Din Buzzati in via Solferino,
presso la sede del Corriere
Il Deserto è un travestimento narrativo
della routine redazionale,
che è anche una metafora della vita
Con il suo nome è stato battezzato un orso che devasta le Prealpi vicentine, forse in ricordo della sua passione per le vette e del romanzo Barnabo delle montagne. Lui, a sua volta, veniva chiamato il «Kafka italiano», cosa che non gli faceva affatto piacere, a differenza di quanto si può pensare: «Oh, insomma: Kafka è Kafka, io sono io. Piantiamola con questa storia», dichiarava in un'intervista del 1962 sul settimanale “Tempo”.
Ma il paragone era indovinato perchè il suo romanzo più famoso, Il deserto dei Tartari, aveva un protagonista che poteva essere uscito dalla penna dello scrittore praghese: il tenente Drogo in servizio presso la fortezza Bastiani, in attesa di un nemico che non si vede mai. Arriverà quando l'ufficiale ormai stanco e malato deve lasciare il suo avamposto, per morire in una squallida locanda durante il ritorno a casa. Così si polverizza il sogno di epiche battaglie contro i fantasmi che devono arrivare dal deserto.
Kafkiano è l'inutile soggiorno, ai limiti del mondo civile, metafora della vita che si consuma nell'attesa. Ma si possono citare anche Beckett, Conrad e Sartre. Perciò non stupisce che Il deserto dei Tartari sia stato considerato da diverse generazioni di lettori, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, il romanzo più europeo della nostra letteratura, un libro culto che rispecchiava la cultura dell'alienazione.
Il deserto usciva 70 anni fa, il 9 giugno 1940. All'epoca Buzzati era inviato del “Corriere della Sera” a Addis Abeba, sul fronte di guerra, ma si trovava momentaneamente in Italia in attesa di ripartire per l'Etiopia. Nato nel 1906 nel Bellunese, in una famiglia della buona borghesia (docente universitario di diritto il padre, gentildonna la madre, sorella di uno scrittore), terzo di quattro figli, con due fratelli e una sorella, nel 1928 aveva intrapreso la carriera giornalistica, da cronista che faceva il giro dei commissariati, e nel 1933 aveva pubblicato Bàrnabo, il suo primo romanzo. Sapeva suonare piano e violino, mostrava un'inclinazione per il disegno e la pittura, nutriva due grandi passioni, per il mondo egizio e per le scalate dolomitiche, cui si dedicò tutta la vita. Personalità irrequieta, carattere chiuso e malinconico, spesso avvolto di tristezza, talvolta profondamente tormentato, in una lettera del 1930 all'amico Brambilla aveva confessato il disagio di vivere che ispira tutta la sua narrativa: «Poi vorrei fare qualcosa d'altro, o studiare o suonare il piano, o scrivere qualche capolavoro; ma mi viene un'apatia spaventosa e sento che il mio cervello si spappola nella vita attiva». In realtà, nel 1935 pubblica un secondo romanzo, Il segreto del bosco vecchio, mentre il “Corriere” ospita regolarmente suoi racconti.
Il capolavoro arriva a neppure 34 anni. In un primo tempo s'intitolava La fortezza, è Leo Longanesi, che lo pubblica da Rizzoli, a inventare l'immagine del Deserto dei Tartari. La leggenda racconta che Buzzati lo scrisse sui grandi tavoli della redazione del “Corriere”, nelle notti in cui era di turno. Probabilmente non è vero, mentre è vero che furono gli stanzoni di via Solferino a ispirargli la storia. La fortezza del romanzo, con gli ufficiali, la truppa, i rituali, la disciplina, l'eterna attesa di ciò che non succede, era il travestimento in foggia militare della vita al giornale, della routine redazionale, decenni che scorrono monotoni dall'assunzione al pensionamento, inseguendo il mito dello scoop che non si farà mai. Buzzati lo confermava in un'intervista del 1966: «Io mi chiedevo se sarebbe andata avanti sempre così, se le speranze, i sogni inevitabili quando si è giovani, si sarebbero atrofizzati a poco a poco, se la grande occasione sarebbe venuta o no, e intorno a me vedevo uomini, alcuni della mia età altri molto più anziani, i quali andavano, trasportati dallo stesso lento fiume». Il romanzo ebbe un discreto successo, se si pensa che uscì in piena guerra. Il critico letterario Pietro Pancrazi ne parlò come di una delle prove più singolari della narrativa italiana. Una seconda edizione uscì nel 1945 da Mondadori (dove nel frattempo l'autore era trasmigrato). Ma furono i francesi a innamorarsi del Deserto che trovarono nelle loro librerie dal 1949. Nacque allora la straordinaria fortuna di Buzzati in Francia. Nel 1953 a Milano il Piccolo Teatro mise in scena la commedia grottesca Un caso clinico, dopo soli due anni la pièce venne allestita a Parigi (Un cas intéressant) in un adattamento curato da Albert Camus, che divenne un grande amico di Buzzati. Del quale bisogna ricordare anche La famosa invasione degli orsi in Sicilia, opera fantastica del 1945, con testi e tavole dipinte. La morte arriva nel 1972, per un tumore al pancreas, come il padre. Sei anni prima Buzzati aveva lavorato al copione di un progetto di Fellini, che si dichiarava suo ammiratore fin dai tempi del liceo. Si trattava del ben noto film Il viaggio di G. Mastorna, mai realizzato, anzi rimasto incompiuto anche come soggetto. Pure questa una metafora della vita, che chiudeva il cerchio.
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Appendice
''Se aprivi una porta…''
di Enzo Bettiza
«Circolava quest'aria da sempre, già dai tempi dei Lilli e dei Piovene. Tu vedevi impilare sul tavolo di un redattore, che era lì da secoli, le strisciate delle agenzie, la mazzetta dei giornali e persino il bollettino della pensione, ma quello era morto da tempo. Il Deserto era effettivamente una perfetta trasposizione dell'immagine un po' angosciosa che Buzzati aveva della vita al “Corriere”, in eterna attesa di qualcosa che non succedeva… Se bussavi a una porta del “Corriere”, si apriva lentamente e apparivano dei fantasmi».
"La Stampa", 28 aprile 2010
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