Carmelo Musumeci,
ergastolano, da almeno un decennio ha cominciato, con i pochissimi
mezzi che la condizione carceraria offre, una battaglia per
l'abolizione dell'ergastolo, che considera come concetto un
aggravamento della sofferenza della detenzione. Quando cominciò era
ristretto nel carcere di Moiano a Spoleto, ora è a Padova, ove ha
collaborato ad alcuni progetti di educazione e rieducazione.
L'articolo qui postato è apparso su un mensile anarchico. (S.L.L.)
Durante il progetto
“Scuola-Carcere” la domanda che ci fanno più spesso i ragazzi è
come trascorriamo la giornata. Ed è la domanda che ci mette più in
difficoltà perché non è facile descrivere il nulla. Poi ognuno di
noi si gestisce la giornata come vuole, io leggo, scrivo, sogno,
m'incazzo, penso, insomma, cerco di vivere. E soprattutto, nonostante
che sono passati tanti anni, tutte le mattine quando mi sveglio mi
meraviglio sempre di trovarmi in una cella poiché quando incominci
ad abituarti a vivere in carcere hai perso per sempre la libertà. La
mia giornata tipo si può riassumere in poche righe perché in
carcere più che vivere s'immagina di stare al mondo. E un
ergastolano per tentare di vivere deve imparare a saper morire. Io
inizio a morire appena mi sveglio al mattino. Normalmente mi alzo
all'alba. Non mi alzo subito. Sto un po' abbracciato al mio cuore. E
di prima mattina inizio a ricordargli che è inutile che si danni
l'anima perché non possiamo farci niente perché la nostra
situazione non può cambiare. Poi, all'improvviso, quasi per smettere
di pensare, mi alzo dalla branda. E inizio la mia giornata. Accendo
la televisione. Ascolto il primo telegiornale del giorno. Bevo un
bicchiere d'acqua. Mangio una mela. Metto la caffettiera sul
fornellino. Bevo il caffè. E inizio a lavarmi i denti. La barba me
la faccio ogni tre giorni. Faccio le pulizie in cella. E poi mentre
aspetto l'apertura dei cancelli, mi metto a passeggiare. Tre passi
avanti e tre indietro. E osservo la mia cella. C'è poco: due brande,
una sopra l'altra, un tavolino, uno sgabello e un paio di stipetti
attaccati alle pareti. Poi guardo i sorrisi delle foto attaccate in
una parete dei miei due nipotini. I muri odorano di muffa, umidità e
cemento armato. Invece le sbarre della finestra, il cancello e il
blindato, puzzano di ferro. Il soffitto è giallo, il colore della
nicotina. Alle otto e mezzo scendo nella redazione di “Ristretti
Orizzonti”. È il posto più bello del carcere, dove mi sento meno
prigioniero, leggo la “Rassegna Stampa” si discute, ci si
confronta e s'incontrano gli studenti del progetto “Scuola-Carcere”.
Il pomeriggio rientro in cella. Accendo la radiolina. Ascolto un po'
di musica. E inizio a rispondere alle numerose lettere che ricevo.
Alle sette e mezzo di sera chiudono il cancello della mia tomba.
Pochi sanno che quando una guardia gira la chiave di una serratura di
un cancello di una cella è come se girasse un coltello nel cuore di
un detenuto. Accosto il blindato per avere un po' d'intimità. In
carcere siamo circondati da tante persone, ma in realtà spesso siamo
solo con noi stessi perché la solitudine è la nostra unica
compagnia. Inizio a cucinarmi qualcosa perché quello che passa
l'amministrazione spesso è insufficiente e immangiabile. Poi accendo
la televisione per ascoltare i telegiornali, per sapere cosa accade
nel mondo dei vivi. Se non c'è niente d'interessante, spengo la
televisione e mi metto a leggere, a scrivere e a parlare con me
stesso. Mi piace soprattutto leggere e scrivere. I libri che leggo mi
servono per segare le sbarre della mia finestra, quelli che scrivo
per scavalcare il muro di cinta. Intanto si fanno le undici di sera.
E il mio cuore mi avvisa che mi aspetta un'altra notte da
ergastolano. Spengo la luce. Mi metto a letto. Di notte gli
ergastolani si accorgono di più di quanto si è infelici. Soli. E
smarriti. La notte è l'ora del dolore. Ed è il momento più brutto
della giornata.
Dei sogni persi. Quando
non riesco a dormire subito, mi alzo dalla branda. E mi metto a
passeggiare nella cella da una parete all'altra verso il nulla. Ogni
tanto mi affaccio dalle sbarre della finestra per vedere se nel cielo
ci sono le stelle. E se c'è la luna. Spesso afferro le sbarre con le
mani. Le stringo con tutta la mia forza per vedere se riesco a
spezzarle. Non ci riesco e allora ritorno nella branda.
Intanto s'è fatta la
mezzanotte e dico le ultime parole al mio cuore: Sogna anche per me
un fine pena e per una volta accontentami. E se non puoi farlo,
smetti di battere, perché solo tu puoi darmi la libertà perché
domani inizierà tutto da capo. Sarà peggiore di oggi. E sarà così
per il resto dei miei giorni. Poi mi addormento perché non posso
fare altro.
“A – Rivista
Anarchica” - Anno 44 n.393 – novembre 2014
3 commenti:
Almeno la semilibertà l'hai ottenuta. Chi hai ammazzato, non potrà disporre neppure di quella, oltre ad aver condannato all'ergastolo i cuori e l'emotività dei parenti della vittima.
Sono d"accordo con te,doveva pensarci prima e" inutile fare la vittima le vere vitime sono quelle che giacciono sotto terra per mano sua.....
Tante parole belle ! Bisogna vedere i reati
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