7.10.14

Forma racconto. La tradizione americana. Intervista a Masolino D'Amico (Angelo Mainardi)

La sezione letteraria di “MondOperaio” nel n.8-9 del 1988 (direzione Pellicani) fu in gran parte dedicata a un dossier sulla “forma racconto”, sulla sua specificità rispetto al romanzo, sulle ragioni di quella che al tempo sembrava una rinascita. Il dossier contiene articoli e interviste a scrittori, critici, editori. Qui riprendo un'intervista a Masolino D'Amico sul racconto negli Usa, il cui successo e la cui evoluzione egli fa risalire a ragioni di organizzazione del lavoro, di industria editoriale. (S.L.L.)
Hemingway e Scott Fitzgerald
Da sempre il racconto ha goduto in America di una larga diffusione e popolarità. Probabilmente all'origine di questo fenomeno esistono complesse ragioni di sociologia letteraria, ma sappiamo che operano anche condizioni di tipo pratico (per esempio iniziative a livello editoriale e universitario) che favoriscono il rapporto tra pubblico e racconto.
Storicamente gli americani hanno una grande tradizione del racconto proprio come genere commerciale. Agli scrittori degli anni venti venivano richiesti soprattutto racconti; c'erano riviste che tiravano centinaia di migliaia di copie e che potevano perciò pagare moltissimo l'autore d'un racconto. Paradossalmente si guadagnava di più scrivendo racconti per queste riviste che romanzi per un editore. Scott Fitzgerald è diventato ricchissimo scrivendo racconti, anzi è stato tenuto lontano dal romanzo proprio perché trovava più lucroso scrivere racconti. Hemingway è uno scrittore di racconti, ha scritto pochissimi romanzi e questi sono sempre dei racconti dilatati; in realtà la sua misura è quella del racconto, le sue grandi prove appartengono a questa forma letteraria. Quindi lo scrittore americano per molto tempo s'è formato in questo modo. Poi questo modo di leggere è tramontato: le grandi committenti che erano le riviste hanno cessato di esistere o di fare richieste di racconti. Ne sono rimaste poche, soprattutto il «Newyorker» che esiste ancora oggi e rimane una vetrina molto prestigiosa. Sono invece cominciate le grandi tirature della narrativa in romanzo, il pubblico è stato orientato a chiedere romanzi e quindi gli scrittori americani sono passati obbedientemente a fornire romanzi. Non che il racconto sia mai cessato, ma per molti anni gli editori hanno scoraggiato gli autori di racconti; l'antologia di racconti appariva come un prodotto che non aveva le stesse prospettive di vendita del romanzo. Da qualche anno a questa parte si verifica, se non un'inversione di tendenza, un grande ritorno del racconto.

Quale può essere il motivo, o il complesso di motivi, che spiega per il mercato americano questo ritorno del racconto?
Ci sono varie teorie in proposito. Spesso si dice che, siccome gli americani sono ormai abituati a guardare la televisione, e la televisione esige uno sforzo di concentrazione molto minore della lettura, non sono più propensi a fare un grosso impiego intellettuale e chiedono una lettura breve. D'altra parte questa produzione coesiste con quei romanzi enormi che l'editoria continua a sfornare. Insomma, sembra che al lettore si debba dare o un enorme volume ch'egli leggerà per un anno intero portandolo avanti e indietro sul trenino mentre va al lavoro, oppure una narrativa in pillole che si esaurisce in una sola seduta di lettura.
La seconda ragione della diffusione del racconto è che, essendo il mestiere dello scrittore diventato un mestiere abbastanza richiesto, sono proliferate nelle università le cattedre di cosiddetta «scrittura creativa», molto spesso tenute da scrittori, che insegnano ai giovani a scrivere narrativa. E' inevitabile che un insegnamento del genere produca racconti piuttosto che romanzi, per ragioni ovvie: perché un racconto può essere seguito agevolmente da parte dell'insegnante, può essere presentato a breve scadenza dall'allievo come compito a casa, e perché per esso è più facile proporre un modello. Naturalmente gli allievi sono stati incoraggiati (ed è una grande costante della narrativa americana) a seguire un certo realismo, a parlare di esperienze vissute, a guardare dentro di sé; quindi in queste scuole di scrittura molto spesso la realtà è vista da vicino. Gli insegnanti intervengono sugli studenti soprattutto nel senso di tagliare, comprimere; e molti giovani scrittori vengono fuori proprio dal lavoro di riduzione a cui sono sottoposti.
Codicillo molto importante di questo fenomeno: le università producono scrittori di racconti e poi questi scrittori pubblicano con le case editrici universitarie. Ora succede che gli editori commerciali trovino molto caro produrre un libro e lanciarlo, e abbiano bisogno per saggiare un nuovo gusto di una palestra sperimentale che l'università fornisce, e la fornisce con i soldi che dovrebbero andare alla ricerca accademica e alle pubblicazioni scientifiche. Le università americane hanno proprie case editrici e propri finanziamenti. Non va dimenticato che in America non esiste quasi denaro pubblico, tutto nasce dall'iniziativa privata e per fini commerciali. Però ci sono le case editrici universitarie che non hanno fini di lucro e che dispongono di donazioni di privati o di altri finanziamenti: queste case universitarie, così come pubblicano meritoriamente opere scientifiche annotate che sono destinate a durare, si sono messe anche a pubblicare i racconti dei loro migliori studenti. Esse hanno veramente la possibilità di fare quegli esperimenti che gli editori commerciali non potrebbero fare: possono pubblicare in perdita, possono tenere un libro in catalogo per anni mentre l'editore commerciale, se un libro non va, lo manda al macero dopo poche settimane. Così si può senza fretta vedere se un libro «incontra»: tante volte un libro, specialmente di un nuovo scrittore, non colpisce al momento l'attenzione, però poi si crea una reputazione, cominciano a uscire recensioni; e allora ecco che, magari dopo due anni di circolazione sotterranea, il nuovo scrittore venuto dalla scuola di un'università viene notato dal grande editore, il quale a quel punto è disposto a rischiare e rileva il libro dalla casa editrice universitaria che quindi ne ricava un utile. Sta di fatto che moltissimi dei nuovi scrittori americani cosiddetti «minimalisti» provengono proprio da questa formazione: sono giovani che hanno frequentato le scuole di «scrittura creativa», hanno un maestro alle spalle e hanno avuto la possibilità di un incontro col pubblico protetto dall'istituzione accademica. Per questa via si è dimostrato che esisteva un pubblico anche per il racconto. Allora sono stati recuperati scrittori che erano passati quasi inosservati vent'anni fa. E' il caso di Raymond Carver, considerato il maestro degli scrittori minimalisti, il loro precursore. Inoltre vengono raccolti in volume (cosa che prima non accadeva) gli scrittori del «Newyorker». Direi dunque che in America ci sono tutti questi fenomeni dietro il revival del racconto, che indubbiamente oggi è molto vistoso.

Quindi il racconto in America ha una funzione di selezione degli scrittori; d'altra parte esiste un pubblico preparato a questo tipo dì proposta. Al di là di contingenze più recenti, probabilmente qualcosa che risale non solo agli inizi del Novecento ma addirittura all'Ottocento predisponeva la figura del lettore americano alla fruizione della forma particolare di narrativa che è il racconto. Dovremmo esaminare la specificità della forma racconto, che è in fondo una costruzione del tutto diversa dal romanzo e che richiede — al di là dei tempi di lettura — un diverso rapporto tra immaginazione del lettore e rappresentazione della realtà. Che cosa potrebbe esserci dunque, nell'ambiente americano, alla base di questa propensione?
Direi che c'è proprio la tradizione degli americani. Tutti i narratori americani sono autori di racconti. Anzi, a proposito di questo famoso grande romanzo americano, che nessuno sa quale sia, si può dire che tutti coloro i quali non sono disposti a riconoscere i titoli di grande romanzo neppure al Moby Dick di Melville immediatamente possono citare poi racconti americani che sono senza dubbio meravigliosi: da Faulkner a Edgar Allan Poe, allo stesso Melville, a Hawthorne. Tutti hanno sempre scritto racconti. Difficile dire perché. Certo il racconto è completamente diverso dal romanzo. In un libro dedicato a D.H. Lawrence romanziere, Anthony Burgess è costretto a occuparsi anche di certi racconti e a denti stretti ad ammettere che sono molto belli, molto interessanti. Ma a un certo punto osserva: non capisco perché si scrivano racconti, si fa una tale fatica a impostare una situazione, a creare un ambiente, che quando questo è stato fatto conviene scrivere un romanzo. Cioè, dal punto di vista dell'artigiano, Burgess trova che è uno sforzo esagerato per un racconto. Ora sta di fatto che questo tipo di sforzo breve ma molto intenso lo scrittore americano l'ha sempre prodotto. D'altra parte direi che nell'attuale revival del racconto c'è anche un immiserimen-to della tradizione, perché i racconti proposti oggi sono in generale soltanto una parte di ciò che si potrebbe fare con il racconto. I minimalisti hanno un limitato orizzonte, parlano di limitate esperienze, non corrono rischi; e di questo vengono accusati dagli scrittori più anziani, che magari saranno anche un po' invidiosi del loro facile successo.
Ma insomma è vero che questi giovani scrivono dei raccontini sulle loro prime vacanze dal college oppure sulle prime esperienze con la droga, il che può essere più o meno interessante, però non danno la sensazione di aver altro da dire; e il richiamarsi a Hemingway come loro grande maestro di brevità veramente suona quasi blasfemo, perché dietro a Hemingway c'era un retroterra colossale di esperienza. Non dico che uno scrittore debba avere necessariamente una vita avventurosa per scrivere dei bei racconti, però deve avere almeno una vita intcriore intensa. Questi giovani, avendo fatto un po' di scuola, hanno imparato a mettere insieme una piccola costruzione narrativa. Ma uno scrittore deve avere un altro respiro per durare, e perciò è difficile che questi giovani possano durare. Invece nella tradizióne del racconto americano c'è molto di più. C'è quella costante del realismo che è sempre presente nella letteratura americana, e c'è anche l'opposto del realismo, cioè la fuga dal realismo che è un'altra costante degli scrittori americani. In Poe, in Melville, è presente il delirio, il rischio. I giovani scrittori al contrario non escono dal piccolo terreno che si sono tracciati.

Anche il richiamo a Raymond Carver quanto è giustificato? Carver è uno scrittore più complesso, dà una rappresentazione della realtà sociale molto più articolata.
Infatti Carver ha ben altro background. E' un uomo che si è fatto da sé, ha vissuto esperienze estreme, è stato alcolizzato, insomma un uomo che ha tirato i suoi racconti fuori dalle sue viscere, anzi: essi sono stati per lui un sistema per venire a patti con l'esistenza, per accettarla. Dietro al racconto di Carver, che si veda o no sulla superficie, c'è tutta un'esperienza di vita che ha ben altra densità rispetto a questi epigoni. In altre parole, per un ragazzo intelligente è certamente facile scimmiottare un maestro e fare un buon raccontino, certamente è più facile che fare un lungo romanzo perché risulta più agevole mantenere il controllo della materia in una breve narrazione. E infatti molti di questi scrittori-prodigio sono autori di romanzi che sono stati poi tagliati fino a diventare racconti.

Il racconto americano presenta una sua fisionomia specifica. Se leggiamo un racconto di Faulkner o di Bellow o di Hemingway, ciò che ci colpisce accanto alla ricchezza di esperienza del narratore, alla sua dimensione sociale, è anche una capacità metaforica, la capacità di fare di quel caso singolo un simbolo dell'esistenza. Forse questo caricare il racconto di tutta la sua capacità espressiva potrebbe essere una delle chiavi per spiegare la popolarità del racconto americano.
Io credo che la forma del racconto americano sia stata determinata dalla sua collocazione nei giornali. Il pubblico americano è stato un pubblico di lettori di giornali, di periodici. Ora gli scrittori, come tutti gli artisti, funzionano bene quando hanno limiti molto precisi. Se a Michelangelo assegno un certo blocco di marmo, con ciò stesso ho eliminato per lui una serie di distrazioni. Quando in Italia si scrivevano gli elzeviri di terza pagina ai quali era assegnata una ben precisa misura, molto spesso gli autori inventavano cose bellissime entro questo limite. Per lo scrittore di romanzo diventa molto importante il controllo che riesce a esercitare su se stesso, e questa paradossalmente è stata una delle grandi difficoltà per gli scrittori americani. Gli americani, forse per l'assenza d'una severa tradizione, hanno sempre trovato difficile controllare la grande opera, mentre invece all'interno d'una misura precisa si rivelano molto più a loro agio. Prendiamo uno scrittore minore ma incantevole come O Henry, che per tutta la vita ha scritto racconti lunghi sei «cartelle» perché così gli richiedeva la collocazione sul giornale e alla fine è diventato perfetto in quella misura. Credo che ci siano dunque queste due ragioni: da una parte l'estrema larghezza o sconfinatezza del contesto in cui gli scrittori americani si muovono, senza un centro, un'accademia, un milieu letterario, con la conseguenza quindi d'una mancanza di controlli e della tentazione di tracimare da tutte le parti; dal lato opposto, la presenza invece nel genere racconto di un'esigenza di mantenersi entro limiti molto rigidi, per un certo committente, con una certa data di consegna, con un certo pubblico che si avverte molto perché influisce sulle tirature, e allora gli scrittori rassicurati da questo limite hanno dato molto spesso il meglio di sé. Insomma, il tipico scrittore americano può anche essere considerato un Thomas Wolfe che portò all'editore migliaia di pagine e poi trovò quel genio che era Maxwell Perkins il quale si mise a tagliare e tagliare e le ridusse a ottocento traendone un capolavoro. Oggi sono stati ricostruiti tutti gli interventi di questo editor sul testò originale di Wolfe, e si è visto che esso era un fiume, un torrente straripante. In altre parole, siccome l'America non ha alle spalle una tradizione, ogni caso è individuale; compare il genio sregolato che molto difficilmente trova in sé il modo di controllarsi e che ha bisogno di un editore che gl'imponga un limite. La forma racconto ha avuto in America tanto successo proprio perché ha dato allo scrittore il modo di avere dei limiti, e dentro quei limiti egli s'è sentito rassicurato e ha potuto agire paradossalmente con molta più libertà.

Qual è in America l'atteggiamento della critica più qualificata verso il racconto?
La critica segue la letteratura con attenzione ai singoli scrittori, senza distinguere tra romanzo e racconto. Oggi il revival del racconto è stato accolto molto favorevolmente. E' difficile capire quanto ci sia di operazione commerciale dietro questo fenomeno: certamente gli editori sono stati incoraggiati a proporre i giovani autori di racconti, e certamente la critica li ha seguiti con molta simpatia e attenzione, forse anche un po' esagerata. Quindi direi che la critica è stata solidale con la nuova generazione letteraria: il successo di questa non è avvenuto a dispetto della critica. Anzi, la critica li ha elogiati anche troppo, e adesso semmai si assiste a un ridimensionamento degli elogi.

MondOperaio, Rivista mensile del Partito Socialista Italiano, agosto-settembre 1988

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