Il testo che segue è l'incipit di un libro importante, L'Orologio di Carlo Levi, pubblicato nel 1950 ed ambientato nel 1945, in quell'autunno nel quale, con la caduta del governo Parri, sembravano venire meno le speranze di una palingenesi democratica dell'Italia, che erano state alimentate dalla Resistenza. L'attacco che qui si legge, lirico nella tematica (i suoni della notte), mostra nello stesso tempo l'aspirazione a un'epica coralità. A me sembra assai bello, anche a prescindere dal libro cui dà inizio. (S.L.L.)
La notte, a Roma, par di sentire
ruggire leoni. Un mormorio indistinto è il respiro della città, fra
le sue cupole nere e i colli lontani, nell'ombra qua e là
scintillante; e a tratti un rumore roco di sirene, come se il mare
fosse vicino, e dal porto partissero navi per chissà quali
orizzonti. E poi quel suono, insieme vago e selvatico, crudele ma non
privo di una strana dolcezza, il ruggito dei leoni, nel deserto
notturno delle case.
Non ho mai capito che cosa producesse
quel rumore. Forse invisibili officine, o motori di automobili sulle
salite? O forse il suono nasce, più che da un fatto presente, dal
fondo profondo della memoria, quando fra il Tevere e i boschi, sulle
pendici solitarie, si aggiravano le belve, e le lupe allattavano
ancora i fanciulli abbandonati?
Tendevo l'orecchio ad ascoltare, e
scrutavo nel buio, sopra i tetti e le altane, in quel mondo
pullulante di ombre; e il suono penetrava in me come un'immagine
infantile, spaventosa, commovente ed arcana, legata a un altro tempo.
Anche nato da macchine è un suono animalesco, che par venire da
viscere nascoste o da gole aperte invano a cercare una parola
impossibile. Non è il suono metallico dei tram notturni nelle curve,
lo stridere lungo e eccitante dei tram di Torino, grido dolente ma
fiducioso di quelle notti operaie nell'aria fredda e vuota. È un
rumore pieno d'ozio, come uno sbadiglio belluino, indeterminato e
terribile.
Lo si sente da tutte le parti della
città. Lo avevo ascoltato In prima volta, tanti anni or sono,
penetrare dalle inferriate di una cella di Regina Coeli, insieme agli
urli dei malati e dei pazzi dell'infermeria, e a un lontano battere
di ferri; pareva allora il respiro di quella libertà misteriosa che
pur doveva esistere, fuori. E lo ascoltavo ora, pochi mesi dopo la
liberazione, da una stanza alta su via Gregoriana, porto effimero e
provvisorio, in quei tempi di mutamenti, secondo che ci conduceva,
qua e là, un provvidenziale destino.
Carlo Levi, L'Orologio, Einaudi, I edizione nei Supercoralli, 1974
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