La tavoletta di cui qui
si parla, rinvenuta nella pianura mesopotamica e a lungo conservata
nel museo di Baghdad (chissà dov'è adesso), non è il più antico
esempio di cartografia pervenutoci: un papiro del tempo del faraone
Sethos I (3000 circa a.C.) riguarda la zona di Hammarat e le sue
miniere d'oro, questa d'età assira sembra invece essere la più
antica rappresentazione del mondo conosciuto e l'interpretazione dei
segni in essa contenuti mi pare affascinante. (S.L.L.)
La più antica
rappresentazione grafica del mondo
è una tavoletta cuneiforme
del
IX-VIII secolo a.C.
La visione orizzontale
dell'orbe terracqueo
mesopotamico
trova compimento in quella verticale c
he comprende il
cielo, la terra, gli abissi
e, con essi, gli dei, gli umani, i
defunti.
Una tavoletta cuneiforme
proveniente dalla regione babilonese, e databile al IX-VIII secolo
a.C., fornisce la più antica rappresentazione grafica dell'intera
superficie terrestre, nei limiti delle conoscenze dell'epoca. Il
disegno, accuratamente inciso con lo stilo sull'argilla fresca, e
corredato da varie didascalie esplicative, localizza una serie di
città (Babilonia. Der, Susa, ecc. paesi stranieri (Assiria, Urartu)
e strutture geo-topografiche (montagna, palude, canale, città
innominate), visualizzati da un punto di osservazione centrale la
città di Babilonia, correttamente posta a cavallo delle rive destra
e sinistra dell'Eufrate: il nome del fiume non è menzionato, ma non
c'è dubbio che ad esso si riferiscano le due lunghe linee parallele
tracciate al centro della mappa. L'orientamento geografico è
sorprendentemente corrispondente alle moderne convenzioni
cartografiche, con il nord situato in alto e gli altri tre punti di
riferimento cardinali disposti sequenzialmente in senso orario. Due
cerchi concentrici, all'interno dei quali è collocato l'oceano,
circondano per intero il continente. Al di là della distesa
oceanica, sono disegnate varie aree triangolari, di sposte a mo' di
raggi di stella e definite «distretto, regione»: con ogni
probabilità la mappa allude a isole o regioni remote, situate oltre
i limiti estremi del mondo conosciuto. Spazi vuoti, privi di segni
grafici e di didascalie esplicative, segnano gli intervalli tra i
vari triangoli: è l'ignoto assoluto.
Indipendentemente dalla
sua antichità, questa mappa - unica nel suo genere - fornisce
notevoli spunti di riflessione agli esperti delle antiche civiltà
mesopotamiche, ma non solo. Quello che immediatamente colpisce è la
realizzazione cartografica di una conoscenza sintetica e al tempo
stesso marcatamente selettiva dell'universo terrestre entro i limiti
immaginativi e in accordo concettuale con una più vasta «mappa
mentale» del mondo - per motivi che in gran parte sfuggono, nella
mappa non c'è traccia e realtà importanti e ben note quali ad
esempio il Tigri, il Nilo e l'intero paese d'Egitto. La circolarità
senza entrata e uscita della frontiera oceanica è una straordinaria
e potente astrazione, per altri versi ereditata (?) o riflessa in
analoghe visioni globali realizzate da geografi greci intorno alla
metà del I millennio. Nello scenario specifico dell'antica
Mesopotamia, sumeri, accadi e poi assiri e babilonesi - a partire
dalla seconda metà del III millennio - avevano prima raggiunto, agli
estremi opposti, le sponde del Golfo Persico e del Mare Mediterraneo;
in seguito quelle del Mar Nero e del Mar Rosso: e dunque, completando
i vuoti e l'incognito, è un oceano, ininterrotto nel suo circuito
avvolgente, a marcare i confini ultimi della «Terra dei due Fiumi»
(anche se nella mappa di fiumi ne compaia uno solo, ma tant'è).
Vale la pena sottolineare
il notevole livello di astrazione figurativa che soprassiede alla
stesura della mappa babilonese: la corona circolare (= l'oceano), i
triangoli isosceli (= regioni o isole remote), la sagoma rettangolare
dello stampo d'un mattone d'argilla (= la città di Babilonia), il
profilo ovoidale dell'occhio d'un bue (= le montagne del nord), le
due linee parallele (= il corso dell'Eufrate), i vari cerchietti
disposti a raggiera entro il limite interno dell'oceano (= città e
paesi vari): una sofisticata e in parte enigmatica combinazione di
realtà concrete, convenzioni figurative e simbologie iconografiche,
al servizio di precisi ma non sempre decifrabili paradigmi mentali.
La circolarità
dell'orizzonte visibile - quale che sia il suo punto di osservazione
- è certo all'origine dell'analoga circolarità che delimita
l'estensione del mondo nella nostra mappa. Su scala più ridotta, e
con riferimento ad altrettante circonferenze «regionali»
(Babilonia, Assiria, Siria, Palestina, Egitto, ecc.), l'ordinamento
cosmologico dei vari segmenti continui di realtà geografiche è
assicurato da una quadripartizione spaziale, marcata dalla proiezione
piana del percorso ascendente e discendente del sole (est-ovest),
intersecata da un'altra linea ideale posta a 90° (nord-sud). E'
appena il caso di ricordare che tale partizione in quadranti è
tuttora di impiego comune, a circa 4500 anni dalle sue prime
formulazioni vicino-orientali.
Un interessante e
consequenziale risvolto della suddivisione del globo, ordinato
secondo i quattro punti cardinali, è riscontrabile nella titolatura
reale di vari sovrani mesopotamici, a partire da Naram-Sin di Ak-kad
(2254-2218), che si definiscono «re dei quattro spicchi», vale a
dire: del mondo intero. In modo non dissimile, Carlo V - re di Spagna
e di quant'altro, nonché imperatore del Sacro Romano Impero -
sintetizzava la globalità dei suoi domini con la ben nota
affermazione: «Sul mio impero non tramonta mai il sole»: a
differenza dei monarchi mesopotamici, l'asse nord-sud non è
menzionato, ma in compenso i limiti geografici segnati dal sorgere e
dal tramonto dell'astro si erano nel frattempo estesi dalle Fiandre
sino al Nuovo Mondo.
La visione orizzontale
dell'orbe terracqueo, schematicamente organizzata in forma radiale,
trova il suo necessario complemento in una visione verticale che
comprende sequenzialmente il cielo, la superficie terrestre e il
mondo sotterraneo. Le conoscenze astronomiche degli esperti
assiro-babilonesi – frutto di millenaria esperienza diretta,
sottoposta ad altissimo livello di elaborazione matematica e
sistemazione organica dei dati registrati con maniacale accuratezza,
giorno dopo giorno, notte dopo nette rappresentano uno dei più
vistosi lasciti del sapere mesopotamico, la cui fama (ma non i
contenuti specifici) si è largamente diffusa nel mondo greco-romano:
«Non farti tentare dai calcoli astrali babilonesi», ammoniva Orazio
(Carmi 111), suggerendo in alternativa una prospettiva di vita
ispirata al «carpe diem». Della terra si è già detto. Il mondo
sotterraneo è ovviamente uno spazio inesplorato e dunque ignoto
nella sua precisa configurazione fisica. Come che sia, la
ripartizione su un asse verticale dei tre settori corrisponde a una
collocazione rigidamente definita dei soggetti che, a diverso titolo,
operano nell'insieme cosmico: gli dei immortali nel cielo; gli esseri
umani, finché in vita, sulla superficie terrestre; i defunti sotto
terra.
Cielo, terra e abisso
sono il risultato di un'originaria creazione, operata dalla divinità
attraverso fasi successive di separazione e ordinamento, a partire da
una realtà caotica e informe. Non desta certo meraviglia che i
numerosi miti cosmogonici tramandati dalla letteratura mesopotamica
trovino significativo riscontro nella narrazione biblica del primo
capitolo della Genesi: dettagli a parte, un'unica visione fortemente
strutturata accomuna, nell'arco di tre millenni, le varie culture
vicino-orientali.
Dalla messe di
documentazione cuneiforme relativa al mito primordiale della
creazione merita di essere citato un singolare - o meglio,
straordinario - testo babilonese: un incantesimo da utilizzare come
rimedio contro un violento mal di denti (vedi l'articolo di Cristiano
Grottanelli, su “il manifesto” di ieri): «Quando il dio Anu ebbe
creato il cielo, e il cielo ebbe creato la terra, e la terra ebbe
creato i fiumi, e i fiumi ebbero creato i ruscelli, e i ruscelli
ebbero creato il fango, e il fango ebbe creato il verme, il verme se
ne andò a piangere davanti al dio Shamash, e le sue lacrime
scendevano davanti al dio Ea: 'Che mi darai da mangiare? Che mi darai
da succhiare?'. 'Ti darò il fico maturo, o il frutto
dell'albicocco'. 'E che me ne importa del fico maturo o del frutto
dell'albicocco? Mettimi piuttosto e sistemami tra il dente e la
gengiva: che io possa succhiare il sangue del dente e corrodere, a
poco a poco, la gengiva!'». Seguono a questo punto le istruzioni per
neutralizzare l'azione del verme ed eliminare il mal di denti.
Una linea unica e
consequenziale collega l'evento della creazione con una diagnosi e
una terapia odontoiatrica. Il verme, creato dal fango, è la
visualizzazione del nervo dentario, causa del dolore fisico. Un altro
verme, segpo inconfondibile della morte e del disfacimento corporeo,
è quello che Gilgamesh vede uscire dal naso del suo amato compagno
Enkidu, sette giorni dopo il suo decesso. Il simulacro corporeo
dell'uomo torna ad essere il fango indistinto e senza tempo, lo
stesso fango con il quale gli dei avevano deciso di plasmare la vita
dell'uomo.
“il manifesto”, 30
agosto 2000
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