraintendendo all’applicazione della politica stabilita dal
sultano. Un potere enorme, insomma, ma che aveva i suoi correttivi.
Se la potenza e le ambizioni dei gran vizir diventavano eccessive, il
sultano estirpava la minaccia facendoli giustiziare. Capitò ad
esempio a Ibrahim Pascia, l’amico di gioventù e l’amato di
Solimano il Magnifico. Da gran vizir governò per quasi dieci anni
con sicurezza e grandi capacità... cose di cui amava vantarsi non
poco con gli emissari stranieri, a quanto pare: era il 5 marzo 1536,
quando di prima mattina, nella sua stanza, fu afferrato e
strangolato. E dire che dormiva a palazzo, proprio accanto alla
stanza del sultano.
Questo potere e questi
intrighi colpivano non poco gli europei di passaggio a
Costantinopoli. Fu con loro che queste parole giunsero nuovamente nei
territori cristiani, legandosi questa volta alle tante turcherie che
agitavano l’immaginario europeo. Raccontarono del Bascià (sic) che
ogni giorno dava una «audienza che si chiamava divan»; parlarono
del «serraglio che era il divano del sultano». Inoltre spiegarono
che questo luogo era chiamato divano, perché in un certo senso era
il divano per eccellenza, dato che tutti lì si sedevano. E qui
occorre una spiegazione. Perché le due cose, il consiglio e la
seduta, andavano assieme già da un pezzo tra i turchi. Nell’impero
ottomano, infatti, la parola divan
aveva trovato anche una sua dimensione più domestica e modesta. Le
case turche, quelle ricche almeno, erano per la maggior parte dotate
di una sala di ricevimento. Lungo le pareti di quella sala correva un
panchetto coperto da tappeti e cuscini; un panchetto che in turco si
chiamava sofa e da cui sarebbe giunto ovviamente il nostro
sofà. Il sofà rappresentava la parte sopraelevata della stanza e le
panche a esso accostate erano appunto il divan, ci si sedeva a
gambe incrociate dopo essersi tolti le scarpe.
Il resto della storia è
noto. Ci volle poco perché questi usi esotici entrassero in Europa.
Ottomana, sofà e divano divennero per un po’ quasi sinonimi. Più
precisamente la prima grande diffusione avvenne nella Francia di
Luigi XV, in pieno XVIII secolo, quando il termine divan prese
a indicare una lunga panchetta con fiancate o braccioli. Era epoca di
neoclassicismo e quella seduta aveva il pregio di richiamare molto
l’oriente e parecchio anche il triclinio romano.
Un quadro famoso di
Wilhelm Tischbein ritrae Goethe assorto nella campagna romana (1787).
Una posa e un abbigliamento che a guardarli oggi appaiono forse un
po’ troppo stravaganti, ma che ai tempi evocavano il Grand Tour, la
riscoperta della classicità e le profonde riflessioni sul destino
delle opere umane. Goethe se ne sta assiso su alcune rovine, seduto
come fosse su un divano; una posa che cent’anni prima sarebbe stata
difficilmente pensabile. Lui era troppo giovane, ai tempi di quel
ritratto, per trarne ulteriori conseguenze, ma un po’ stupisce per
quante vie il destino possa legarci alla storia di una parola.
Da Storia di parole
arabe, Ponte alle Grazie-Salani,
Milano, 2016
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