Piero Bevilacqua insegna storia contemporanea all'Università di Roma e collabora da molto tempo al “manifesto” . Tra i suoi libri più recenti Elogio della radicalità (Laterza, 2012) e Il grande saccheggio. L'età del capitalismo distruttivo ( Laterza, 2011. Per l’autore la parola “radicale ”, usata nell’accezione di Marx e attualizzata ai tempi che corrono, significa affondare lo sguardo in profondità, nei meccanismi costitutivi dei processi materiali. Paolo Valentini lo ha intervistato nei giorni scorsi per “Pubblico”. Riprendo una parte dell’intervista. (S.L.L.)
Piero Bevilacqua |
Il binomio crescita e diminuzione dell’orario di lavoro è venuto meno. Prima, a inizio Ottocento, la vita del lavoratore veniva interamente sequestrata. Poi cominciano le regolamentazioni nelle fabbriche inglesi. Da allora è stato un susseguirsi di lotte per la riduzione dell’orario. Il conflitto operaio per la riduzione ha costretto il capitale all’innovazione tecnologica. Questo è stato il meccanismo conflittuale virtuoso che ha fatto del capitalismo una macchina progressista. Il capitalismo si è migliorato e ha dato vita a una società che trasformava la ricchezza prodotta in fabbrica, in servizi e incremento degli spazi democratici. Nel paese che è stato avanguardia di questo capitalismo si è tornati indietro. Qualcosa di grave è accaduto.
Vuol dire che il capitalismo non crea più migliori condizioni di vita ed è in una fase di regressione storica. Questo meccanismo si è esteso a tutta l’Europa. Cosa chiede il capitalismo in Europa?
Proprio l'allungamento dell'orario di lavoro e maggiore flessibilità. L’articolo 8 della riforma lasciata in eredità da Tremonti e Sacconi prevede dei contratti che derogano ai contratti nazionali; l’operaio potrebbe essere costretto ad accettare l'allungamento del proprio orario lavoro fino a 60-65 ore. È palese come la crisi costituisca un’occasione per far indietreggiare le condizioni del lavoratore… Oggi viviamo una situazione paradossale: abbiamo una potenza produttiva incredibile a cui corrisponde una stagnazione dei salari, un allungamento dell'orario di lavoro, la riduzione del welfare, del salario differito (come si chiamava una volta) fornito dai servizi. In questi anni i ceti operai e la classe media hanno visto sia la stagnazione sia l’aumento dei costi…
I nostri occhi vedono un cambiamento radicale nei rapporti di forza, come si diceva una volta?
L’articolo 8 vuole derogare dai contratti nazionali di lavoro e prevede un controllo sempre più serrato. Permetterebbe all'imprenditore, all’interno della fabbrica, di controllare tutte le attività e lo spostamento dei lavoratori. Un grande fratello che ti guarda. Il lavoratore si deve sentire osservato tutto il giorno. Può accadere che per ragioni di ristrutturazione interna diventi un lavoratore generico, può diventare un contratto a progetto… L’orario può arrivare a 65 ore ma può anche scendere a venti se l’organizzazione dell’azienda lo prevede. Si può vedere da queste norme che i lavoratori diventano delle cose. Questa è l’estrema barbarie e favorisce la decomposizione societaria. Gli uomini non contano nulla, sono spostabili, licenziabili… È una metastasi distruttiva in cui la dignità umana non conta più nulla…
Avremmo dovuto ribellarci! E invece siamo stati ricattati
Il ragionamento ricattatorio più in voga è questo: c'è la competizione mondiale e noi non possiamo perdere il treno della competizione. Queste sono le mie risposte a tale provocazione: competere moltiplicando il lavoro è perdente. Lo sviluppo è stato accompagnato dal welfare, ad un'economia sociale di mercato. La competizione è avvenuta conservando i diritti e migliorando la vita e l’intelligenza collettiva…Inoltre, la globalizzazione è cresciuta sotto il segno dell’ideologia neoliberista. Il capitalismo ha realizzato un grandioso disegno. Ha trasferito le imprese dove la manodopera era indifesa e senza tutele. In questo modo i capitalisti hanno incrementato i loro profitti e hanno avuto un enorme vantaggio. La delocalizzazione ha permesso di tiranneggiare la classe operaia dei paesi d’origine. «Se non vi sta bene questo contratto io sposto l’impresa altrove». Questo ha dato all’imprenditoria una capacità contrattuale forte e schiacciante…
La globalizzazione però è un dato di fatto ormai?
Io da marxiano so benissimo che lo scenario è mondiale. Ho sempre creduto che l’aspirazione dell’umanità è il cosmopolitismo. Sono contrario alle chiusure nazionali e nazionalistiche e favorevole all’Europa sognata dai padri fondatori e accresciuta da contenuti sociali (non questa Europa, certo). Nell’attuale fase storica si può fare molto. Perché non si punta a creare degli standard minimi di regolamentazione dell’orario massimo, di salario minimo uguale per tutti? Mi rendo conto delle difficoltà tecniche, ma costituirebbe una forma diversa di globalizzazione. Il lavoro rimane inchiodato a forme di sfruttamento becere mentre alle merci è consentita qualsiasi cosa. Non è accettabile. Questi nostri governanti si riempiono la bocca di globalizzazione ma non fanno nessun minimo sforzo per proteggere il lavoro. Può sembrare paradossale ma nonostante il lavoro di fabbrica sia diminuito (almeno in Europa), il lavoro d’ufficio somiglia sempre di più al lavoro di fabbrica. Non mettere al primo posto il lavoro significa per una società perdere la modernità.
Eppure ci sarebbero le condizioni per vivere bene?
Viviamo in un’epoca paradossale. Si produce così tanta ricchezza che si potrebbe vivere tutti meglio. Un’organizzazione diversa del lavoro consentirebbe di danneggiare meno l’ambiente, invece si continua a correre. Queste politiche di austerità porteranno al disastro e la crisi è destinata a diventare un fatto endemico. Noi, oggi, avremmo bisogno di lavorare quattro ore al giorno e lavorare tutti. Una società ricca e opulenta come la nostra potrebbe farlo benissimo. Mentre ci fanno sentire drammaticamente poveri…
“Pubblico”, 28 dicembre 2012
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