16.12.12

Noi vogliam Dio con la camicia rossa... Partigiani in Piemonte (Claudio Gorlier)

Aprile 1945. Partigiani e popolo nella Torino liberata
Il 25 aprile 2007, prendendo spunto dalla festa della Liberazione, racconta il sentire e il cantare partigiano. Nell'articolo è ricordato anche il comandante Barbato, liberatore di Torino, il nostro amato compagno Pompeo Colajanni. (S.L.L.)
Aprile 1945. Liberazione di Torino.
Il comandante Barbato (Pompeo Colajanni)
I canti sommersi del 25 aprile 
Le celebrazioni sono - ahimè - generalmente solenni e ufficiali. Niente di male: vale anche per il 25 aprile. Ma in parecchi casi, uno dei quali è la festa per la Liberazione, resta per forza di cose una specie di fattore sommerso.
La guerra partigiana - lo dico per conoscenza diretta - ha posseduto un sommerso, prevedibilmente, direi inevitabilmente, trasgressivo. I giellisti piemontesi inventarono la spassosa Badoglieide, che sopravvisse abbastanza a lungo. Ma i partigiani garibaldini erano assai meno castigati, e tra di loro si diffusero canzoni estremamente popolari quanto di matrice anonima. Una - a dire il vero - risaliva agli anni Venti, e seguiva il percorso dell'inno dei lavoratori: «E noi vivremo senza lavoro / senza Papa e senza Re». Ma tra i garibaldini, almeno in Piemonte, si affermò rapidamente una canzoncina beffarda (anche se, al tempo stesso, affettuosa), sulle note del popolare Noi vogliam Dio. Eccola: «Noi vogliam Dio con la camicia rossa / e San Giuseppe con il mitra in man / e la Madonna alla riscossa / fa la staffetta dei partigian».
Alcuni piccoli gruppi di matrice anarchica lanciarono un inno più devastante: «Dinamite alle chiese e ai conventi / Dinamite ai palazzi e alle regge. / Non vogliamo nessuna legge / noi vogliamo soltanto la libertà». I comandanti garibaldini si infuriavano perché trovavano la canzone anarchica - diremmo oggi, politicamente scorretta. Il leggendario Barbato si scatenava contro. Leggete lo splendido libro di Raimondo Luraghi, Eravamo partigiani (Rizzoli) ne saprete di più. Questo sommerso, che mi risuona ancora nelle orecchie, ebbe vita breve. Canzoni del genere si ascoltavano ancora durante incontri di reduci partigiani per tutta l'estate del 1945, poi vennero quasi inghiottite nel nulla. La spiegazione esiste, e credo di averla toccata con mano: fu l'apparato del Partito comunista a intervenire. Cominciava a tirare aria di compromesso storico, e dunque niente canzoni ritenute blasfeme. Poi si diffuse Bella ciao, a noi sconosciuta. Nel Nord l'inno era: «Soffia il vento / fischia la bufera / scarpe rotte eppur bisogna andar / a conquistare la rossa primavera / dove sorge il sol dell'avvenir». L'aria era di origine russa, e quindi tutto a posto. Ma il sommerso, più niente.
 
“La Stampa”, 25 aprile 2007

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