Nell'agosto del 2001 “il
manifesto” sotto il titolo Il teatro della salute
dedicò una serie di articoli alle medicine non convenzionali o
esotiche. L'articolo che segue, dedicato alla omeopatia, mi pare una
ricognizione utilissima, senza demonizzazioni e senza infatuazioni,
su un tema, che anche oggi, a più di dieci anni di distanza resta di
grande interesse. L'autore, Paolo Bellavite, medico,
ematologo, era al tempo professore di patologia generale a Verona. E'
autore di numerose pubblicazioni in campo immunoematologico e sui
meccanismi dell'infiammazione. (S.L.L.)
Da una parte stregoneria,
residuo di epoche passate, ciarlataneria; dall'altra medicina del XXI
secolo, frontiera della scienza medica, scienza emergente. Sono tutti
appellativi attribuiti all'omeopatia, una delle discipline più
controverse tra quelle del variegato mondo delle medicine cosiddette
non-convenzionali. L'esistenza, la persistenza e la rinascita almeno
a livello popolare dell'omeopatia - i cui utenti sono raddoppiati
negli ultimi sei anni, secondo indagini dell'Istat promosse
dall'Istituto Superiore di Sanità - pone una sfida appassionante al
sapere medico-scientifico. Non si tratta solo di un dilemma tra
efficacia/non efficacia di un metodo terapeutico o di un medicinale
ma di una questione che tocca il «cuore» della medicina moderna. Le
dosi «omeopatiche» sono una violazione del paradigma
meccanicistico-molecolare oggi dominante o, meglio, contestano la sua
pretesa di essere l'unica credibile interpretazione della realtà
biologica. L'omeopatia troverebbe migliore collocazione nell'ambito
di un paradigma emergente in medicina, che si potrebbe definire
biofisico: le molecole non sarebbero gli unici fattori determinanti
in fisiologia e in patologia, in quanto avrebbero un grosso ruolo
anche energie e informazioni di tipo bio-elettro-magnetico. Secondo
altri sarebbe più opportuno inquadrare l'omeopatia nel paradigma
della complessità per valorizzare l'interrelazione dinamica tra le
varie componenti dell'essere umano, psichiche e fisico-anatomiche, e
la relazione con l'ambiente. Queste due interpretazioni non sono in
contrasto, ma illustrano la novità e l'attualità dell'approccio
omeopatico.
L'omeopatia (da
omoios-simile e pathos-sofferenza) rappresenta uno dei
grandi «sistemi» medici di fine 700-primi '800, fondato dal medico
tedesco Samuel Hahnemann. Le prime pubblicazioni risalgono al Saggio
su un nuovo principio per accertare il potere curativo dei formaci,
del 1796, poi all'opera ancora di riferimento, l'Organon
(1810). Secondo tale sistema, sarebbe possibile curare i malati
mediante la somministrazione in minime dosi (e/o alte
diluizioni/dinamizzazioni) di medicinali scelti utilizzando il
principio della «similitudine dei sintomi» (similia similibus
curantur). In altre parole, quel medicinale (vegetale, minerale o
persino veleno animale) che, provato in piccole dosi su un soggetto
sano, induce la comparsa di caratteristici sintomi per l'innesco di
un disequilibrio fisiopatologico, potrebbe curare un soggetto che
presentasse, a causa di una malattia naturale, gli stessi o simili
sintomi. Pur trattandosi di un principio presente in tradizioni
antiche come la scuola Ippocratica (400 a.C) e di Paracelso (1.500
d.C.) Hahnemann ne fece un metodo operativo, diffusosi in tutto il
mondo e ancora largamente utilizzato.
I rimedi omeopatici non
sono prescritti per specifiche «malattie», ma per i sintomi
individuali e caratteristici della persona malata durante la
malattia. Il problema dell'«emicrania» non esiste; esiste il
paziente con emicrania. L'omeopatia accentua l'individualizzazione
poiché il suo proving del farmaco sull'individuo sano non
provoca la malattia organica ma fornisce una serie di sintomi
individuali prevalentemente di natura funzionale; è, dunque,
necessaria una concezione individualizzante per usare i sintomi come
guida in caso di malattia naturale. Inoltre, la stessa malattia in
individui diversi richiede spesso medicinali diversi.
C'è chi sostiene che sia
proprio questa concezione della malattia che pone l'individuo al
centro il motivo principale del successo popolare dell'omeopatia:
l'applicazione del metodo richiede l'espressione da parte del
paziente e l'ascolto da parte del medico della totalità soggettiva e
oggettiva dell'esperienza di dolore e disordine psicosomatico o
persino esistenziale (Omeopatia, la via interiore alla guarigione,
M. Castellini, Mondadori, 2000). Ma la farmacologia convenzionale che
muove obiezioni all'omeopatia dimentica che questa nasce come
medicina sperimentale, non come una dottrina filosofica: nella storia
della medicina occidentale, Hahnemann è stato il primo a portare
avanti la prova degli effetti «puri» dei farmaci (puri in quanto
sperimentati sul soggetto sano, non alterati da stati di malattia).
Un metodo che - col contribuito dei numerosi seguaci dagli Usa
all'India, all'Italia dove fu introdotta nel 1822 da Necker - ha
permesso di accumulare un patrimonio di conoscenze farmacologiche
unico, raccolto nelle «Materie Mediche» omeopatiche.
Le fortune dell'omeopatia
sono state alterne: un grande sviluppo di popolarità e pubblicazioni
per la maggior parte del XIX secolo, nonostante l'opposizione della
medicina convenzionale, e un declino progressivo nel corso del XX
secolo, fino a ridursi a un'ombra nel II dopoguerra. Declino
spiegabile, in parte, con l'efficace lotta all'omeopatia
dell'American Medicai Association che portò alla chiusura dei
Colleges e alla messa al bando degli omeopati. Ma, soprattutto, alla
«vittoria sul campo» della medicina scientifica, alla scoperta di
farmaci chimici sempre più efficaci per le malattie infettive
dominanti al tempo, nella terapia sostitutiva, nell'analgesia,
antisepsi e anestesia. Medici e industrie ripudiarono così le
vecchie, difficili e misteriose teorie hahnemanniane. L'avvento del
nuovo paradima della biologia molecolare nel II dopoguerra e con esso
dell'idea che la patologia fosse dovuta all'alterazione di un
meccanismo molecolare e che la terapia farmacologica fosse la
modifica o la sostituzione di una molecola, ha portato alla
consacrazione definitiva dell'attitudine riduzionistica della
medicina convenzionale. Ogni altro approccio è parso superato e
fuorviante. L'omeopatia è comunque sopravvissuta in piccoli cenacoli
di appassionati che hanno continuato a «credere» nella sua
efficacia aderendo alla sua norma deontologica fondamentale: il
medico deve trattare il malato con la terapia più adatta al caso.
Anche da parte omeopatica
non sono mancati attacchi alla medicina ufficiale. Già Hahnemann
enunciava la sua attitudine fenomenologica e il suo scetticismo nei
confronti della cosiddetta «medicina teorica» e delle sue «ipotesi
sulla natura essenziale delle malattie»; affermava che l'unico scopo
del medico è curare i malati, in aperta polemica con i colleghi
«allopatici». Questi, secondo Hahnemann, mentre dissertavano sulla
natura delle malattie senza giungere a conoscenze certe,
somministravano irrazionalmente sostanze tossiche in alte dosi,
purghe e salassi che, dopo un momentaneo miglioramento, si rivelavano
ancor più dannosi del morbo.
La «vis polemica»
di Hahnemann e seguaci non ebbe un ruolo secondario nell'accendere la
reazione di allopati e farmacisti. Anche le lotte interne al mondo
omeopatico hanno avuto un peso rilevante nella sue fortune
altalenanti, così come l'incapacità di sviluppare una teoria
scientifica o quanto meno una «medicina basata sulle evidenze».
Nonostante lo scetticismo della medicina accademica, oltre il 70% dei
cittadini che negli ultimi tre anni si sono curati con l'omeopatia
riferiscono di averne tratto benefici (Istat). Anche un recente
studio osservazionale, coordinato da Muscari Tomaioli della scuola di
omeopatia di Verona, riferisce il miglioramento della sintomatologia
dolorosa nel 73.7% di pazienti cefalalgici. L'inattesa rinascita
dell'omeopatia negli ultimi 15-20 anni è dunque dovuta più a una
spinta dalla base che alle convinzioni di classe medica e
istituzioni; infatti, non esistono cattedre di medicine non
convenzionali e soprattutto di omeopatia nel mondo occidentale. Tale
rinascita testimonia un cambiamento culturale che qualcuno chiama
anche cambiamento di paradigma e che implica sia una critica alla
medicina ritenuta troppo spersonalizzata, sia la fine del ruolo
«paternalistico» del medico, sia una maggiore responsabilizzazione
dei cittadini nelle scelte sulla propria salute. Anche il mondo
medico-scientifico si interroga su tale cambiamento, muovendo dalla
presa di coscienza dei limiti dell'approccio
meccanicistico-molecolare e della conseguente super-specializzazione.
Il paradigma della biologia molecolare lungi dal «risolvere» la
complessità in fisiologia e patologia, l'ha documentata mostrando la
molteplicità dei fattori, individuali e ambientali, sottostanti a
molte patologie. Basta pensare alle «ricadute» pratiche e
terapeutiche del progetto genoma, finora inferiori alle attese.
Così l'aumentata
consapevolezza della complessità in medicina non può che suscitare
la rivalutazione dei tanti approcci medici rivolti più al complesso
che al semplice, più al «sottile» che al macroscopico, più al
«fattore umano» che all'aspetto tecnologico. L'omeopatia si
prefigge di intervenire stimolando il potere endogeno di guarigione
dell'organismo ed è per questo che può essere compresa solo
all'interno di un paradigma che fa riferimento alla scienza della
complessità. Credo sia stata proprio questa la molla che ha acceso
in me e nel mio gruppo di lavoro, che da dieci anni opera presso
l'università di Verona, l'interesse per una ricerca scientifica nel
campo dell'omeopatia. Muovendo dall'intuizione della ricchezza
profonda contenuta in questa tradizione empirica - l'aver posto,
cioè, sempre al centro dell'analisi del caso clinico la totalità
dei sintomi e l'individualità del paziente - abbiamo preso l'avvio,
assistiti dal metodo sperimentale e dalle nuove tecniche di ricerca
clinica e di laboratorio. Ci ha animato la convinzione che gli
omeopati e gli scienziati interessati a questi fenomeni possano
riportare l'approccio terapeutico basato sul principio di
similitudine nel solco della medicina scientifica, forse meglio
definibile come medicina razionale. Il termine «ragione» richiama
una prospettiva aperta alla realtà umana secondo la totalità dei
suoi fattori, sia quelli quantitativamente rilevabili, di competenza
scientifica, sia quelli di tipo qualitativo, umanistico o artistico
che dir si voglia. Che la pratica medica, interessandosi della
sofferenza della persona nella sua interezza, sia non solo scienza ma
anche arte è un concetto oggi accettato universalmente (Il
Ministero della salute, di G. Cesana, Studio Editoriale
Fiorentino, 2000). Per favorire un confronto che tenga conto del
positivo presente nelle tradizioni mediche empiriche, senza perdere
di vista gli errori e le deviazioni troppo divergenti della
razionalità, è stato anche avviato, per iniziativa dell'università
e dell'ordine dei medici di Verona, un «Osservatorio per le Medicine
Complementari» che ha curato la pubblicazione del testo: Le
medicine complementari (Utet, 2000).
Un chiarimento di alcuni
dei problemi teorici correlati all'omeopatia viene oggi offerto anche
da indagini sperimentali di laboratorio e su animali. Anche il nostro
gruppo, in collaborazione con quello di Anita Conforti presso la
sezione di farmacologia, sta sviluppando alcune ricerche in questo
campo, in particolare sugli effetti inversi e non-lineari
nell'attivazione delle cellule del sangue e di immunomodulazione
sperimentale. Sono studi sulla linea del «principio di similitudine»
omeopatico - oggi rivalutato in campo scientifico -, che può essere
razionalizzato e dimostrato a prescindere dal problema delle alte
diluizioni: il rimedio omeopatico attiva i sistemi di controllo
dell'omeostasi dell'organismo in sostituzione di un segnale
regolatore endogeno che potrebbe non essere sufficiente o efficace,
perché il sistema non è più sensibile ad esso in quanto bloccato
dalla malattia. Specifici contributi in questa direzione sono quelli
dei gruppi di Madeleine Bastide a Montpellier, Roeland Van Widk a
Utrecht, Lucietta Betti a Bologna
Un altro caposaldo
dell'omeopatìa riguarda l'uso delle piccole dosi o delle alte
diluizioni/dinamizzazioni, cosiddette alte «potenze» perché,
secondo la teoria omeopatica, il processo di diluizione seguito da
forte scuotimento della soluzione diluita, aumenterebbe l'effetto del
medicinale. La diluizione all'inizio fu imposta dal fatto che si
usava fare le prove anche con sostanze molto velenose (aconito,
arsenico, cianuro) e dal fatto che la solubilizzazione di molte
sostanze richiedeva estesa triturazione e diluizione. Quando si parla
di dosi omeopatiche, non necessariamente ci si riferisce alle dosi
«infinitesimali», cioè quelle la cui diluizione ha superato la
costante molecolare di Avogadro, oltre la quale non è più possibile
rilevare la presenza di sostanze in una soluzione. La maggior parte
dei medicinali oggi venduti come «omeopatici» in Europa contengono
dosaggi farmacologici anche se bassissimi di principi attivi. Quindi
sostenere che l'omeopatia sia tout-court «acqua fresca» è
un'affermazione non aderente alla realtà. Se di acqua fresca (anzi
soluzione idroalcoolica) si deve parlare, ciò vale per le
diluizioni/dinamizzazioni omeopatiche oltre la dodicesima centesimale
o ventiquattresima decimale. È chiaro che qui si esce dai canoni
della farmacologia classica e quindi vi è meno spazio per le
certezze e più per ipotesi che aspettano una dimostrazione
oggettiva.
In questione: a) le
proprietà fisiche dell'acqua e delle soluzioni idroalcooliche sono
per molti aspetti ancora sconosciute, soprattutto per ciò che
riguarda le interazioni «long-range» tra molecole, b) non è
assurdo pensare che nell'acqua possano essere immagazzinate
informazioni sotto forma di frequenze vibrazionali dei dipoli
molecolari («superradianza») o di gusci di idratazione vuoti
(«clatrati» o clusters); e) vi sono prove che il trattamento
di acqua pura con onde elettromagnetiche le conferisce nuove
proprietà fisico-chimiche che, conservandosi, sarebbero trasferibili
a sistemi biologici; d) vi sono prove che molti tipi di recettori
cellulari ed enzimi sono attivati o inibiti in vari sistemi
sperimentali dall'applicazione di campi elettromagnetici di bassa
frequenza, quali quelli che potrebbero essere «impressi» nelle
soluzioni omeopatiche; e) le teorie della complessità e del caos
postulano che una minima modifica delle condizioni di un sistema che
si trova lontano dall'equilibrio (quali sono spesso i sistemi
viventi) può sortire grandi effetti che si stabilizzano attorno a
degli «attrattori» e ciò ha grandi implicazioni per la
comprensione degli effetti di minime energie. Nei campi della fisica
dell'acqua correlati con le teorie omeopatiche si sono distinti
Emilie Del Giudice e Giuliano Preparata dell'istituto di fisica
nucleare di Milano e il gruppo di Vittorio Elia a Napoli.
Al di là di qualsiasi
ipotesi, rimane il problema, ineludibile, delle prove di efficacia.
La ricerca clinica sull'azione di rimedi omeopatici, condotta con
metodi tendenzialmente simili a quelli utilizzati nella medicina
convenzionale, si è molto sviluppata negli ultimi 10-15 anni, anche
se copre ancora solo una piccola parte dei problemi posti da questo
metodo terapeutico. Sul piano storico ed epistemologico è in corso
un importante dibattito su un punto-chiave: quali sono i criteri di
evidenza necessari per valutare una medicina? I dati ottenuti secondo
i più rigorosi metodi di trials clinici sarebbero
fondamentali e auspicabili, ma non possono da soli costituire una
prova di validità. Se si accettasse il principio di un'evidenza
scientifica incontrovertibile prima di accettare come praticabile una
medicina, si rischierebbe una «paralisi terapeutica», in quanto la
maggior parte delle conoscenze e delle procedure, anche della
medicina convenzionale, non è stata provata a livello di trials
clinici e di quei criteri ancor più rigorosi fissati dalle
meta-analisi. L'esperienza clinica dei medici e il «gradimento»
della popolazione in un certo periodo storico costituiscono altri
criteri per affermare che una medicina ha o no delle «evidenze»,
quanto meno riguardo alla sua efficienza.
Concludiamo citando Hufeland, autorevole allopata contemporaneo di Hahnemann, tra i pochi che perseguirono un'integrazione tra diversi metodi terapeutici: «Scrivo perché ho ritenuto scorretto e indegno della scienza trattare la nuova dottrina dell'omeopatia con la ridicolizzazione o la persecuzione. La soppressione e il dispotismo nella scienza mi ripugnano; [...] Prova tutto e trattieni ciò che è buono: questo è e rimane il primo comandamento della scienza. La Medicina è scienza dell'esperienza, è pratica, è continuo esperimento e l'esperimento non è mai concluso. Libertà di pensiero, libertà di scienza, questo è il nostro più alto baluardo e così deve rimanere se vogliamo progredire.» (in Il Simile in Medicina di LJ. Boyd, Ed. Libreria Cortina di Verona. 2001).
Concludiamo citando Hufeland, autorevole allopata contemporaneo di Hahnemann, tra i pochi che perseguirono un'integrazione tra diversi metodi terapeutici: «Scrivo perché ho ritenuto scorretto e indegno della scienza trattare la nuova dottrina dell'omeopatia con la ridicolizzazione o la persecuzione. La soppressione e il dispotismo nella scienza mi ripugnano; [...] Prova tutto e trattieni ciò che è buono: questo è e rimane il primo comandamento della scienza. La Medicina è scienza dell'esperienza, è pratica, è continuo esperimento e l'esperimento non è mai concluso. Libertà di pensiero, libertà di scienza, questo è il nostro più alto baluardo e così deve rimanere se vogliamo progredire.» (in Il Simile in Medicina di LJ. Boyd, Ed. Libreria Cortina di Verona. 2001).
"il manifesto", 22 agosto 2001
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