Una stroncatura vecchia maniera, come non se ne leggono più, venata di umori reazionari, antifemministi e persino misogini. Non so molto della vita e delle opere della Brentano (credo che sia scrittrice di qualche valore, come ammette a malincuore anche l’articolista), ma il pezzo rimane un bel documento di un certo modo di leggere e scrivere, irritante e divertente insieme; esempio della scrittura di Verrecchia, il filosofo e germanista da poco scomparso, discutibile ma non privo d’ingegno. (S.L.L.)
Bettina Brentano, ninfa egeria dei romantici tedeschi, pitonessa letteraria e per molti versi nonna o bisnonna delle femministe, continuò a bamboleggiare per tutta la vita, anche quando era molto avanti negli anni. Già vedova, e madre di sette figli, si presentava ancora nelle vesti di bambina amata da Goethe, non riuscendo a staccarsi dal ruolo che si era attribuita nel libro che l'aveva resa celebre: Carteggio di Goethe con una bambina. Naturalmente quella ‘bambina’ era lei, nonostante avesse ventidue anni quando incontrò per la prima volta il poeta e cinquanta quando pubblicò il libro, che ora possiamo leggere, insieme con altri suoi scritti, in una edizione di lusso: Bettina Brentano, Werke in drei Banden, Deutscher Klassiker Ver lag, Frankfurt 1995.
Nata a Francoforte il 4 aprile del 1785, Bettina era figlia del commerciante italiano Antonio Brentano, il quale si sposò tre volte e mise al mondo una ventina di figli, tutti intellettualmente dotati. I figli più intelligenti, circa una dozzina, li ebbe dalla seconda moglie, che aveva ventidue anni meno di lui. Era Maximiliane La Roche, figlia della scrittrice Sophie La Roche. Di quella seconda nidiata facevano parte Bettina e il fratello Clemens, creatore della celeberrima Loreley. Tutti e due si arrampicarono con successo sulle impervie pareti del Parnaso. Ma mentre Clemens ci salì da solo e con le proprie forze, Bettina ebbe sempre bisogno di qualcuno che la portasse sulle spalle. E dovevano essere spalle robuste, come quelle, per l'appunto, di Goethe. Il giovane poeta frequentava assiduamente la casa di Brentano a Francoforte, perché era incapricciato della bella Maximiliane o Max, i cui tratti ritroviamo nella Lotte del Werther, e che lui riteneva di dover consolare delle delusioni maritali. Lettera del febbraio 1774: “La Max è ancora quell'angelo che, con le doti più semplici e preziose, attira a sé tutti i cuori, e il sentimento che provo per lei, e in cui suo marito non troverà mai motivo di gelosia, costituisce ora la felicità della mia vita”. Ora, se Goethe fece la corte alla madre di Bettina, questa fece la corte a lui. Ma come corteggiarlo, se lui allora viveva a Weimar e lei a Francoforte? Così Bettina pensò di arrivare al figlio attraverso la madre di Goethe, che viveva invece a Francoforte. Frau Aja, come veniva chiamata familiarmente, la prese a benvolere e le raccontò tutto sull'infanzia e l'adolescenza di suo figlio. Poi Bettina si recò a Weimar e partì all'attacco diretto. Esaltata com'era, arrivò a dire: “Da lui voglio un figlio, e sarà un semidio!”. Ci scappò invece solo un libro epistolare, nel quale c'è più fantasia che realtà. Non per niente lo pubblicò tre anni dopo la morte del poeta, il quale non sarebbe stato certo lusingato nel sentirsi dire: “Abbracciami, bianco marmo di Carrara!”. Altro esempio: l'11 agosto del 1810, Goethe, che si trovava nei bagni termali di Tepliz, scrisse alla moglie di essersi visto piombare nella camera d'albergo quel folletto di Bettina, “davvero più bellina e amabile del solito”. Le diceva anche che la giovane si sarebbe presto sposata con il poeta Achim von Arnim. A sentire Bettina, invece, il poeta, che aveva trentasei anni più di lei, l'avrebbe subito pregata di scoprire ‘le gemellette’, ossia il seno: “Slacciati, goditi l'aria della sera. Non bisogna forse abbracciare il bello? Non e' la missione della mia vita?”.
Bettina, molto furbescamente, saltò sulle spalle di Goethe per innalzarsi e per spiccare il volo verso la gloria. Bettina amava allacciare rapporti e corrispondenze con personalità in vista, per poi rielaborare le lettere, intercalandole con dialoghi, ricordi e fantasie varie, e ricavarne un romanzo epistolare. Così fece anche con la poetessa Karoline von Gunderobe, che si uccise per un amore infelice, con il principe ereditario e poi re Federico Guglielmo IV, e perfino con il fratello Clemens, che a sua volta si era ispirato a lei per la Loreley.
Bettina, però, non visse solo di luce riflessa, nè si può dire che tutta la sua gloria l'avesse scroccata agli altri. Aveva anche talento proprio e in molte cose rivelò più perspicacia dello stesso Goethe. Seppe capire molto meglio di lui la grandezza di Holderlin e anche quella di Beethoven. Non e' poco. Le va inoltre riconosciuto il merito di aver difeso nobili cause, soprattutto a favore dei poveri, quando questo era tutt'altro che facile nella Germania della Restaurazione.
Ne fanno fede i suoi scritti di carattere politico, molti pubblicati per la prima volta in questa nuova edizione. Si calcola che in Prussia, nel 1846, oltre metà della popolazione era povera o poverissima. Di qui il sacro fuoco di Bettina contro l'ingordigia dei potenti o dei ‘filistei’, come li chiamava lei. Ma difese anche altre cause, prima fra tutte l'emancipazione della donna, poi la libertà dei polacchi, la parità di diritti degli ebrei, la liberalizzazione dello Stato poliziesco. Diceva di essere guidata dal ‘libero spirito vivente’, che non si sa bene che cosa sia. Sorprende, però, che una così coraggiosa combattente contro i privilegi ne chiedesse per conto proprio. Quando incomincio' il rapporto epistolare con il futuro Federico Guglielmo IV, disse che non si sarebbero mai dovuti incontrare, perchè un incontro reale avrebbe potuto distruggere quello spirituale. La stessa cosa, più tardi, farà la signora von Meck con Ciajkovskij. Il principe ereditario stette al gioco. Ma quando diventò re, fu Bettina a rompere il patto: andò a chiedergli il titolo di barone per il figlio Siegmund, un diplomatico. E questo potrebbe far credere che tutto il suo strepitare rivoluzionario e liberale fosse una posa, insomma che facesse come certi radical-chic di oggi. Lei comunque era ricca.
"La Stampa", 31 ottobre 1995
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