Questa nota critica è un ampio stralcio dalla recensione per una riedizione italiana del celebre romanzo secentesco. (S.L.L.)
«Domando se una Donna virtuosa, la quale nutre tutta la stima possibile per un Marito quanto mai degno, ma è al tempo stesso combattuta da una violenta passione, che cerca in tutu i modi di soffocare, per un Amante... fa meglio a confidare questa sua passione al marito o a tacerla esponendosi a battaglie continue...».
Questo quesito che, nell'aprile del 1678, il supplemento del giornale parigino il Mercure Galant rivolgeva ai suoi lettori, sottoponeva al giudizio del vasto pubblico la querelle apertasi con la pubblicazione della Princesse de Clèves, apparsa anonima appena un mese prima e già oggetto della curiosità generale.
Non stupisce che molti lettori potessero giudicare scandalosa o quantomeno «stravagante» la soluzione data al dilemma, così efficacemente sintetizzato dal Mercure, dall'eroina del capolavoro di Madame de La Fayette. Scegliendo la strada della confidenza e della verità, la principessa di Clèves non solo uccideva un marito che non resisteva al dolore di non essere amato, ma attentava alle fondamenta stesse dell'istituto familiare.
Nella concezione aristocratica dell'Ancien Régime, il matrimonio si ispirava infatti a valori eminentemente sociali e mondani, rappresentava il frutto di una politica patrimoniale e di una complessa strategia di alleanze familiari ed era garantito dalla reciprocità degli interessi e da un preciso codice di comportamento. Tutto ciò non implicava necessariamente la negazione della sfera affettiva, ma non ne faceva un elemento qualificante dell'istituto coniugale. La confessione della principessa esponeva cosi sconsideratamente il matrimonio alla precarietà di un arbitrio personale, di una crisi soggettiva, riducendolo alla stregua di una semplice vicenda sentimentale. Ma la . Princesse de Clèves non si limitava a contravvenire alla norma sociale, metteva in discussione un'antica convenzione letteraria e gettava le fondamenta del romanzo moderno.
Voltando le spalle a una tradizione narrativa che risaliva alla cultura trobadorica, Madame de La Fayette esiliava l'amore dalle libere regioni fantastiche su cui aveva esercitato fino ad allora un incontrastato dominio, per confrontarlo con la difficile realtà contemporanea e costringerlo entro le mura disadorne della coscienza individuale. Per operare questa metamorfosi la scrittrice non aveva esitato a contaminare il romanzo, a renderlo partecipe delle altre esperienze artistiche del Grand-Siècle, a orientarlo verso quella scienza delle passioni e del cuore umano su cui tragici e moralisti avevano già costruito i loro capolavori. Non è un caso che Madame de La Fayette suggerisse una lettura della sua opera in chiave memorialistica, ed è indubbio che l'orgogliosa consapevolezza dell'eccezionalità della condotta adottata conferisca alla principessa di Clèves l'aura di un'eroina corneilliana.
Nel romanzo di Madame del La Fayette la comparsa dell'amore dà l'avvio a un duplice processo conoscitivo: permette al lettore di cogliere man mano, al di là dello stereotipo convenzionale basato sulla bellezza, la virtù, la nobiltà, il profilarsi della singolare personalità della principessa di Clèves, e svela contemporaneamente l'eroina della storia a se stessa, rendendola poco a poco arbitra della propria vita. Al termine di questa quète che, com'è stato osservato, segna per lei il passaggio dal silenzio alla parola, dall'apparire all'essere, la principessa di Clevès non rinunzia alla propria autonomia interiore e, sebbene libera di sposare l'uomo che ama, gli preferisce la solitudine e la pace.
Se la critica seicentesca aveva fissato l'attenzione sul problema dell'aveu (e, nel De l'Amour, Stendhal riprendeva la polemica sentenziando: «La principessa di Clèves non doveva dire niente al marito e darsi a Monsieur de Nemours»), la critica moderna si è soprattutto interrogata sul significato della retraite di Madame de Clèves e sulla sua aspirazione al repos. La decisione finale della principessa è stata di volta in volta interpretata come rifiuto della realtà, rinunzia alla vita, volontà di suicidio, paura della felicità, adesione orgogliosa a un modello eroico di virtù, scelta della libertà. In uno studio di qualche anno fa (La principessa giansenista, Bulzoni, 1981) Gabriella Violato, esaminate le molte ipotesi avanzate dalla critica, suggeriva di leggere la rinunzia della principessa di Clèves alla luce della cultura giansenista, a cui Madame de La Fayette si era andata progressivamente avvicinando nell'ultimo periodo della sua vita. In quest'ottica, la retraite, il repos, «ciò che era [parso] soluzione di fuga, paura di rimettere in discussione in un confronto con il mondo i valori acquisiti, diventa scelta contro ili mondo, dopo averne sperimentato fino in fondo l’insufficienza e il carattere limitato».
Tuttolibri de “La Stampa”, 15 marzo 1986
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