Thomas Edison & Steve Jobs |
Elogi funebri a confronto
«Ha reso questo mondo un
posto migliore in cui vivere e ha portato quelli che una volta erano
considerati lussi nella vita dei lavoratori. Nessuno nella lunga
lista di coloro che hanno beneficiato l’umanità ha fatto di più
per rendere l’esistenza facile e comoda». Non è Steve Jobs di cui
si parla, bensì Thomas Alva Edison, e queste frasi non sono state
scritte l’altroieri, ma ottant’anni fa, esattamente il 18 ottobre
1931 nell’elogio funebre a firma di Bruce Rae che ne pubblicò
allora il «NewYork Times», intitolato Il mondo reso migliore
dalla magia di Edison - Fece più di ogni altro per immettere
i lussi nelle vite delle masse.
È interessante
paragonare le due retoriche che corrispondono non solo a due generi
diversi di innovazione tecnologica, ma anche a due stadi differenti
della civiltà dei mass-media per due innovatori/capitalisti, cioè
per imprenditori che personificano ambedue l’idea del prometeico
industriale schumpeteriano, ma in modo totalmente divergente. Certo,
una differenza decisiva, che spiega almeno in parte i toni diversi, è
che Edison (1847-1931) morì dopo una lunga vita e molti anni dopo
che le sue invenzioni erano state rese invisibili dall’abitudine,
mentre Steve Jobs è morto relativamente giovane (56 anni) dopo una
lunga, pubblica battaglia con un tumore al pancreas, quando le sue
innovazioni furoreggiano ancora per la loro «novità».
Ma non è solo per l’età
avanzata che negli obituaries di Edison manca la lacrimosità
versata invece in abbondanza (e in misura assolutamente bipartisan,
da destra e da sinistra) per Steve Jobs, un commuoversi a buon
mercato che ricorda altre ondate di (effimeri) struggimenti, quale
quello per Lady Diana, e che quindi corrisponde a una figura nuova
per i capitalisti o per gli industriali, quella del «divo». Né
Edison, né Henry Ford (altro grande innovatore) furono mai star:
certo furono famosissimi al loro tempo, ma la natura della loro fama
era molto lontana da quella di un divo appunto, assomigliava più a
quella di un grande generale (uno Sheridan o un von Moltke) che a
quella di un artista di successo.
In questo senso si può
dire che il rituale funebre di Edison era tutto immerso nell’idea
di progresso, quello di Jobs è invece il trionfo del capitalismo
postmoderno (basato sull’eleganza, sull’essere accattivante,
oltre che sulla praticità). Dipende in parte dalla natura delle
innovazioni di Edison che furono anch’esse, come quelle di Jobs, in
gran parte migliorie di invenzioni preesistenti: Edison non fabbricò
la prima lampada elettrica a incandescenza, bensì la prima lampada a
incandescenza commerciabile. In questo senso contribuì a quella
vittoria sul terrore della notte e del buio che secondo Wolfgang
Schivelbusch (Luce. Storia dell’illuminazione artificiale,
Nuove Pratiche Editrice, 1994) caratterizza la fine del XIX secolo
(Parigi, la ville lumière). Ma il fonografo, quello sì che
Edison lo inventò tutto lui. Scrive il «New York Times»: «E poi
venne il fonografo – prima una novità, poi un genere di lusso,
infine un oggetto comune. Portò le grandi arie dell’opera nei
caseggiati popolari. La voce di Caruso s’innalzò per tibetani
dalla faccia piatta nei villaggi delle colline del Darjeeling. I
commercianti intuirono che grazie a esso africani ancora armati di
lancia avevano la possibilità di ascoltare il jazz di Broadway… E
tra cinquant’anni, la voce di Caruso e dei suoi contemporanei sarà
ascoltata da coloro che non sono ancora nati».
Le innovazioni di Edison
sono, per così dire, a monte dell’estetica, generano le condizioni
perché possa prodursi un’esperienza estetica (grazie non solo al
fonografo, ma anche alla cinepresa), mentre quel che colpisce negli
elogi funebri di Jobs è che se ne parla come di un Dior o di una
Coco Chanel dell’informatica (l’ipod come l’equivalente di quel
che fu l’introduzione del tailleur per l’eleganza delle
donne), cioè che il suo capitalismo è tutto immerso nella
dimensione estetica: anche in questo se ne può parlare come di un
«capitalista postmoderno»; non che sfrutti di meno, anzi (come
ricordava Benedetto Vecchi a proposito dei beni prodotti negli
sweatshops asiatici), ma lo sfruttamento si integra nella
cultura del gratuito da cui trae profitto.
L’ultima coincidenza a
colpire è che ambedue le morti sono cadute in un periodo in cui la
crisi economica non accenna a diminuire: Edison morì due anni dopo
il martedì nero 29 ottobre 1929, mentre Jobs è morto a poco più di
tre anni dal fallimento di Lehman Brothers (15 settembre 2008). Anche
qui però la morte di Edison è intrisa di progresso («le sue
invenzioni diedero lavoro – oltre che luce e divertimento – a
milioni» poiché crearono dal nulla tutta l’industria elettrica);
mentre nell’altra, di posti di lavoro c’è traccia (come ha
notato Alberto Piccinini) solo nel nome jobs (che in inglese
vuol dire «posti di lavoro») oppure in Cina e nel sudest asiatico.
“il manifesto”, 9
ottobre 2010
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