Gruppo del Laocoonte, Musei Vaticani |
Un giorno di gennaio del
1506, papa Giulio II mandò un palafreniere da Giuliano da Sangallo.
Lo avevano informato che nella vigna di Felice de Fredis, presso
Santa Maria Maggiore, durante uno scavo casuale s' era trovato un
gruppo marmoreo imponente: andasse subito a vedere di che si
trattava. In quel momento, in casa del Sangallo c'era Michelangelo; i
due si avviarono insieme verso il luogo del ritrovamento, il piccolo
Francesco (che raccontò il fatto in una lettera, molti anni dopo) in
groppa al padre. Quando si trovarono davanti alla fossa, ordinarono
agli scavatori di ampliarla per liberare il marmo dalla terra; emerse
così quello che il Sangallo riconobbe subito per il Laocoonte
descritto da Plinio. Una delle sculture più famose dell' antichità
tornava alla luce dopo secoli, proprio nell'area delle Terme di Tito
dove l'aveva vista Plinio, che l'aveva definita opera da anteporre a
tutte nella pittura e nella scultura in bronzo.
L'aver tradotto in bronzo
il termine di Plinio ars statuaria è uno degli argomenti,
ampiamente documentati, addotti dall'autore del bel volume edito dal
Saggiatore (Bernard Andreae, Laocoonte e la fondazione di Roma)
per sostenere il suo assunto: che il gruppo marmoreo è una copia da
originale ellenistico in bronzo. Da quando l'opera fu solennemente
collocata in Vaticano, ebbe inizio la sua fama, incontrastata, di
scultura inimitabile. Suscitò ammirazione ed emulazione negli
artisti, ne fu influenzato Michelangelo; il quale, dopo la
riesumazione dei corpi di Laocoonte e dei figli, avvinti e lacerati
dai serpenti, impresse alla Madonna del Tondo Doni, ai profeti e ai
nudi della Sistina, e ai Prigioni, quelle movenze impetuose, quella
violenta tensione che preludono al barocco. Il prestigio dell'opera
non venne meno nei secoli e suggerì a Winckelmann, che la credeva
greca, la sua famosa definizione dell'arte classica: nobile
semplicità e pacata grandezza. Solo Lessing, pochi anni dopo, ne
propose la datazione all'epoca imperiale romana; incominciarono così
ad affiorare dubbi sia sulla data del Laocoonte, sia sul suo
valore formale. Il restauro del 1957, che collocò al suo posto il
braccio mancante casualmente ritrovato nel 1905 nella bottega d'un
marmista coincise con la scoperta delle splendide statue di Sperlonga
e dell'iscrizione contenente le firme degli artisti, i rodii
Atanadoro, Agesandro e Polidoro (gli stessi ai quali Plinio
attribuisce il Laocoonte). Il problema sembrava così risolto:
il Laocoonte veniva da Rodi e apparteneva al tempo di Tiberio,
committente dei gruppi di Sperlonga. E invece i dati emersi offrirono
lo spunto a nuovi interrogativi, indagini e ipotesi. L'archeologia,
si sa, è un giallo: si lavora su indizi, su induzioni. Nel volume di
Bernard Andreae, che è direttore dell'Istituto Archeologico
Germanico di Roma, di misteri e di soluzioni proposte ce ne sono
molti; l'esame dell' opera spazia infatti su tre momenti diversi,
rimbalza dal Rinascimento al tempo di Augusto, e da questo a quello
della presumibile esecuzione dell'originale.
Per Giulio II, la
motivazione che lo spinge a mettere in particolare rilievo il
Laocoonte è chiara: il papa aveva assunto il nome della gens
Julia, conforme al suo intento di unificare l' Italia sotto lo
scettro pontificio, e aveva adottato il messaggio adombrato da
Virgilio nella famosa scena descritta nel II Canto dell'Eneide.
Gli dèi puniscono il sacerdote troiano perché costui, subodorando
l' inganno, ha tentato di dissuadere i suoi dall'introdurre il
cavallo ligneo che cela nel ventre i guerrieri achei abbandonato
sulla spiaggia dopo l'apparente ritirata. La morte del solo troiano
diffidente era un chiaro presagio: le divinità che sarebbero
diventate tutelari di Roma Giove, Giunone e Minerva con quella morte
avevano voluto significare che un sacrificio umano era necessario
affinché Troia fosse distrutta e dal sangue dei superstiti nascesse
il popolo che avrebbe dominato il mondo. Dopo la visione di Ettore,
apparso in sogno a Enea per ingiungergli di fuggire, l'orrenda fine
di Laocoonte e dei suoi figli è il secondo segno inviato dai numi a
colui che fonderà la nuova stirpe quando, dopo lunghe traversìe,
approderà sulle sponde dell'umile Italia. Poi gli appare la sposa
Creusa, che gli ripete la stessa esortazione, e di lì a poco la
madre, la dea Afrodite: nell'Eneide, il protagonista prende coscienza
della propria missione gradatamente, attraverso segni successivi.
Lo strazio di Laocoonte e
dei figli è dunque il primo annuncio della peregrinazione fatidica
di Enea, della fondazione dell'Urbe e della sua futura grandezza;
forse fu lo stesso Augusto a suggerire quel soggetto al poeta,
intento a creare il poema epico che mancava alla letteratura latina,
e un albero genealogico mitico ai romani e alla famiglia del
principe.
Della grotta di
Sperlonga, che Tiberio, pochi decenni dopo l'Eneide, volle popolata
dalle statue di Ulisse e dei suoi compagni nella scena
dell'accecamento del Ciclope e dell' assalto di Scilla alla nave
dell' eroe, Bernard Andreae, attento all'area culturale in cui
un'opera viene prodotta, al momento storico, all'intento politico e
religioso dei committenti, fornì una interpretazione avvincente in
un volume edito da Einaudi nel 1984 (L'immagine di Ulisse. Mito e
archeologia). In Ulisse si poteva riconoscere l' uomo
intelligente, resistente alle più dure prove, cauto in politica come
valoroso in guerra, che raggiunge la mèta dopo lunghe e dolorose
vicissitudini e, accecando il Ciclope, dimostra la superiorità della
cultura i romani sulla natura incolta e selvaggia i barbari :
un'immagine nella quale piaceva a Tiberio identificarsi. Forse
l'imperatore aveva portato con sé gli artisti da Rodi, dove aveva
trascorso otto anni in volontario esilio; così nel Laocoonte,
secondo Andreae, si sarebbe voluto rievocare la fine di Troia e
ribadire il legame di sangue tra troiani e romani.
La data della copia
esistente può ricavarsi dal fatto che la parte anteriore dell'ara è
di marmo pario, la parte posteriore di Carrara: una cava che fu
aperta al tempo di Cesare e sfruttata soltanto da Augusto in poi. Che
sia una copia, è accertato anche da rilievi compiuti dall'autore sul
marmo, dove sono riconoscibili le misure riportate dallo scultore,
dopo averle prese sull'originale.
Restano alcuni punti
oscuri: Virgilio descrisse la scena ispirandosi alla scultura? o
viceversa fu lo scultore a desumere il suo soggetto dai versi del
poeta? oppure si ispirarono l'uno e l'altro a una comune fonte
letteraria o figurativa? Ma l'interrogativo fondamentale resta quello
che riguarda l'opera originale. Dato per certo che il Laocoonte
è una copia in marmo del tempo di Tiberio, chi poteva aver concepito
in età ellenistica lo schema ideologico della parentela
romano-troiana e aver avuto interesse a diffonderlo come programma
politico?
Poi l' attenzione di
Andreae si volge al Medio Oriente, ai luoghi dai quali provengono
molte opere ellenistiche. Un primo indizio emerge dai dati formali:
la figura di Laocoonte ricorda quella del gigante Alcioneo dell'ara
di Pergamo (oggi al Museo di Berlino Est), il quale cerca di
strapparsi dal capo la mano di Atena che l' ha afferrato per i
capelli, e anche il volto del gigante scarmigliato e barbuto del
piccolo donario. C'è stato più di un momento, nella storia di quel
regno, in cui il governo fu incline a sostenere i romani; i sovrani
di Pergamo furono infatti alleati di Roma nelle guerre vittoriose
contro la Siria e la Macedonia ed ebbero in premio vasti territori.
Ormai cosciente che l' espansione romana in Asia era infrenabile, l'
ultimo re Attalide, morendo nel 133 a.C., lasciò il regno in eredità
ai romani. Andreae ha inoltre sottoposto ad attente analisi il poema
Alessandra d'un misterioso poeta, Licofrone; in esso si
assiste alla riconciliazione tra Enea e Ulisse, che chiede perdono
all' eroe troiano per aver ideato il cavallo fatale. I due si
abbracciano, come i pergameni e i romani. Andreae suppone che sia
stato proprio l' ultimo re di Pergamo il committente dell' opera,
databile dunque al quinquennio del suo regno (138-133 a.C.) e che l'
abbia voluta in occasione della visita di Scipione Emiliano,
proponendosi un duplice intento: rammentare al suo popolo il vincolo
di sangue che lo legava ai romani, evocando ai loro occhi la
sconvolgente immagine della città distrutta e della sorte di chi si
oppone al volere degli dèi, e inoltre offrire all'illustre
visitatore, discendente dai vincitori della Siria, della Macedonia e
di Cartagine, la riconciliazione. Come la tragedia greca, quella
scultura doveva suscitare terrore e pietà, che conducono alla
catarsi.
L'opera d'arte, quando è
veramente tale, non comunica soltanto un messaggio d'occasione, ma
dice a ogni generazione ciò che risponde alle sue istanze, alla sua
sensibilità (il tempo, mi scrisse una volta Marguerite Yourcenar,
non è l'ostacolo più grave tra gli esseri umani). Il Laocoonte,
con mutato linguaggio formale, rivive nella statua con la quale lo
scultore russo Ossip Zadkine commemorò il bombardamento di Rotterdam
durante la seconda guerra mondiale.
“la Repubblica”, 29
aprile 1989
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