Dalla rubrica "Parole in corso" su "La Stampa" un'altra acuta riflessione del professor Beccaria. (S.L.L.)
Scrive un lettore: «Avrà notato che, oggi, nel parlare e purtroppo anche nello scrivere si intercali, talvolta a raffica, espressioni quali come dire e in qualche modo. Entrambe indicano una insicurezza nell'esprimere il proprio pensiero soprattutto quando si vuol argomentare ad ogni costo su una qualche questione posta dall'interlocutore. Sono espressioni altamente disturbanti che impediscono la fluidità del discorso, particolarmente antipatiche, in specie quando usate da persone che appaiono colte». Rispondo volentieri, perché so bene (e non mi scandalizzo più di tanto) che il nostro parlare è colmo di intercalari di per sé inutili, ma che servono come a prender fiato. Certo, nello scritto sono insopportabili, e diventano fastidiosi anche nell'orale, quando crescono oltre ogni limite. Un ricorrente intercalare é proprio diventato «al limite», che oltre al suo significato preciso che ha in matematica, si usa comunemente per significare «tutt'al più», «nella peggiore delle ipotesi», o addirittura per indicare un qualcosa di nessun peso («al limite verrai da solo»). Si tratta di riempitivi. Turano una falla. Per questo motivo si chiamano anche «zeppe», perché «zeppe» in lingua italiana sono propriamente quei pezzi di legno che servono per rincalzare un mobile, si mettono sotto il piede di un armadio, o servono per turare un buco, o per sostituire qualche parte mancante. Per estensione chiamiamo «zeppe» anche quelle parole o frasi che si inseriscono nel discorso senza una giustificazione logica o estetica (non conferiscono difatti alcuna bellezza alla frase). In poesia servono per riempire il verso, fargli raggiungere la giusta misura. In prosa possono essere dei doppioni, due aggettivi per esempio di cui uno non serve, è sovrabbondante. E penso poi, nella catena parlata, a quel «cioè» giovanile, una specie di sosta non necessaria, o a quel «niente» usato a inizio di frase, e ai vari «praticamente», «chiaramente», ai frequentissimi «diciamo», «come dire», «voglio dire», «si fa per dire», «in qualche modo». Finiscono con l'essere una sorta di «rumore» che colma un vuoto. Sono prese di fiato, dicevo, proprio come capita per certe parolacce, che inzeppano inutilmente il discorso di tanti ragazzi e ragazze, sintomo anche di povertà di vocabolario, cioè di idee. Spesso rispondono a un disagio o incapacità di comunicare, di articolare il discorso, un disagio appunto nei rapporti interpersonali.
“La Stampa”, 31 maggio 2008
Postilla
"Zeppa" ha acquisito, nell'ultimo ventennio un altro significato, forse oggi prevalente per effetto della moda. Si chiamano zeppe quelle suole dalla forma triangolare che sostituiscono il tacco e slanciano la figura e, per sineddoche, anche le scarpe che ne sono fornite. Probabilmemente devono il loro nome alla forma e alla funzione che ricordano quelle dei pezzi di legno di cui scrive Beccaria e che talora per riequilibrare spingono un po' su questo o quel piede di canterano. (S.L.L.)
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