L'idea
che sta alla radice dell'Internazionale comunista, come era stata
all'origine della I Internazionale, è quella d'un principio unico
del processo rivoluzionario. Non aveva scritto Marx, in epigrafe al
Manifesto dei comunisti,
il famoso «Proletari di tutto il mondo, unitevi»? E non
perché in tanti si vince, ma perché comune era la condizione e
quindi la causa; e comune era resa dall'estendersi su scala mondiale
di quella forma di produzione capitalistica che valicava le
frontiere, si colorava in modo diverso qua e là, ma aveva al
suo centro un meccanismo unico di estorsione del plusvalore, di
sfruttamento e di alienazione. Il proletario era internazionalista
perché la sua condizione era non simile, ma identica — nella sua
forma strutturale — a quella degli sfruttati d'un sistema mondiale.
Mondializzazione del capitale, mondializzazione del proletariato —
e la rivoluzione come problema mondiale.
Questa radice viene, dunque, da lontano: da Marx, e Lenin la eredita
dalla II e dalla I Internazionale. La prima rapidamente finita, la
seconda organizzatrice di tutta una fase del movimento operaio,
formatrice di cultura e di quadri, specie in Europa e tuttavia —
quando esplode la prima guerra mondiale — quasi frantumata dalla
«causa nazionale», incapace di mantenere l'internazionalità della
sua origine.
Questa
è la prima grande accusa che la sua sinistra le lancia, qui
avvengono le scissioni. La III Internazionale nasce nel crogiolo di
questa fiammata terribile, in una fase di capitalismo già
«imperialista» e quindi portatore di guerra, e sotto il rivelarsi
folgorante in una zona non prevista dalla teoria - non l'occidente
avanzato, ma la Russia zarista — delle condizioni «oggettive»
d'un rovesciamento dell'autocrazia che si sviluppi in processo di
rovesciamento rivoluzionario globale. Chi vuol sapere come questa
precipitazione avvenga, deve andare a Lenin; chi vuoi sentirne
l'aria, l'odore, la passione, la «contaminazione» della storia sul
pensato, deve andare ai Dieci giorni che sconvolsero il
mondo di John Reed, o, in
una cineteca, ripescare La corazzata Potemkin
o l'Ottobre di
Eisenstein.
Un fiume bollente
corre per il mondo
Succede dunque che la prima rivoluzione comunista avviene non in
continuità ma in rottura con il movimento operaio internazionale,
che è organizzato dai grandi partiti socialisti e nei primi grandi
sindacati; e non in tutto il mondo, ma in un solo paese. Questa
ultima condizione è teoricamente così scandalosa, che già divarica
il dibattito dei bolscevichi (come si sa fu uno dei punti di frizione
con Trotzki); perché la rivoluzione russa, che dovrebbe accendere
l'Europa non l'accende, o accende fiamme presto spente in repressioni
sanguinose. Forse un sospetto di questo isolamento, e non tanto dei
pericoli per una sola rivoluzione in un paese solo di fronte a un
mondo tutto contro di essa, ma d'un qualche suo fatale snaturamento
se sola fosse restata, fa nascere la III Internazionale. Che non è
solamente spaccatura della precedente, attraverso la formazione dei
partiti comunisti in genere dalle scissioni socialiste (ora
maggioritarie, come in Francia, ora minoritarie, come in Italia); ma
il correre d'un fiume bollente per il mondo, là dove i partiti
socialisti non erano mai esistiti o appena si formavano movimenti
democratici e antimperialisti, la prova che la rivoluzione era
possibile, era avvenuta, aveva un suo grande luogo, una patria, e
anche uno stato (si sarebbe estinto dopo, nel passaggio vero e
proprio dal socialismo al comunismo). Dunque poteva avvenire
dovunque, se il proletariato si organizzava e prendeva quella
rivoluzione come modello. Quella rivoluzione, dunque la sua teoria e
la sua organizzazione, il suo partito.
La III Internazionale nasceva definendo i 21 punti richiesti ai
proletari di tutto il mondo per farne parte; il centro era,
naturalmente, la sua prima zona vittoriosa, il fronte più avanzato —
ma era una Internazionale. Democratica, centralizzata. Somigliava a
un grande partito leninista su scala mondiale, con le sue federazioni
nazionali e un suo esecutivo rapresentativo dei trentacinque partiti
che l'avevano fondata. I suoi membri ne erano membri nel mondo, si
spostavano da un paese all'altro, costruivano la loro rete con lo
stesso spirito – seminavano i partiti comunisti. La storia dei
primi anni Venti è il dilagare nel mondo di questa idea, speranza,
aggregazione, superpartito. Non credo che esista in questo secolo un
processo altrettanto rapido e univoco e sicuramente entusiasmante.
Da un principio a
un luogo
Quanto durò, questa immagine originaria? Forse quanto il cadere
delle illusioni, l'esperienza dello spessore e della durezza dello
scontro. I secondi anni venti sono anni di grandi repressioni, non
solo in Europa, dove covano i fascismi. Se penso alla storia di
Gramsci, ad alcune sue note, già nei primissimi anni venti, già
prima della rottura del gruppo dirigente bolscevico, l'ipotesi è
lucidamente cambiata: la rivoluzione mondiale è fallita,.certo lo è
in Europa, resta uno stato comunista, garanzia della sua possibilità,
crogiolo di esperienza, cuore d'un grande partito mondiale di cui la
storia concreta si incarica di ridefinire presto i poteri. Essi sono
molto più grandi dove il partito è forte, e dove è forte se non
dove ha già il dominio d'un grande paese? La centralizzazione del
processo rivoluzionario si è spostata da un principio a un «luogo»,
storico, concreto; e molto presto il destino del processo
rivoluzionario si identificherà, tenderà a identificarsi, più o
meno confessatamente, nel destino di questo suo unico luogo di
realizzazione, l'Unione sovietica. Sola, dunque assediata: la
fortezza assediata. Il Comintern diventa il superpartito dell'Urss di
Stalin, e le priorità dell'Urss di Stalin sono «oggettivamente» le
sue. Non è molto interessante chiedersi, anche se su questo a lungo
si arrovellarono i rivoluzionari non staliniani, se questo sarebbe
dovuto e potuto essere diverso; è un fatto che l'identificazione
avviene e da luogo a un processo storico che innegabilmente muta il
volto del secolo, la dinamica dei processi mondiali. Quando i
comunisti italiani, di fronte a certe liquidazioni totali, ricordano
questo, ricordano una verità. Si arrestano, quando si tratta di
definire la natura esatta di queste processo «reale», che è poi
anche la definizione corretta della natura del rivoluzionamento che
era avvenuto nell'Urss, perché quel tipo di stato, quel tipo di
«base strutturale», quella sua rigidezza, quel suo terrore, quel
suo essere così radicalmente diversa dall'utopia da cui tutto era
nato. Le condizioni di isolamento, la arretratezza del terreno della
prima rivoluzione furono, a lungo, la giustificazione esplicita o
implicita di quel che in essa non andava, dei primi delusi retours
de l'Urss. La colpa era delle dimensioni del nemico.
«L'Internazionale
non ha fatto nessuna rivoluzione»
Questa rigidezza si trasmise a tutta l'Internazionale, assieme
facendone leva di crescita e meccanismo di blocco dei partiti
comunisti. Dai secondi anni venti al VII congresso
dell'Internazionale, la direzione è assieme così rigida e così
sclerotica che non solo non fa vincere, ma paralizza una parte di
quel magma che pochi anni prima aveva messo in movimento. E se è
vero che il VII congresso apre un varco, da respiro perché sfonda
l'isolamento dei comunisti nel fronte antifascista — lo sfonda al
punto che in alcuni luoghi, come in Francia, si parla di
riunificazione fra II e III Internazionale, comunisti e socialisti,
nel breve periodo seguito all'euforia del Fronte popolare — è vero
che non solo questa apertura risente dellasua tattlcità (la
necessità di far fronte al fascismo e alla guerra), ma poi non
riesce a innescare alcun processo realmente rivoluzionarlo. Ebbe a
dirmi una volta Fidel Castro che l'Internazionale non fece alcuna
rivoluzione; era allora in fase assai polemica con l'Urss, ma aveva
ragione. I grandi processi rivoluzionari che si innescarono, si
innescarono fuori dei dettami di questo mastodontico e prepotente
corpo — la rivoluzione cinese nasce da un atto di rottura con
l'Internazionale, quando Mao, sfidando gli organismi riconosciuti,
diventa nel 1931 il capo della frazione del potere reale, quella che
farà la lunga marcia. Sempre rendendo, ma molto da lontano, omaggio
a Stalin; senza mai andare in cerca di direttiva a Mosca, né
riceverle. Salvo una volta forse, la guerra di Corea, e fu una volta
per sempre, tanto duramente fu pagata dalla Cina.
Così non si celebrarono, al momento della fine della III
Internazionale, grandissime vittorie. Fu piuttosto la presa d'atto
che, nel corso della stessa grande guerra mondiale, la seconda, le
condizioni d'un processo unitariamente guidato erano venute a
mancare. Non solo, ma le unità dei fronti antifascisti, le alleanze
su scala mondiale, consigliavano all'Urss di cessare di essere così
«polo internazionale» da fare dei partiti comunisti membri sospetti
d'una serie di alleanze nazionali. Il famoso fattore K, che allora
non si chiamava così. L'Internazionale muore, senza una sola
rivoluzione in più al suo attivo, nel 1943.
Scompare la forma,
lo scheletro resta
Che cosa diventa allora in termini storici reali il rapporto fra
l'Unione sovietica e i partiti comunisti? Scomparsa la forma, lo
scheletro resta. Resta un potere d'arbitrato del Pcus, partito-guida,
riconosciuto come tale fino al 1956; nonostante la breve e ingloriosa
vita del Cominform, che nel dopoguerra cerca di rifondare
un'internazionale riveduta e corretta sotto forma di Ufficio
d'informazione, scomunica Tito e vede la Jugoslavia resistergli e
procedere per la sua strada, scacco di non poco conto. Ma resta
soprattutto il «modello», l'ideologia, il principio primo del
giusto e dell'ingiusto — il grande compagno Stalin, nostro capo,
padre amato dei comunisti di tutto il mondo, come si scriverà di lui
alla sua morte, nel 1953. Tutti coloro che spesso hanno elucubrato
sulla rete segreta di rapporti che forse funzionò sempre, forse non
funzionò realmente mai, fuori del blocco sovietico definito a Yalta,
non si rendono conto del potere di coesione che quella sola
«ideologia», diventata forma e modello della rivoluzione, poté
avere. Così forte che, a guardar bene, le sue vestigia sono
riconoscibili anche in chi a sinistra le contesta: di stalinisti è
piena la nuova sinistra nascente, appena passa dalla fase spontanea
iniziale alla agglutinazione per gruppi. La «forma partito» non può
essere studiata davvero senza tener conto di questa densità storica
e cogente d'un modello che si riflette perfino in partiti e
formazioni che non sono comunisti né leninisti, come i partiti
progressisti unici, propri di molti paesi terzi. Così succede che
l'Urss resta davvero un polo dirigente, morta l'internazionale, non
meno, ma forse più incontrollato e potente dopo la sua fine; e
questo suo ruolo non sarà mai messo esplicitamente in causa fino a
che una grande rivoluzione — grande come e più dell'Ottobre —
non le si oppone. Tutte le altre frizioni o scissioni sono, prima di
allora, destinate a breve vita, a restare esperienza intellettuale o
poco più o meno; ai partiti comunisti che, come quello italiano, ne
sentono il peso (l'ipoteca, ebbe a dire un giorno Giorgio Amendola,
rampognato da Togliatti che pur la pensava allo stesso modo) non
resta che conquistarsi una nicchia di autonomia reale in un ambito di
inalterati rapporti formali.
Da Stalin, Togliatti ha imparato che quel che conta è vincere; e la
sua autonomia, lui la fonda non sui principi ma sulla capacità di
radicare questa formazione eterodossa che è il Partito comunista
italiano, incrocio fra partito rigidamente strutturato sul «modello»
terzinternazionalista (quello è e quello resta, fino agli
ultimissimi anni, e piuttosto si sgretola che trovare in sé il modo
di trasformarsi) e blocco popolare autentico, non fungibile, storia e
vita e sangue di alcune generazioni.
Fedeltà dei
partiti deboli, inquietudine di quelli che contano
Ma lo stesso evolversi della situazione mondiale fa sì che,
paradossalmente, là dove i partiti comunisti, tutti cosi modellati,
sono una forza in certa misura reale, il rapporto con l'Unione
sovietica, il partito della casa madre, è problematico, quando non
pessimo. La scissione cinese è la clamorosa sanzione d'una fine. E
non solo in occidente i partiti comunisti saranno sempre più deboli,
non faranno nessuna rivoluzione, ne mancheranno addirittura una a
Cuba non accorgendosi che lo era proprio, dando vita alla sola
eccezione italiana (e in minor misura francese e spagnola), alle
eccezioni scandinava e giapponese; ma si separeranno di fatto
dall'Urss, nei momenti di vitalità, più o meno esplicitamente, i
grandi partiti asiatici, oltre a quello cinese.
Il movimento comunista internazionale è una formula, in cui si
numerano una ottantina di partiti, ma nei quali la fedeltà
inconcussa è di quelli che contano poco o nulla, l'inquietudine è
dei pochi che contano e l'obbedienza è solo di quelli del blocco
militarmente controllato, e neanche di tutti. Al suo interno,
l'eresia rumena vive mentre i tentativi di rivolta o innovazione
ungherese, tedesco orientale, cecoslovacca, polacca sono soffocati.
Nel correre della storia, quel che era stato il cuore
dell'Internazionale è diventato sempre più soltanto una grande
potenza incapace di egemonia, e che ancora tende a rivestire i panni
d'una chiesa ideologica. In nome della quale invade, dove può, e
scomunica, dove non può. Tito, Mao, Berlinguer. Castro c'è andato
vicino, ma poi aveva bisogno del petrolio e degli equilibri
internazionali delle due superpotenze per reggere, e ha russificato
la rivoluzione cubana. Lentamente, di questa facciata ideologica si
vanno spegnendo anche le strutture portanti, i partiti: e più presto
dove hanno più potere, nel blocco dell'est. Alla forza degli
argomenti si sostituisce quella delle armi.
Questa è la storia, cominciata nel 1917 e che con l'editoriale di
domenica della “Pravda” ha visto una delle sue tappe finali. Il
problema da cui l'Internazionale era partita, quel lontano appello
del Manifesto di Marx resta: “Proletari di tutto il mondo,
unitevi”. Ricominciando da molto lontano, senza più patrie né
modelli né reti né, forse, un vero linguaggio comune.
“il manifesto”, speciale Internazionale senza indicazione di
data, ma maggio 1983
Nessun commento:
Posta un commento