Charles Dickens |
Quando si apre uno dei romanzi che Charles Dickens scrisse tra il 1836 e il 1870, lungo l'arco di una straordinaria carriera, si è costretti a far fronte a un paradosso miracoloso. Dickens, insegnava Nabokov in una delle sue Lezioni di letteratura, resta un magnifico «incantatore»: se si tenta di analizzare il suo metodo narrativo, non si può fare a meno di rilevare un catalogo di «difetti» nelle sue storie, a volte prevedibili o viziate dal sentimentalismo; ma se lo si legge «con la spina dorsale» - sede, per Nabokov, del «piacere artistico» - non resta che «arrendersi» di fronte alle magie illusionistiche della narrazione. La lettura, in ogni caso, «tiene», ci trascina e finisce per lasciare il critico in imbarazzo, a interrogarsi sull'adeguatezza del suo percorso e dell'attrezzatura utilizzata durante l'indagine.
Ma dunque, se non è in grado di spiegare il mistero della scrittura attraverso gli strumenti della ragione, a cosa serve la critica letteraria? Quali sono i suoi limiti e le sue legittime aspirazioni? Se non vogliamo chiudere gli occhi di fronte al problema, possiamo affidarci a Gilbert Keith Chesterton e abbandonarci alle pagine di Una gioia antica e nuova. Scritti su Charles Dickens e la letteratura (a cura di Edoardo Rialti, Marietti).
Il libro, tradotto oggi per la prima volta in italiano, raccoglie le prefazioni ai romanzi di Dickens che Chesterton allestì per la collana Everyman nel 1911, lo stesso anno in cui diede alla luce L'innocenza di Padre Brown, il primo di una fortunata serie di gialli. La coincidenza cronologica, non casuale, è sintomo di un'ammirazione che rischiò di sconfinare nell'ossessività e che solo la meravigliosa intelligenza critica di Chesterton riuscì ad addomesticare.
Gilbert Keith Chesterton |
Quell'indefinibile piacere
Romanziere, giornalista, biografo e apologeta del cristianesimo, Chesterton visse una vita, a suo dire, «immeritatamente felice», sulla quale Dickens sembra proiettare un'ombra invadente. Non è un caso se l'Autobiografia di Chesterton, uscita postuma nel 1936, si apre e si chiude con due riferimenti allo scrittore: in entrambi i casi, oltre che come amico del nonno paterno, Dickens viene ricordato come formidabile creatore di personaggi-tipo dell'epoca vittoriana, così «reali» da essere ritenuti a torto dai lettori una semplice copia di esseri viventi. La stessa svista, racconta l'Autobiografia, avrebbe del resto coinvolto anche l'immaginario personaggio di Padre Brown: come se Chesterton, avvicinando a più riprese la propria sorte letteraria a quella di Dickens, volesse farne un nume tutelare della propria opera.
Nessuna sorpresa, allora, se Chesterton, nel momento in cui comincia le prefazioni di Una gioia antica e nuova, sembra trovarsi al cospetto di una sorta di divinità letteraria e decide di mettersi al suo servizio, per raccontare ai lettori «la forza» del «genio» di Dickens, il «germe propellente» da cui si sprigionano le sue opere e le ragioni «indescrivibili» dell'ironica «energia» che le pervade. Il compito del critico, per Chesterton, è proprio questo: si deve rendere conto di una «sensazione», marginale ed enigmatica, di un residuo di piacere «difficile da definire», che sopravvive al termine della lettura e che nasconde la chiave della creazione letteraria. Dickens - ripete più volte Chesterton a questo proposito - rappresenta il romanziere demiurgo che, prima di disporsi all'opera, ha avuto una «visione prenatale» del proprio universo narrativo e dei suoi abitanti. I suoi personaggi - insiste Chesterton - possiedono «una qualità speciale di divina pre-esistenza» alla scrittura: solo così si riuscirebbe a giustificare la loro vitalità chiassosa e a tratti perturbante.
Non c'è dunque da stupirsi se Chesterton, sacerdote di un artefice visionario, non utilizza mai attacchi frontali né rituali solenni per avvicinarci al miracolo della sua onnipotenza. In questo senso il formato della prefazione, con la sua misura breve, rivela fin dall'inizio la sua funzionalità irrinunciabile. La prefazione permette infatti un accerchiamento progressivo, uno studio a puntate nel corso del quale il critico - un po' come faceva Montaigne nei suoi Saggi - può «girare intorno» all'arcano del genio, rivisitare da un romanzo all'altro le costanti «indefinibili» delle sue trame per stabilire «ciò che è Dickens», oppure concentrarsi sulle deviazioni e sui cambiamenti di rotta apportati da ogni singola opera. Il tutto senza nessuna pretesa o dovere di completezza.
In questo modo i lettori di Una gioia antica e nuova vedono a poco a poco delinearsi sotto i propri occhi una storia, che ci racconta non tanto la vita di Dickens (tenuta comunque in controluce), quanto la forma e il modo in cui sono fatti i suoi romanzi. È una storia discontinua, spesso imprevedibile, fatta di strappi, tecniche segrete, ripensamenti, colpi di scena. E mai, e per nessun motivo, si basa su una linea evolutiva. Perché per Chesterton, il grande illusionista Dickens ha sempre una sorpresa nascosta nel suo cilindro. La sua peripezia creativa, che comincia nel 1836 con il vertiginoso picco di «ironia» del Circolo Pickwick, può essere intesa come una lotta inesausta per tenere a bada un'orda di personaggi «folli», spesso «sbruffoni».
Verso un richiamo all'ordine
Da quando Dickens, con Nicholas Nickelby, decide di dare ai suoi romanzi una struttura sempre più organica, si ritrova infatti in balia di creature «erranti», capaci di percorrere come eroi cavallereschi svariati territori della finzione: l'incubo del romanzo «cupo» a tinte forti (Oliver Twist), la saga «romantica» della Bottega dell'antiquario, l'epopea storica di Barnaby Rudge o il romanzo «satirico» di Martin Chuzzlewit . Solo nel 1848, con Dombey e figlio, dove i personaggi cominciano a gravitare come satelliti attorno all'orbita dell'intreccio, si ha un primo «punto di rottura» col passato. Anche se poi, subito dopo, Dickens cade nella trappola autobiografica di David Copperfield, che torna a fargli sfuggire la situazione di mano, e bisogna aspettare nel 1853 Casa desolata, con la sua trama immersa nella nebbia ma «coerente», oppure il romanzo «senza eroe» di Grandi speranze, perché lo scrittore riacquisti il controllo delle sue creature. Finché, con gli ultimi due romanzi, fra il 1865 e il 1870 il demiurgo esce di scena sorprendendoci: se nel Nostro comune amico Dickens sembra tornare alle origini, recuperando il suo «primo stile di scrittura», l'incompiuto Mistero di Erwin Drood consegna ai posteri l'ulteriore enigma di un romanzo poliziesco di cui non si è tuttora riusciti a identificare il possibile colpevole.
Dopo un simile percorso, si comprende allora che gli sforzi dell'artefice sono stati progressivamente indirizzati verso un irrequieto richiamo all'ordine. Resta però inspiegato il potere dell'illusionista, che lavora - anche per Chesterton - su «soggetti di repertorio», ma riesce comunque a sfruttare tanto a fondo la follia dei propri attori da rendere addirittura avvincente «la noia». E dunque, c'è da chiedersi, in base a quali diritti e obiettivi il critico si è azzardato a indagare i «nessi» della mente dello scrittore? E anche così, non si finisce per restare schiacciati dalla potenza di un genio che si rivela sempre più dispotico e rimane, allo stesso tempo, preda delle sue stesse creature?
Oltre i confini del testo
È a questo proposito che Chesterton, con la sua mossa più astuta, non manca di intraprendere una sistematica congiura di demolizione, che lo porta a «sminuire» la divinità e a tramutarla in un idolo. In più di un'occasione, il critico si dichiara infatti costretto a segnalare gli «errori» di «creazione» delle diverse avventure romanzesche e a mettere in luce i loro difetti di fabbricazione. Ma non certo per fornirci un pedante giudizio di valore, quanto per insistere sui meccanismi della narrazione e per rendere il lettore più potente e autorevole dell'idolo nella loro decifrazione.
Ce lo dimostra un aneddoto che riporta le reazioni di una lettrice. «Una volta - racconta Chesterton - parlavo con una signora estremamente intelligente sull'opera La famiglia Newcome di Thackeray. Parlavamo del personaggio della signora Mackenzie, 'l'attivista', e in mezzo alla conversazione la signora si piegò verso di me e con voce bassa, fioca, e tuttavia vigorosa, mi disse, "Quella beveva, sapete. Thackeray non lo sapeva ma lei beveva"». Lo stesso sistema, secondo Chesterton, si può applicare alle creature di Dickens: per quanto visionario si sia dimostrato il demiurgo, il lettore, basandosi sul testo e sulla propria intuizione, può sempre sopraffarlo, «vedere» più di lui, e vedere magari anche ciò che Dickens, nella consapevole e «onesta» menzogna della sua allucinazione letteraria, non ha scorto o finge di aver ignorato.
«L'autore - ribadisce Chesterton - vede solo un arco, o il frammento di una curva. Il lettore vede le dimensioni del cerchio». Anche per questo motivo la critica è autorizzata a spingersi oltre i confini del testo, a parlarci persino delle trame che il romanziere non ha raccontato o che sono rimaste allo stato di abbozzo: come accade con le storie dell'Orologio di mastro Humphrey, «occasioni sprecate» e sviluppate solo in parte, che ad ogni modo, secondo Chesterton, possono suggerirci «lo sfondo della mente di Dickens» e «la materia di cui sono fatti i suoi sogni».
Vittoriosi fallimenti
Non c'è da rimanere delusi se tuttavia, al termine della ricognizione, Chesterton non arriva davvero a spiegare il miracolo dell'ironia di Dickens e non individua la formula magica che gli permise di evocare i suoi personaggi. Il percorso di Chesterton va incontro a un fallimento inesorabile, ma anche a una entusiasmante vittoria. Perché la critica deve saper fare un passo indietro di fronte alla grandezza della creazione: «quando arriviamo a Dickens e alla sua opera - ammette alla fine Chesterton - cosa possiamo dire? Cosa si può dire di un terremoto o di un'alba?» Ciononostante, anche se il prodigio non è stato scalfito, Chesterton ha fatto in modo di raddoppiarlo: a forza di «girare intorno» allo scrittore, è riuscito a delineare gli spazi e le linee di forza del suo universo, lo ha reso abitabile per i lettori, familiarizzandoci con la sua geografia e con la sua popolazione, fino a farci desiderare di riaprire i romanzi di Dickens per tornare a visitarla. Così, grazie alla costituzione di questo spazio peculiare dove possiamo muoverci a nostro agio senza soccombere alla mole del genio, non si può che in parte sottoscrivere il giudizio formulato da Borges: «La letteratura è una delle forme della felicità; forse nessuno scrittore mi ha dato tante ore felici come Chesterton».
“il manifesto”, 1° settembre 2011
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