Maximilien Robespierre in un disegno di Tullio Pericoli |
Danton, la mano sul petto, urla alle
armi dalla sua statua sul boulevard come La Marsigliese
sull'Arc de Triomphe; Robespierre non ha, a Parigi, né pietra né
parola. Allo Hotel de Noubise, c'è solo il foglio con la sua firma
interrotta da una macchia color ruggine, il sangue del tentato
suicidio, nella notte del 28 luglio 1794. In quella straordinaria
lezione di anatomia ossea che è la storia della Rivoluzione, se si
fosse attenti alla nozione disusata di contraddizione dialettica, si
cercherebbe di far capire ai giovani perché gli operai e gli
artigiani furono relativamente indifferenti alla caduta di
Robespierre. Rileggo nel vecchio Mathiéz: «I termidoriani,
prigionieri della reazione, saranno presto trascinati più lontano di
quanto credevano e molti di loro si pentiranno nella loro vecchiaia
di aver partecipato al 9 termidoro. Uccidendo Robespierre, essi
avevano ucciso, per un secolo, la Repubblica democratica. Robespierre
fu un esempio memorabile dei limiti della volontà umana alle prese
con la resistenza delle cose».
Apro i giornali, accendo la Tv. Quante
facce di nostri piccoli termidoriani di una rivoluzione inesistente.
E i comunisti che si vergognano di Lenin, ossequiosi ai distinguo
delle anime belle liberali. Almeno, il vescovo dei Miserabili
si inginocchiava davanti al vegliardo giacobino e "regicida";
almeno c'era un Hugo per immaginarlo e per scriverlo.
Non ho da vergognarmi di avere appreso,
con la emozione di un ragazzo piccolo borghese, negli anni del
delitto Matteotti, a conoscere Robespierre dalle pagine di Michelet e
dai versi del Carducci. Non solo il fulminante alternarsi ritmico di
polisillabi rallentati e di monosillabi secanti, che dice una verità
non solo lirica: «decapitare Immanuel Kant Iddio/ Massimiliano
Robespierre il re». Ma l'altro passo, dove si dice come «quel che
dall'avvenir salìa/ d'orror fremito udì Massimiliàn» che, come il
falciatore «gli occhi ebbe al cielo e al lavor la man». Rida chi
vuole. Quel fremito d'orrore non è solo per gli eccidi del Terrore
ma per quelli degli eserciti dell'Impero e ripetuti assassinii, nello
scorso come nel nostro secolo, delle Repubbliche democratiche.
Robespierre cadde per i decreti di
Ventoso (marzo 1794), ossia per il progetto di confisca dei beni dei
nemici della rivoluzione e della loro distribuzione gratuita al
proletariato rivoluzionario. Le "leggi agrarie" atterrirono
ben più della ghigliottina. Era uno sguardo al di là di ogni realtà
possibile. Saint-Just e Robespierre avanzavano come le kantiane «idee
della ragione», nel vuoto. Dovevano cadere. Ma da quel punto
sarebbero venute l'estate del 1848, la primavera del 1871, l'aprile e
l'ottobre del 1917, le guerre di liberazione anticolonialista; e
anche, nonostante tutto, l'oggi che ci ostiniamo a rimuovere. Ogni
rivoluzione, prima di venir travolta, si accende per un attimo a
illuminare le ragioni di quella ventura. Così fu con Lenin e con
Mao. E forse accade ad ogni singola esistenza. A te che ora sorridi;
e a me. Questo, e null'altro, mi dice il nome di Robespierre, se lo
pronuncio.
L'Espresso, gennaio 1989, Supplemento
Il terrore e la libertà, primo
di due fascicoli dedicati alla Rivoluzione Francese.
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