6.10.14

Pietro Germi. Alle origini del western italiano (Lauro Venturi)

Come “western all'italiana” o “spaghetti western” si designa la produzione cinematografica italiana degli anni Sessanta e Settanta del 900, il cui inizio è fatto risalire a Per un pugno di dollari di Sergio Leone e che ebbe come registi-autori, oltre allo stesso Leone, Massari, Corbucci e molti altri, dato il successo del genere. Si trattava di film ambientati nel West, ma con una particolare aura “italiana”, che è stata oggetto di molti studi. La mia impressione è che si trratti di una produzione tutt'altro che omogenea, non solo per qualità (ci sono pochi ottimi film, diversi buoni film e tanta robaccia), ma anche per le scelte tematiche e stilistiche; forse non sbagliano quanti vi hanno visto riflessi alcuni aspetti dell'ideologia e dell'immaginazione italiana.
L'operazione che Pietro Germi osò molti anni prima, nel 1949 con In nome della legge, era in qualche modo inversa: consisteva nell'utilizzazione sistematica dei moduli espressivi tipici del western Usa per il racconto di una storia italiana (o, più precisamente, siciliana). Il risultato è apprezzabile: un film di buona qualità, che però non ebbe successo e seguaci, anche se citazioni dal western non mancarono qua e là nel cinema italiano degli anni Cinquanta, perfino nei polpettoni sentimentali di Matarazzo. L'articolo qui “postato” mi pare, in ogni caso, esprimere un giudizio fondato e condivisibile anche a distanza di diversi decenni.
La fonte del testo è “Il Cittadino”, un foglio che si definiva “Settimanale dell'Italia Socialista”, diretto da Aldo Garosci e condiretto da Paolo Vittorelli, di cui uscirono pochissimi numeri nella primavera del 1949. Esso esprimeva la posizione di quei socialisti, spesso di provenienza “azionista”, che rifiutavano sia il governativismo di Saragat e, successivamente, di Romita, sia il frontismo di Nenni e Morandi. Tra le firme, oltre a quelle di Garosci e Vittorelli, si trovano quelle di Ignazio Silone, Ernesto Rossi, Carlo Levi, Enzo Forcella, Bruno Zevi, Ludovico Quaroni. Se ne può desumere che la qualità media degli articoli sia alta.
Dell'autore dell'articolo qui postato, Lauro Venturi, non ho trovato notizie in rete (c'è un omonimo - chissà, un nipote- nato nel 1956, autore di un romanzo sulla “crisi” e di saggi di sociologia economica, in particolare sui manager); io lo immagino strettamente imparentato con lo storico Franco Venturi, che era dello stesso milieu politico-culturale. Non so quale mestiere Lauro Venturi senior facesse nella vita, ma da questo articolo su Germi, acuto e profondo, mi pare che avesse i numeri per riuscire un eccellente critico cinematografico. (S.L.L.)
Alcuni mesi prima di iniziare la lavorazione del suo film In nome della Legge Pietro Germi ci diceva della sua intenzione di fare con questo film un western italiano, un film d'avventura che avrebbe seguito, per quanto riguarda l'impostazione e la narrazione della trama, le norme del film western americano. Germi è del parere che ci vuole molta storia per fare un film, e che la storia ne è forse il fattore principale. Ciò che attraeva particolarmente Germi verso l'impostazione western era la possibilità di creare una narrazione rapida, drammatica, che trovasse la sua ragione d'essere in sé stessa.
A tutto ciò Germi è riuscito, e ha persino sorpassato il proprio scopo. In nome della legge è un eccellente film d'avventura ma è sopratutto un eccellente film. Dello stampo americano rimangono varie tracce, quasi tutte rinnovate dalla visione e dalla sensibilità di Germi. L'arrivo del pretore al villaggio è degno di qualsiasi tradizionale arrivo del stagecoach; il barroom del West lo ritroviamo sotto forma di “Caffè e Tabacchi”; i cavalieri della mafia si profilano all'orizzonte di una collina come i loro prototipi pellirossa, e certi tipi siciliani sono stati scelti senza dubbio per la loro somiglianza con gli indiani d'America. La musica stessa del film, scritta da Carlo Rustichelli, ricorda le sue origini western, calcando l'azione con dei temi larghi come le praterie e persino un accenno alla chitarra, tradizionale in Sicilia come nel West.
Più profondamente western è il personaggio stesso del pretore, il quale deve essere coraggioso, nobile, puro in anima e in corpo come un boy-scout per aderire alle regole del gioco: come Wyatt Earp, eroe di Sfida infernale, questo pretore si dèdica alla missione pericolosa di fare rispettare la legge. Americano anche il maresciallo della polizia, aiuto e amico dello scheriff-pretore, personaggio al quale viene di solito affidato in America il comic-rrelief, le battute comiche. Ma anche questo è stato rinnovato da Germi, e diviene un personaggio umano, forse il più riuscito psicologicamente di tutto il film.
Deviazione importante dal concetto americano è il personaggio femminile, introdotto per dimostrare che il dovere è più importante dell'amore, rappresentato qui dalla moglie del barone. Maltrattata dal marito, si innamora del pretore ma viene poi abbandonata quando quest'ultimo si decide per il dovere. La moglie del barone prende il posto della maestrina o della cantante del western. Ha dovuto dispiacere a Germi non poter, per restare fedele alla materia, mettere nel suo film una qualche cantante, magari un can-can. E infatti la parte femminile ne risente. Le due scene d'amore (amore puro, ideale, come conviene ad un scheriff-cowboy) rallentano l'azione, la scoloriscono. Il tema non è stato interpretato qui con altrettanta schiettezza degli altri elementi del western che, come abbiamo detto, sono stati trasformati astutamente in elementi umani e validi da Germi.
In certe attitudini di fedeltà per il western, Germi è stato « plus royaliste que le roi ». Di recente, con Ford e Vidor come registi, il film western si era permesso delle innovazioni, ad esempio la creazione dell'atmosfera e dell'ambiente con elementi visivi estranei alla storia: basta ricordare i mille giochi di luce di Sfida Infernale, nel quale l'operatore Toland non si lasciava mai sfuggire l'occasione di compiacersi sulle superfici, sia del deserto che della pelle degli attori (ad esempio Linda Darnell ferita). Ed era diventato tradizionale il cantante seduto sugli scalini di legno del postoffice che ci dava un trenta secondi melodici prima che l'azione riprendesse. Tutto ciò Germi non si permette, per non fare deviare la narrazione, e questa sarebbe l'unica vera critica che gli si potrebbe fare. Eppure, se egli non ha trovato una poesia, l'atmosfera penetra nel film lo stesso e ne allarga lo scopo. I paesaggi bianchissimi che si direbbero ricoperti di neve (opera esperta dell'operatore Leonida Barboni), il villaggio denudato che appare pesantemente ostile al pretore, come i suoi abitanti seduti immobili su scalini di pietra, e sopratutto quelle straordinarie facce della popolazione locale, danno a tutto il film quel suo carattere di verità e di vita intensa.
Malgrado la sua intima parentela col western, In nome della legge riesce italiano. Italiana sopratutto è la soluzione finale del film: invece del duello all'alba, la sparatoria che fa tremare la ragazza e elimina il nemico, In nome della legge risolve l'azione con un discorso, drammatico quanto si vuole, ma un discorso, una lettera aperta ai banditi, alla quale i banditi rispondono con un gesto nobile che li salva agli occhi della legge. Italiano anche tutto l'elemento della gelosia di una donna per uno dei banditi, e l'amore dei due bambini nella cascina, il tutto risolto con delicatezza e senza l'esuberanza siciliana. Basta confrontare una battuta come «bacio le mani», in Anni Difficili di Zampa con un «bacio le mani», di Germi per rendersi conto della superficialità di Anni Difficili e dell'energia veristica e umana di In nome della legge.
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Tutto ciò mostra che Germi ha una visione immediata e schietta e cinematografica, che sa risolvere i problemi di messa in scena e di inquadratura non soltanto dal punto di vista della narrazione dei fatti, ciò che lui considera cosi importante, ma bensì di una personale maniera di narrare questi fatti, non in sottomissione alla trama, ma piegando la storia all'arte cinematografica.
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Contemporaneamente è uscito un libro appunto sul film western (Antonio Chiattone, Il film western, Poligono Editore,1949) nel quale l'autore tenta di tracciare una storia del « genere ». Questo libro non è un'analisi della formula ormai stereotipata del tipo western, è una storia vera e propria del genere (arbitraria la scelta dei film menzionati, e grosse le omissioni, ad esempio Texas Rangers e Dastry Rides Again). E' un saggio sulle trasformazioni avvenute al personaggio tipico del cowboy attraverso le sue varie interpretazioni, da quella «originale» di Broncho Billy nel Great Train Robbery del 1908 a quella del cantante Roy Rogers nel tipo western musicale di oggi.
Risultato concreto di lunghe ricerche di materiale fotografico e storico, e di una vera passione del Chiattone per il genere western, il libro non ci risparmia certe confusioni (come a pagina 113: Make-up non ha mai significato costume o decorazione ma soltanto trucco), e non ci da veramente mai la sensazione che, come lo mantiene l'autore, il film western sia una forma spontanea di divertimento popolare comparabile alla Commedia dell'Arte. Migliore degli altri capitoli è quello sul cavallo, accenno quasi poetico sull'importanza rappresentativa del cavallo come compagno fedele dell'eroe. Impuntatosi nell'essere il più completo possibile storicamente, il Chiattone non accenna neppure a quelle leggi di pubblico che governano il film western, seguendo le quali un mezzo scandalo fu causato di recente in America. Un cowboy (Rogers o Autry) osò alla fine di un film baciare la protagonista. Le masse di giovani spettatori protestarono, e il finale fu cambiato: ora il cowboy alla fine del film bacia il suo cavallo.


“Il Cittadino. Settimanale dell'Italia Socialista”, Anno I n.1 20 aprile 1949

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