Il testo qui postato nasce come recensione di una bella mostra recanatese del 1996, ma, anche fuori dal contesto, mi pare un contributo utile. (S.L.L.)
Il cielo, la luna, le
stelle: i fondali del rapimento romantico sono tra gli stereotipi più
duri a morire quanto al senso comune, scolastico, delle letture
leopardiane. Eppure nulla gli è più lontano della tenebra d'un
Novalis o anche della fatal quiete (presagio di morte e
redenzione) d'un Foscolo. Intanto perché il giovane Giacomo, fra i
tredici e i diciassette anni, è avvezzo a scrutare il firmamento non
con la svagatezza del sentimento puramente poetico ma con l'occhio
asciutto e quasi clinico dell'erudiziene scientifica.
La Storia
dell'astronomia (1814) e il Saggio sugli errori popolari degli
antichi (1815) sono il frutto precoce di quanto può offrire alla
sua voracità la diseguale e fornitissima biblioteca del padre
Mo-naldo, certo immune dagli influssi miscredenti della Enciclopedia
ma abitata, alla stregua di un fiume sotterraneo, dai campioni del
razionalismo antico e moderno, Democrito, Euclide, Cartesio,
Copernico, Newton e Galileo. E di quelle pagine, vagamente
addomesticate retorica codina di Monaldo, che si ciba l'indocile
primogenito ed è ciò che testimonia oggi Giacomo e la Scienza
una mostra documentaria dal taglio sobrio e divulgativo ma utile a
ricostruire la radice intellettuale forse più remota del massimo
poeta-filosofo dell'età moderna. Che non volle essere e non fu a
rigore uno scienziato (come nel catalogo, a vario titolo, concordano
i contributi di Foschi, Lunazzi, Morelli, Vetrano e Zampieri) ma di
paradigmi scientifici, in concomitanza con le immaginose metafore,
nutrì per sempre il suo pensiero.
Esperienza del
limite
In altri termini nelle
dissertazioni giovanili sulla gravita, i fluidi elastici, la luce,
l'elettricismo e sull'astronomia (cui presto seguirà l'omonima
Storia) si celano, zavorrati da un mare di dottrina e
citazioni canoniche, i germi di una riflessione autonoma, persino gli
archetipi della critica al geocentrismo e all'antropocentrismo che
anima la prosa delle Operette e dello Zibaldone insieme
con i versi incandescenti della poesia matura, specie La ginestra.
Nella struggente
semplicità dei cimeli esposti (dal tubo di Newton alla pompa da
vuoto, dagli emisferi di Magdeburgo ai parafulmini, dalla sfera di
Coulomb al galvanometro portatile di Nobili) a volte così belli da
pensarli dei balocchi di lusso voluti per lui ed il fratello Carlo
dal furore pedagogico di Monaldo, si cifra comunque lo slancio a
cogliere e geometrizzare il segreto della natura ma, nello stesso
tempo, a sentirne la distanza, il residuo di incombenza e
indifferenza che, ad esempio, si esprimerà di lì a pochi anni nel
Dialogo della Natura e di un Islandese: «Immaginavi tu forse
che il mondo fosse fatto per la causa vostra? Ora sappi che nelle
fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime,
sempre ebbi io ed ho intenzione a tutt'altro che alla felicità degli
uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e
con qual si sia mezzo, io non me ne avveggo; se non rarissime volte;
come, ordinariamente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so, e
non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle
tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, anche se mi
avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne
avvedrei. »
Nessuno di quegli
alambicchi, cioè, potrà mai misurare l'esperienza soggettiva del
limite, che è il medesimo e doloroso limite della conoscenza umana:
la fatica, il venir meno del piacere, il senso della finitezza che
esplode nel male fisico e nella consapevolezza del morire, vale a
dire i futuri referenti della poesia leopardiana, sottratti alla
frontiera delle scienze e riattivati appunto nell'immaginario
poetico, il caro immaginar, per dirla con una sua stessa espressione.
«Leopardi — scrive al
riguardo Italo Calvino - parte dal rigore astratto dell'idea
matematica di spazio e di tempo e lo confronta con l'indefinito, vago
fluttuare delle sensazioni». Già nel celeberrimo idillio giovanile
l'infinito è nient'altro che il non-definito, quel che il limite
spazio-temporale non riesce a imprigionare, l'assoluto oltre che la
ragione umiliata non può che affidare alla finzione, ad un'ipotesi
costruttiva, al combinato disposto di sensi e memoria. Dunque al
calore vitalizzante dei versi sprigionati di là dal gelo delle nude
matematiche.
L'alambicco della
natura
«La conclusione di
questo viaggio ulteriore - nota Flavio Vetrario nel saggio annesso al
catalogo - è per il Leopardi una riconsiderazione non del valore
teoretico della scienza, ma del valore esistenziale della conoscenza
in sé». Che infatti non viene mai negata (anzi è alla fine
rilanciata con foga illuminista contro ogni credo religioso e le
fumisterie romantiche) ma semmai è relativizzata, ricondotta alla
costitutiva infermità dell'uomo, ancora una volta ai limiti di
spazio e tempo (di storia e natura) in cui si iscrive l'attività del
pensare.
Leopardi è davvero un
figlio dell'era copernicana e galileana; perciò coglie se stesso al
margine di un universo disertato dagli dèi, tanto esteso da far
apparire la terra un punto di luce nebulosa e insensata la pretesa
dell'uomo di chiamare destino il suo semplice (stupendo proprio
perché gratuito) trapassare. Se non ancora consapevolmente ateo, il
giovane Giacomo, alle prese coi domestici strumenti delle scienze,
appare sulla strada che lo condurrà ad un radicale materialismo.
Lontano dai gabinetti
scientifici alla moda, recluso e persino assediato dai tomi di una
biblioteca controriformista, ha tuttavia la vista più acuta dei suoi
contemporanei. Sa che la vita trova senso nella conoscenza,
nell'entusiasmo e nello sgomento che produce la parzialità del
sapere umano, vero ma rischioso, sempre deperibile e oscurabile sia
nella secchezza delle proposizioni matematiche sia negli aloni del
segno poetico; sa, soprattutto, che l'orizzonte dell'uomo è la
mortalità e che per lui è impronunciabile la parola eterno.
Le nuove creature
Eterna è invece la
materia, tremenda e insieme luminosa come lo sono gli impulsi che
attiva in tutti gli esseri viventi. Scriverà nella più essenziale
delle Operette, il Frammento apocrifo di Sfratane di Lampsaco: «Le
cose materiali, siccome elle periscono tutte ed hanno fine, così
tutte ebbero incominciamento. Ma la materia stessa niuno
incominciamento ebbe, cioè a dire che ella è per sua propria forza
ab eterno. (...) Venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le
stelle, ma non la materia loro, si formeranno di questa nuove
creature, distinte in nuovi generi e nuove specie, e nasceranno per
le forze eterne della materia nuovi ordini delle cose e un nuovo
mondo...».
La lettura o rilettura di
pagine come queste, di penetrante attualità, potrebbe essere un buon
viatico alla mostra recanatese.
il manifesto, 2 agosto
1996
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