28.9.12

La passeggiata. Una poesia in dialetto perugino di Claudio Spinelli.

Claudio Spinelli
"Ndua sè stata tutt'oggi", je dicette.
"So stata a fa du passi con Gigetto
che m'ha rcontato mpò de barzellette:
dal ride guasi che cadem dal letto!"

"Dove sei stata tutt'oggi?, le disse. / "Sono stata a far due passi con Gigetto / che mi ha raccontato un po' di barzellette: / dal ridere quasi caschiamo dal letto".

da L mejo d i poeti perugini (a cura di Sandro Allegrini), Morlacchi Editore, Perugia

DISINFORMAZIONE (S.L.L.)



(Oggi 28 settembre) in una televisione berlusconiana di grande ascolto, mentre accuratamente taglio le compresse salvavita della mamma, vedo un brandello di talk show sulla più importante rete del Cavaliere caduto da cavallo. La conduttrice, nota soprattutto per aver conservato un bel sedere nonostante l'età avanzata, orchestra come può una battaglia di libertà.
E' il braccio di ferro messo in atto in questi giorni. Secondo il gran coro mediatico non è possibile che il diffamatore Sallusti vada in carcere: il diffamatore deve rimanere libero di diffamare e la legge non vale un tubo se si tocca un intimo di Berlusconi, unto dall'Unto. Ed è la stessa logica che presiedeva a un famigerato articolo di Scalfari, che vorrebbe fermare l'indagine sulla cosiddetta trattativa con mafia in nome dei segreti di Stato che un tempo combatteva. Per tutti costoro la legge non può toccare il "sancta sanctorum" del potere, altrimenti crolla tutto.
Con la conduttrice dialoga un cronista perugino che una volta per un articolo andò in carcere, per un errore giudiziario - a quanto racconta -   peraltro corretto da successive sentenze. Dopo la testimonianza la signora conclude: "Per carità, chi ha sbagliato deve pagare! Io stessa ho querelato giornalisti e ottenuto risarcimenti. Ma il carcere no! Perchè non limita solo la libertà di movimento ma impedisce anche le attività intellettuali".
Lasciamo da parte le castronerie contenute in questa frasetta (testuale) e torniamo ai fatti. La controparte diffamata ha chiesto a Sallusti un più adeguato risarcimento: non le cifre che per intimidire chiedono gli avvocati di Berlusconi, ma solo 30 mila euro in aggiunta ai 30 mila che il delinquente ha già pagato. Sallusti non ha voluto pagare, ha dichiarato di voler combattere la sua battaglia per la libertà di diffamazione andando in carcere.
Che stupidaggini disinformate e disinformanti va dunque raccontando la D'Urso?
Se vuole avere un minimo di coerenza e credibilità non dovrebbe far pressione per la libertà del Sallusti, tutt'al più stigmatizzare l'autolesionismo di costui. Oppure, se pensa che la sua sia una degna battaglia, dovrebbe lasciargli seguire i metodi di lotta che ritiene più efficaci, senza coartarne i nobili disegni, e non dovrebbe chiederne la forzata liberazione. Dovrebbe battersi invece perché renda fino in fondo la sua coraggiosa testimonianza a sostegno della menzogna, perché compia il martirio liberamente scelto.

Sandro Pertini racconta: Antonio Gramsci in Parlamento

Gramsci a Vienna nel 1923
Sono convinto che anche Mussolini abbia sempre avu­to una grande ammirazione per l'ingegno di Gramsci. Del resto quel che accadde alla Camera dei deputati nella se­duta del 16 maggio 1925 sta a dimostrarlo. Quel giorno, mentre Gramsci parlava, fu interrotto da un fascista, Fer­retti, che gli lanciò l'ignobile insulto: "Taci, rigoletto!".
Mussolini chiamò il deputato fascista, lo rimproverò acer­bamente e gli ordinò di andare a chiedere scusa. Quando vide salire verso il suo banco questo fascista Gramsci disse: "Io non accetto nessuna scusa, non la voglio nep­pure ascoltare. Avevo da dire cose troppo interessanti per poter sentire le sue interruzioni!".
E lo mandò via.

Da Gramsci vivo nelle testimonianze dei suoi contemporanei, a cura di Mimma Paulesu Quercioli, Feltrinelli 1977

Accade al mio paese. Da casa al cimitero (S.L.L.)

Campobello di Licata. L'ingresso del cimitero.
Affisso a una parete della sala d’aspetto di un ambulatorio medico e poi sul bancone di un pasticciere trovo in formato A4 l'avviso di una benemerita istituzione cittadina, la Confraternita la Misericordia, che si occupa soprattutto di trasporti di malati in ambulanza basandosi sul volontariato (vero, e non fasullo come talora accade). Leggo il titolo: Servizio di trasporto gratuito per cittadini anziani.
Da molto tempo sostengo che in un paese con tanti vecchi un servizio del genere dovrebbe essere istituito dal Comune. Molte persone si spostano con difficoltà e mancano di accompagnatori motorizzati disponibili. Dovrebbero essere aiutate a raggiungere la posta, il mercato, la banca, l’ambulatorio eccetera e credo che il servizio non sarebbe molto costoso se organizzato con orari e turni precisi, utilizzando i mezzi e il personale che si utilizzano per gli “scuolabus”.
Commento tra me e me quel titolo: “Finalmente qualcuno pensa ai vecchi! Fortuna che c’è la Misericordia!”. Ma, leggendo il contenuto dell’avviso, la gioia improvvisa e imprevista trapassa in mestizia e dà luogo a sconsolate riflessioni.
Il servizio in questione si svolgerà soltanto la domenica mattina e preleverà con un pulmino gli anziani che vorranno nei loro domicili per condurli, tutti insieme, a un’unica destinazione: il cimitero. 
La cosa può apparire macabra, ma è ovvio che i volontari della Misericordia stanno dando risposta a un bisogno esistente. Ci sono nel paese vecchie e vecchi, vedove e vedovi, che sopravvivono con le loro pensioni e sono, in qualche modo, bastevoli a sé stessi; e tuttavia, nello stesso tempo, con figli o nipoti lontani per lavoro o assenti per qualsiasi altro motivo, sono tristemente soli, senza nessuno che possa accompagnarli a quel cimitero dove pensano di ottenere conforto dal dialogo immaginario con i trapassati e dove pensano di trasferirsi prima o poi in pianta stabile per trovare compagnia. 

27.9.12

Il tubero (di Mao Tse-tung)

Le colture da tubero sono estremamente utili: per l'alimentazione degli uomini e dei maiali, per le distillerie, per la produzione dello zucchero e della pasta, che potrebbe essere fatta in diverse località. La coltura dei tuberi dovrebbe essere propagandata in concomitanza con una pianificazione adeguata.

Sessanta punti sui metodi di lavoro, 19 febbraio 1958
in Per La rivoluzione Culturale, Einaudi, 1975

Studenti e insegnanti (di Mao Tse-tung)

Dovrebbe essere permesso agli studenti di fare un sonnellino quando l'insegnante sta facendo lezione. Anziché ascoltare sciocchezze, è senz'altro meglio che schiaccino un pisolino e si riposino. Perché mai bisogna stare ad ascoltare delle stupidaggini?

Discorso alla festa di primavera sull'istruzione, 13 febbraio 1964
in Per la Rivoluzione Culturale, Scritti e discorsi inediti 1917-69, a cura di Jerome Ch'en, Einaudi, 1975

Precariato senza religione ( "micropolis" settembre 2011)

Più uguali
Salvatore Lo Leggio
Verso la metà degli anni Ottanta, grazie allo sforzo diplomatico del premier Craxi e del ministro Andreotti, un nuovo Concordato con la Chiesa cattolica sostituì quello mussoliniano del 1929. Le concessioni ai preti erano tali che con qualche ragione Rutelli, bello guaglione radicale, arrampicandosi su un balcone di Montecitorio, vi collocò la bandiera vaticana. Socialisti, comunisti e altri laici votarono invece soddisfatti: dicevano che era un grande passo avanti l’abolizione della qualifica di “Religione di Stato”, che in precedenza spettava al cattolicesimo romano, differenziandolo nettamente da protestantesimo, ebraismo, ecc., abbassati al rango di “culti ammessi”.
Cambiava anche il profilo giuridico della religione nelle scuole secondarie statali. Col nuovo Concordato il suo insegnamento non era più un obbligo (da cui chiedere eventualmente l’esonero), ma era derubricato a offerta formativa di cui l’alunno liberamente si avvaleva o non avvaleva, con la possibilità di un insegnamento alternativo. La sostanza non cambiava. I ragazzi che “si avvalevano” lo facevano automaticamente con l’iscrizione, come se fosse la scelta “normale”, mentre ai “non avvalentisi” le scuole richiedevano una domanda scritta. Solo dopo un lungo e complicato contenzioso si affermò la prassi di inserire l’opzione nella domanda di iscrizione.
Un altro problema toccava gli insegnanti di religione, che erano scelti dal Vescovo e non dall’amministrazione statale. Molti – con ottime ragioni - volevano che rimanessero fuori dal lavoro collegiale e seguissero una loro peculiare programmazione didattica distinta da quella dei consigli di classe. Ma questa fu ritenuta dalla Chiesa militante un’oltraggiosa bestemmia laicista: quelli di religione – dicevano – devono poter decidere di bocciature, promozioni e voti di condotta come tutti gli altri e non essere trattati da insegnanti di serie B.
Le gerarchie cattoliche non si limitarono però a volerli uguali, nel tempo li pretesero “più uguali”, come i maiali della orwelliana Fattoria degli animali. Sono di conseguenza molti i privilegi di cui godono codesti insegnanti, anche per le compiacenze del ceto politico di destra e di sinistra. Gli esiti sono talora paradossali. I docenti a tempo indeterminato, per esempio, in caso di revoca del nulla osta vescovile, perdono la possibilità di insegnare, ma non lo stipendio: i vescovi potrebbero mettere in atto una strategia per sistemare i disoccupati loro protetti e ho l’impressione che da qualche parte lo facciano veramente.
Anche gli insegnanti di religione precari godono di un privilegio esclusivo: gli scatti biennali che gli altri precari possono solo sognarsi. Quattro anni fa il Tribunale del lavoro di Perugia stabilì che si trattava di un ingiusto vantaggio, ma la sentenza rimase sulla carta.
I precari delle altre materie fondamentali (italiano, matematica, scienze, ecc.), che reclamavano analogo trattamento, nulla nell’immediato ottennero. Ora la Corte d’Appello di Perugia ha ribaltato la sentenza con una decisione destinata a “fare giurisprudenza”. Secondo i giudici, gli scatti sono previsti solo per i precari di religione, il cui rapporto di lavo ro sarebbe regolato da norme speciali.
Questa condizione di “più uguali” di cui godono gli insegnanti di fiducia della Chiesa cattolica è emblematica delle condizioni di favore di cui preti e pretini godono in diversi ambiti: basti come esempio il trattamento fiscale degli immobili. In Italia si può dire che viga un “doppio diritto”, disuguale, che ci riporta a situazioni da ancien régime.
Si comprende perché, con questi chiari di luna, la solennità civile del 20 settembre, che ricorda la fine del potere temporale della Chiesa cattolica sia passata quasi completamente sotto silenzio. A guardare le cose col senno di poi, a distanza di tanti decenni, si direbbe che i Bersaglieri nel 1870 abbiano aperto quella breccia a Porta Pia per permettere al Papa e ai Papalini di regnare, invece che sulla sola Roma, su tutta l’Italia.

Pubblicato nella rubrica "La battaglia delle idee"

Il mondo meraviglioso di Brunello Cucinelli ("micropolis" - settembre 2012)

Un fatto economico positivo dell’estate umbra è il successo della collocazione in borsa delle azioni della Brunello Cucinelli: prezzo cresciuto del 50%, capitalizzazione stimata 900 milioni. Non si parla di espansione produttiva, ma di fatto si escludono riduzioni del personale. Il che è già tanto.
La gloria dell’impresa e dell’omonimo imprenditore è sancita da un paio d’interviste, in agosto a “la Repubblica”, piuttosto breve e tecnica, il 10 settembre a Sandra Riccio de “La Stampa”. Il succo è il seguente: c’è nel mondo un numero maggiore di “molto ricchi” e, pertanto, i prodotti di lusso non conosceranno crisi: «Davanti a noi si apre un secolo d’oro».
Le approssimazioni storico-filosofiche che corredano siffatte tesi fanno probabilmente parte di una strategia comunicativa tesa a convincere il potenziale acquirente di azioni, piuttosto che di capi, e Cucinelli sembra entrare benissimo nel ruolo di imbonitore: «Il mondo ha fatto un cambiamento meraviglioso. Viviamo in un periodo che è un po’ come quello del Rinascimento quando i mercanti tornavano dall’America… Abbiamo il mondo davanti e immense possibilità… Gli insegnamenti
arrivano proprio da queste terre rinascimentali: Lorenzo il Magnifico considerava gli artigiani in qualche maniera fratelli dei grandi artisti».
Cucinelli dà anche qualche dritta a imprenditori e politici italiani. Basta – dice – con le grandi fabbriche e con la produzione di massa «che non sono di nostra competenza»; bisogna invece puntare su «due sistemi»: in primo luogo aziende piccole e lavorazioni artigianali per la «parte altissima del lusso» e, poi, grandi aziende che progettano in Italia e realizzano le lavorazioni all’estero.
Insomma, da una parte dipendenti “artigiani” e in quanto tali isolati (senza sindacato e rappresentanza, esposti ai capricci del mercato e dell’imprenditore), dall’altra un’industria italiana senza automobili, elettrodomestici o altre merci per i consumi di massa, con un numero di addetti ulteriormente falcidiato: il “mondo meraviglioso” di Cucinelli per i più è un incubo.
Ma la sua immaginazione un po’ allucinata è anche espediente per vendere le azioni, simile alla raffica di cazzate che Grillo spara per attirarsi simpatie elettorali. A giudicare dalle performance in Borsa, fino ad oggi funziona. (S.L.L.)

Nella rubrica "Il fatto", non firmato

Agitatevi ("micropolis" 27 settembre 2012)

Un manifesto del Comune di Perugia, in una grafica da sillabario, saluta l’anno scolastico con una frase attribuita a Gramsci: “Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza; agitatevi perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo; organizzatevi perché avremo bisogno di tutta la vostra forza”.
Si tratta della manchette dell’“Ordine nuovo”, rivolta agli operai torinesi, che di lì a poco avrebbero occupato le fabbriche. Ma non ha gli attributi giusti: i possessivi di Gramsci erano “nostra” e “nostro”; egli pensava che l’avanguardia fosse parte integrante della classe, non distingueva tra “noi dirigenti” e “voi diretti”.
Si tratta comunque di peccato veniale e l’uso della massima per la retorica esaltazione del sapere e della giovanile energia appare tollerabile, se confrontata con una più grave colpa. Mentre tagli e accorpamenti moltiplicano le classi di 30 o 35 alunni e si accentua il degrado del sistema scolastico, un manifesto che chiama all’entusiasmo appare infatti una insultante presa in giro.
Se e quando gli studenti si agiteranno, la loro forza organizzata si scaglierà anche contro gli ipocriti che stanno in Comune. (S.L.L.)

Pubblicato nella rubrica redazionale "Il Piccasorci", senza firma. 

La caduta di Bisanzio? Tutta colpa della Vergine (Augusto Fraschetti)

Augusto Fraschetti è storico dell’antichità di valore, autore tra l’altro di una biografia di Marco Aurelio che ribalta secoli di luoghi comuni. Questo suo breve scritto sulla fine degli imperi, in margine a un servizio del settimanale “L’Europeo” del 13 settembre 1979 sui Bizantini e sulla caduta di Costantinopoli, è anche un ragionamento sulla concezione “biologica “ della storia tipica degli antichi. (S.L.L.)  
La notte in una miniatura bizantina
L'Atene di Pericle, di Fidia e di Socrate si spossa, fino a soccombere, di fronte alla Sparta dei re e degli iloti, di fronte ad una città che ha adottato l'arcaismo quasi come stile di vita. Il vecchio impero di Dario e di Serse, dei grandi e splendidi palazzi, dei fuochi sacri e perenni di Ahura Mazda, viene conquistato dal giovane Alessandro, sceso dall'impervia Macedonia, terra di greggi e di pastori: una sorta di Piemonte dell'antichità. L'impero romano d'occidente, questo scomodo paradigma che ci viene continuamente riproposto, dopo innumerevoli tentativi di invasione e la perdita effettiva di gran parte dei territori controllati, sembra finire come per caso: quando un generale barbaro, di nome Odoacre, depone un imperatore, di nome Romolo Augusto, e non ne proclama un altro, limitandosi a rinviare le insegne del comando al sovrano d'oriente. Circa mille anni dopo, ha termine anche l'impero d'oriente, questa terra dove si discute sul sesso degli angeli e si compongono splendidi mosaici: conquista Bisanzio il giovane Maometto II, quasi un nuovo Alessandro.
Ma queste sconfitte sono dovute alla vecchiaia, ad un oggettivo indebolimento interno, oppure hanno rappresentato delle cesure nette, traumatiche, decise sul campo di battaglia? André Piganiol, uno storico francese legato alla scuola delle "Annales", dopo il 1945 poteva scrivere che la civiltà romana non era morta di morte naturale, ma assassinata dai germani.
Se per quanto riguarda la scomparsa di grandi civiltà la tesi dell'assassinio è moderna, al contrario la tesi della caduta per sfibramento, per consunzione, per una fine quasi biologica, appare nel mondo antico come quella più diffusa. Per gli antichi, soprattutto i Romani, se l'uomo ha una sua vita e questa sua vita si compone di vari stadi dalla nascita alla morte, anche le città, anche gli imperi hanno una loro vita, e tutti sono destinati naturalmente a morire. « La prima infanzia di Roma », scriveva Seneca il vecchio, « fu sotto Romolo, il suo fondatore... La sua adolescenza finì con la fine delle guerre puniche ». Una volta applicata coerentemente, una simile teoria doveva prevedere anche la morte di Roma. Se non esiste progresso indefinito, ma solo cicli quasi biologici, quanto più una città si sviluppa, tanto più si accosta la sua vecchiaia, il suo termine inevitabile. In mancanza di una concezione di reale progresso, gli imperi e le città egemoni tendono a succedersi continuamente, in un susseguirsi malinconico.
Dopo l'impero macedone e quello cartaginese, ecco l'impero di Roma ed il suo erede di Bisanzio, tutti fin dalla nascita destinati ad immancabile catastrofe. Possiamo comprendere lo sconforto di Costantino XII, l'ultimo imperatore d'oriente: pochi giorni prima, gli bastarono due segni per comprendere che la città sarebbe stata presa dai Turchi: la caduta a terra dell'icona della Vergine, portata in processione in una Bisanzio ormai in preda al panico, e lo scoppio di un temporale.

26.9.12

Repubblica senza lavoro. Corruzione, mafia e Europa secondo Napolitano (S.L.L.)

Il primo Berlusconi (e a fasi alterne anche il secondo) lasciava trapelare un incontenibile fastidio per la Costituzione italiana. Parlava di tanto in tanto di “costituzione sovietica” ed alcuni dei suoi servili interpreti, ministri o giornalisti, puntavano il dito sull’articolo 1, sulla “Repubblica democratica fondata sul lavoro”. Un’altra accusa del Cavaliere e dei suoi cavallerizzi al dettato costituzionale era un peccato d’omissione: “manca ogni riferimento – gridavano indignati – alla centralità dell’impresa”. Berlusconi non riuscì a mutare la Costituzione formale nella sua prima parte, quella che ne fissa i principi, ma un mutamento della “costituzione materiale” è avvenuto: per cui alcuni articoli al potere sembrano essere obsoleti e sono perciò sistematicamente disattesi, mentre altre norme, pur non essendo state approvate si fanno strada.
Una verifica di tutto ciò si può trovare nelle forti dichiarazioni di Napolitano sulla corruzione e sui privilegi dei politicanti di ieri sera. L’uomo del Quirinale ha alzato la voce e ha gridato che la situazione rivelata dai cali laziali "non e' accettabile per persone sensibili al bene comune, per cittadini onesti, né per chi voglia avviare un'impresa". In una repubblica fondata sul lavoro ci si sarebbe aspettato che il Presidente esprimesse, insieme a quella dei cittadini onesti, soprattutto la rabbia dei lavoratori, di quelli a 1000 euro al mese e anche meno, di quelli precari con i lavoretti saltuari e sottopagati, di quelli disoccupati, di quelli licenziati, di quelli che rischiano il licenziamento a breve termine e di tutti gli altri che subiscono riduzioni di redditi, diritti e tutele. E invece no: Napolitano, principescamente, mostra di considerare “canaglia pezzente” e dunque poco “sensibile” la massa dei lavoratori e si preoccupa invece di chi investe capitali. Insomma l’emarginazione dei lavoratori e la centralità dell’impresa, chiodo fisso dei berlusconiani.
L’ex capo dei miglioristi è tornato sul tema della corruzione anche oggi: “Bisogna combatterla. Ce lo chiede l’Europa!”. C’è un sistematico e ricorrente servilismo del signor Napolitano nei confronti di questa indistinta Europa, a cui un Presidente della Repubblica Italiana con un minimo d’orgoglio risponderebbe piccato che l’Italia non necessita di consigli e può fare pulizia senza altrui sollecitazioni. Ma il signor G no, lui dice agl’Italiani “l’Europa lo chiede”. Umilmente gli domando: se l’Europa non lo chiedesse, dovremmo tenerci la corruzione e le malversazioni dei politicanti, non sarebbero ugualmente un cancro da estirpare?
Ultima osservazione. Il visionario del Quirinale ieri aggiungeva al suo argomentare un parallelo, assolutamente condivisibile, tra lotta alle mafie e lotta alla corruzione, che così concludeva: "Vincere le mafie si può, come hanno dimostrato 20 anni fa Falcone e Borsellino". La frase riportata dall’AGI e da altre agenzie è insensata: venti anni fa Falcone e Borsellino furono uccisi e non mi pare che questa fosse una vittoria sulla mafia. C’è di peggio: da molti elementi convergenti risulta che proprio vent’anni fa, intorno a quelle due orribili manifestazioni della “potenza di fuoco” di Cosa Nostra, si svolse una torbida e oscura trattativa tra pezzi dello Stato e “Cupola”; ma Napolitano non dice ai suoi potenti amici nelle istituzioni dello Stato di pentirsi, di confessare, di vuotare il sacco, ma concorre con atti e dichiarazioni a creare polveroni e a delegittimare i magistrati antimafia. Si vergogni.

La forza di Camila. Una primavera cilena? (di Maurizio Matteuzzi)

Un altro articolo dal “manifesto” sulla compagna Camila da un giornalista specializzato in cose dell’America Latina. E’ del febbraio scorso. Le ultimissime nuove dicono che il movimento studentesco cileno, proprio in questi dì, prepara novità. (S.L.L.)

Camila Vallejo è giovane, tosta, comunista e per di più anche bella. Il che non guasta. Ma se le controparti politiche - prima quelle scolastiche poi su su fino ai vari ministri dell'educazione saltati e al presidente Piñera - credevano di trovarsi di fronte una bellimbusta tutta apparenza e niente sostanza hanno dovuto ricredersi. E' vero che la sua irruzione rapidissima, prima in Cile poi nel mondo, nel cielo delle star le ha procurato una sovraesposizione mediatica, tale che il londinese Guardian, in un suo profilo, è arrivato a chiamarla «la comandante Camila» e a definirla come il fenomeno politico-mediatico più impattante dai tempi ormai lontani del «sub-comandante Marcos».
Ma la forza di Camila non sta solo nel suo piacevole aspetto. E' la forza di una leader studentesca che ha saputo interpretare e guidare lo scontento, la rabbia, la frustrazione, la rivolta delle masse studentesche ridotte a merce dal sistema educativo oscenamente (ma scientificamente) classista messo in piedi da Pinochet e mai toccato nei 20 anni di governi post-pinochettisti a guida democristiana e socialista. Inutile quindi gettare tutta la croce su Piñera, anche se gli va dato... il merito che essendo il primo esponente della destra tornato al potere dal 1990, la sua presenza alla Moneda ha rotto quella patina di pigrizia, di rassegnazione, di paura forse inconscia che aveva frenato e un po' spento il Cile democratico con i suoi governi di centro-sinistra.
E va dato atto agli studenti - e qui torna fuori il ruolo di Camila Vallejo come loro leader più visibile e carsimatico - di essere stati la miccia che ha fatto saltare il tappo. Per tutto l'anno passato il movimento degli studenti liceali e universitari è stato l'avanguardia della società cilena, interpretandone le pulsioni politiche (ma non solo) rimaste sopite e seppellite per troppo tempo sotto la coltre del Cile «paese modello», del Cile «paese dell'ordine e della moderazione». Una coltre che nascondeva una realtà ben altra e ben più prosaica. Una realtà che le lotte degli studenti e l'emergere di una leadership studenteschi politicizzata hanno - finalmente - rotto, dando loro una funzione di risveglio e trascinamento di altri strati sociali che il neo-liberismo pinochettista e, purtroppo, anche post-pinochettista, si erano lasciati indietro come ineluttabile prezzo da pagare agli eclatanti risultati della «crescita economica».
Gli studenti come interpreti di una sorta di volontà generale o prevalente. Tanto che dopo quasi un anno di lotte e occupazioni, di marce e di scontri, nell'«ordinatissimo» Cile il 70% dell'opinione pubblica è con loro. Confidando che la primavera cilena sia solo l'inizio.

il manifesto 15 febbraio 2012

25.9.12

Dopo la morte di Pippo Fava. Il figlio Claudio racconta.

Fu come se quella morte avesse fatto precipitare ogni pudore, ogni finzione, ogni ipocrisia: Giuseppe Fava era stato ucciso e adesso occorreva disperderne ai venti ogni memoria, ogni pensiero molesto. Fu proprio il giornale di Ciancio il primo a provvedere. La mattina dopo, il 6 gennaio 1984, tra parole a lutto e titoli di circostanza, cominciò l'insinuazione, la processione dei punti interrogativi: ma chi lo dice che sia stata la mafia? Che c'entra poi la mafia con Catania? Che c'entra con Pippo Fava?
Il primo articolo portava la firma di Tony Zermo, vecchio amico di mio padre, compagno di un tempo che li aveva visti passare insieme il guado della giovinezza, e insieme crescere in quella città di scogli e di cielo, dove anche la scrittura sembrava un dono degli dei, un modo per raccontare la sensualità e l'oscenità dei tempi. Me lo ricordo, Zermo, quando bambino mi ritrovavo anch'io in mezzo a quegli scogli ad ascoltare le chiacchiere degli adulti, i languori e le sfide, e poi mio padre che si distraeva dai suoi amici e mi tirava per un braccio, dai, vediamo se sai arrivare allo scoglio, e a me quello scoglio sembrava talmente lontano, la fine del mare, la fine di ogni mondo, finché sentivo lo sguardo di mio padre incollato sulle mie spalle magre, sulle scapole affilate, e mi pareva una cosa da vili rinunciare a quello scoglio, fosse pure alla fine del mondo, fosse pure l'ultima cosa da fare.
Insomma, mi vennero in mente quel mare, quelle giornate piene di luce e delle loro parole da adulti, mi vennero in mente tutte quelle cose minime e inutili che non erano più né presente né ricordo ma un passato definitivo, una goccia di vernice in fondo ai pensieri, mi venne in mente tutto questo quando mi ritrovai in mano l'articolo di Zermo in cui si sosteneva che la morte di mio padre era una cosa, come dire?, strana, un delitto incomprensibile. Per esempio la pistola con cui Fava era stato ammazzato, un'automatica, una calibro 7.65, e invece Cosa Nostra - diceva l'articolo - non si serve di quei gingilli: sono pistole da signorine, da questioni personali, da rancori privati.
Era falso. Cinque anni prima Boris Giuliano, il capo della squadra mobile di Palermo, era stato ammazzato da Leoluca Bagarella alla stessa maniera: cinque colpi di 7.65 alla testa mentre si beveva il suo ultimo caffè. Ma quel modo di ragionare ad alta voce su presunte incongruenze era solo l'inizio, il primo rintocco di uno strumento che avvisava gli altri, che indicava la strada. Dopo “La Sicilia” toccò ai padroni della politica, ai tromboni della cultura domestica, ai lacchè di palazzo, ai poliziotti corrotti, ai giudici sprovveduti, agli avvocati dei mafiosi, in un carnevale di dubbi, di teste che si scuotevano, di parole che non sapevano spiegare.
Cominciò il sindaco, tale Angelo Munzone, umile servitore democristiano di padroni più illustri: «La mafia? È ormai dovunque, nel mondo: ma qui, a Catania, no. Lo escludo». Gli si affiancò subito Nino Drago, il compare di Salvo Lima in questa parte della Sicilia: «Mi auguro che i magistrati chiudano rapidamente questa indagine per ridare serenità alle attività pubbliche e alle attività economiche della città. Altrimenti possono succedere cose gravi». Cose gravi: se s'insiste a evocare la mafia, se si mette in relazione quest'omicidio con le stramberie che il morto scriveva, con le sue requisitorie contro i cavalieri dell'apocalisse mafiosa. «I cavalieri sono da tempo criminalizzati. Hanno costruito in quarant'anni veri imperi economici, ma hanno dato notevoli occasioni di lavoro alla città... Abbiamo avuto contatti personali. E questo ci hanno detto: che vogliono andarsene».
Ma sì, chiudiamo alla svelta l'inchiesta: anzi no, lasciamola aperta affinché marcisca e si riempia di miasmi, di racconti fasulli, di insinuazioni. A chi interessa parlare di mafia in una città educata a ragionar d'altro? Perché affannarsi su quel morto? Perché portargli solidarietà? Lo pensarono il sindacato e l'Ordine dei giornalisti: e ai funerali di Fava non si fecero vedere. Lo pensò la Procura della Repubblica e chiese, per firma del signor procuratore, di indagare sulla vita privata della vittima, sulla sua famiglia, sui suoi poveri denari. Lo pensò la squadra mobile e si mise a interrogare uno a uno i giornalisti dei Siciliani chiedendo a ciascuno di loro di confessare il torbido: è una storia di donne, vero? Minorenni, debiti di gioco, ricatti: e voi sapevate tutto, vero? Lo pensò il procuratore generale quando inaugurò l'anno giudiziario una settimana dopo quel delitto, e si strinse nella sua pelliccia d'ermellino, inforcò gli occhiali e infine spiegò che nel distretto giudiziario di Catania non vi era stato alcun episodio di criminalità mafiosa. Scusi, procuratore: ma allora, Giuseppe Fava? Il suo giornale? Le cose che scriveva? Stiamo cercando altrove, spiegò il procuratore. E “La Sicilia” il giorno seguente ci fece il titolo: «Omicidio Fava, non si tralascia alcuna pista». Altro che mafia, altro che Santapaola.
Alla fine indagarono solo su noi famigliari. I nostri telefoni furono messi sotto controllo per mesi, i nostri conti rivoltati come calzini. Non trovarono nulla: ma non aveva alcuna importanza. L'obiettivo era consumare quel tempo, lasciare che si sfilacciasse in cento ipotesi e che intanto il buon nome della città e dei suoi padroni venisse custodito al riparo da sguardi lunghi, da domande sgarbate. Dieci anni dopo trovarono il nome di quel procuratore della Repubblica, Giulio Cesare Di Natale, in un appunto tra le carte di Nitto Santapaola. Era un brogliaccio in cui il capomafia s'era annotato i piccioli che aveva distribuito per ricompensare i suoi protettori.
Dieci anni dopo. Scriverlo adesso è facile. Non lo era affatto quando ci stavi in mezzo, in quegli anni. E l'unico rimedio ai rischi dell'abitudine era prender nota scrupolosamente di ogni menzogna, di ogni ipocrisia, di ogni volgarità. Fu così che mi tornò alla memoria, molti anni più tardi, l'articolo con cui Zermo aveva aperto la stagione di caccia, quel suo candido stupore per la calibro 7.65 in un delitto che si dice di mafia. Me ne ricordai quando chiusero l'inchiesta e mi ritrovai davanti i referti dell'autopsia: pensai che l'avrei voluto accanto a me, Zermo, in quel momento, a riempirsi anche lui lo sguardo con lo scempio che pallottole di calibro così modesto avevano prodotto nella testa di mio padre, avrei voluto che mi spiegasse di nuovo la sua teoria sulla balistica e sulla mafia, senza staccare gli occhi da quelle foto, da quel corpo raschiato dentro e fuori dalle pistolettate del sicario, e che davanti a quelle immagini mi ripetesse le menzogne che aveva scritto: “Che c’entra la mafia? Che c’entra con Catania? Che c’entra con Pippo Fava?”.
Invece ero solo quel giorno. Io e quelle foto.
Non è la mia storia: è la nostra storia…

da I Disarmati, Sperling & Kuipfer, 2008

24.9.12

Una nuova IRI? Per il ritorno dello Stato nell'economia (Giovanni Nuscis)

Giovanni Nuscis ha diffuso qualche giorno fa sul sito letterario “La poesia e lo spirito” le riflessioni che seguono, non specialistiche, ma ricche di buon senso.
So che c’è una sorta di Talmud liberista nell’Unione Europea, per la quale scelte come quelle che Nuscis indica, a mio avviso molto al di sotto delle necessità, susciterebbero alte grida di scandalo. Sappiamo tutti che quel tronfio e vanesio, invece di un governo che rappresenti gli interessi nazionali, ha imposto al Parlamento e al ceto politico screditato un gabinetto tecnico che risponde soltanto agli interessi della finanza internazionale e delle grandi lobby economiche europee, oltre che al Papa e a tutti i suoi preti.
Si poteva sperare che su problemi di questa natura e portata si svolgesse la campagna elettorale che verrà e invece le ruberie diffuse del ceto politico allargato serviranno anche come arma di distrazione di massa. Alla fine del giro rischiamo di trovare la continuità con il governo Monti: lor signori si mangeranno quel poco che rimane. Oltre che il Colosseo e le spiagge più belle, anche le attività produttive pregiate e strategiche. (S.L.L.)

Su “il manifesto” di oggi  Valentino Parlato osserva che “Oggi forse, ma più che forse, sarebbe necessaria la ricostituzione dell’Iri.” L’Iri, è bene ricordarlo, era un ente pubblico economico che controllava un certo numero di aziende partecipate (tra le quali Banco di Roma, Credito Italiano, Banca Commerciale, Italsider, Finmeccanica, Rai, Alitalia, Fincantieri, Autostrade). L’idea mi sembra degna di considerazione avendo ormai provato gli effetti nefasti del “libero mercato”; senza però dimenticare la belva idrovora di denaro pubblico che l’Iri era diventata, negli anni, tanto da scomparire nel 2002. 
Non possiamo di fronte ad una crisi del genere, occupazionale prima che economica,  non domandarci:
1. se è giusto lasciare andare in malora le molte aziende in crisi senza alcun intervento che non sia un aiuto economico (erogazione di denaro pubblico o benefici fiscali);
2. se è stato giusto averne aiutato soprattutto alcune (come la Fiat), senza aver potuto operare alcun intervento gestionale;
3. se non sarebbe invece il caso di mettere “in sicurezza” alcune imprese strategiche per la nostra economia gestendole direttamente.

Me ne vengono in mente alcune come l’Enel, per la forte incidenza della sua “politica dei prezzi” sulla (scarsa) competitività di molte nostre imprese; la Rai, per il ruolo che l’informazione e la cultura rivestono per la nostra rappresentazione del reale e per le nostre scelte di vita; le imprese estrattive o di lavorazione, raffinazione  di materie prime fondamentali per la nostra industria (tra le quali Ilva, Carbosulcis, l’Alcoa); le aziende di trasporto navale, aereo e ferroviario e quelle di gestione delle autostrade, delle ferrovie, dei porti e degli aeroporti, quali fulcri essenziali di qualunque filiera economica; le imprese bancarie, fondamentali per il finanziamento delle attività private e aziendali.

Un’attività che andrebbe gestita con un spirito nuovo, rompendo con le logiche politiche e clientelari che hanno portato al disastro i conti pubblici, anche per i compensi spropositati elargiti agli alti dirigenti. Mi sovviene a tale proposito la scelta del sindaco di Alghero, Stefano Lubrano, che ha deciso con coraggio di affidare la gestione delle aziende partecipate a funzionari del Comune, invece che a esterni lautamente pagati. Si presume, adeguatamente formati per svolgere al meglio tali incarichi. Stessa prassi dovrebbe applicarsi anche per le società partecipate regionali e statali, attingendo dalla dirigenza pubblica in cui non mancano professionalità di alto livello.

Proposte, queste, che non troveranno forse molti consensi, tra le attuali forze politiche: lo stesso Pd e Bersani non metteranno certo “ai primi posti nel necessario programma del suo partito un Iri adatto ai tempi nostri”.

"La poesia e lo spirito" 12/9/2012

Gulash caucasico indigesto (di Astrit Dakli)

L'ufficiale azero Safarov al rientro a Baku
E’ davvero un brutto pasticcio quello creato dal governo ungherese di Viktor Orban con la consegna all’Azerbaigian di Ramil Safarov, un ufficiale azero condannato all’ergastolo per l’uccisione di un collega armeno durante un corso Nato frequentato da entrambi. L’improvvida scelta di Orban, presumibilmente premiata con un ricco prestito di Baku alle depauperate casse magiare, sta provocando enorme imbarazzo alla Nato e all’Unione Europea, mentre ha provocato un fulminante aumento della tensione nella regione caucasica – che non ne aveva proprio nessun bisogno.
(In due parole la vicenda del delitto. Ramil Safarov e Gurgen Margarian, ufficiali rispettivamente dell’esercito azero e di quello armeno, nel 2004 si trovavano a Budapest per un corso di aggiornamento Nato legato al programma Partnership for Peace. Nottetempo Safarov con un coltello e un’accetta ha ucciso Margarian che dormiva: parecchie coltellate al petto e 16 colpi d’accetta alla testa. Arrestato e processato, Safarov è stato condannato all’ergastolo nel 2006 da un tribunale ungherese).
Safarov, che secondo la versione di Budapest avrebbe dovuto scontare la sua pena in patria dopo la riconsegna a Baku, è stato invece “perdonato” dal presidente azero Ilham Aliyev il giorno stesso del suo arrivo, quindi rimesso in libertà, promosso maggiore e trattato come una sorta di eroe nazionale: il che ha ovviamente prodotto una escalation di furore in Armenia – dove comprensibilmente Safarov è considerato un mostruoso assassino – al punto che il governo di Erevan ha rotto le relazioni diplomatiche con l’Ungheria, accusata di aver stretto un patto segreto con gli azeri e di aver consegnato loro il killer sapendo benissimo che sarebbe stato liberato. Un giornale economico magiaro ha scritto che il ritorno di Safarov in Azerbaigian è coinciso con la concessione di un prestito di 3 miliardi di euro da Baku a Budapest, attuato con l’acquisto di speciali bond emessi dallo Stato ungherese e denominati in lire turche; Orban ha smentito ogni connessione tra le due vicende, ma è chiaro che i sospetti restano più che legittimi.
Per cercar di arginare l’ira armena si sono immediatamente mobilitati i governi di Usa, Francia e Russia, co-presidenti del cosiddetto “Gruppo di Minsk” che per conto dell’Osce (l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) cercano da 18 anni di promuovere la pace sul fronte armeno-azero: hanno parlato con i ministri degli esteri di Erevan e Baku, hanno chiesto moderazione, hanno deplorato, perorato, auspicato – senza gran successo. Particolare riprovazione per il “perdono” concesso a Safarov è stata espressa dal governo di Mosca.
Di fatto, anche la Nato e, in misura minore, l’Unione Europea si trovano coinvolte. L’Ungheria è membro di entrambe le istituzioni, che a loro volta hanno una partnership aperta con Armenia e Azerbaigian; la Nato, in particolare, era l’istituzione che ospitava Safarov e la sua vittima e quindi ha una responsabilità particolare nella vicenda. Anche se nessuno ha ancora esplicitamente chiamato in causa l’Ungheria, è chiaro che tutti pensano che quella di Budapest sia stata una pessima idea: tant’è che, vista la pressione internazionale, il governo ungherese ha dovuto protestare con quello azero, definendo “inaccettabile” il perdono concesso a Safarov. E oggi il segretario della Nato Anders Fogh Rasmussen si è sentito in dovere di precipitarsi di persona a Erevan, presumibilmente per dare agli armeni l’idea che l’Alleanza è solidale con loro. Quanto alla Ue, che ha già rapporti piuttosto tesi e polemici con l’Ungheria di Orban per le iniziative nazionalistiche e anti-comunitarie di quest’ultimo, si è finora limitata a esprimere “seria preoccupazione” per la piega presa dagli eventi: ma ha sottolineato come il Commissario per la politica estera dell’Unione, Catherine Ashton, sia “in continuo contatto” con le autorità ungheresi per “capire meglio” quello che è accaduto.

da “il manifesto blog” 6 settembre 2012

Nuovi comunisti. Intervista a Camila Vallejo (Marina Di Pierri)

Ho già diffuso, nel mio piccolissimo, un profilo di Camila Vallejo Dowling, una giovane comunista cilena alla testa delle lotte.
All’inizio dell’anno uscì sul “manifesto” una sua breve intervista a Marica Di Pierri dell’Associazione A Sud, che mi pare utile riprendere per arricchire il quadro. (S.L.L.)
Meno di un anno fa, il 13 giugno, mentre in Italia si festeggiava la storica vittoria referendaria per l'acqua pubblica e contro il nucleare, in un paese lontano, il Cile, prendeva le mosse l'altrettanto straordinaria stagione di mobilitazione che ne ha riempito per mesi le piazze. Per l'esattezza, la più grande mobilitazione del Cile democratico tale da aprire una nuova fase sociale nel paese. Lo racconta in questi giorni in Italia la testimonianza di una delle protagoniste delle proteste cilene, Camila Vallejo, dirigente della Federazione degli studenti dell'Università del Cile, divenuta uno dei volti del movimento cileno. Giovanissima studentessa di geografia, Camila è cresciuta in una famiglia di militanti di sinistra in un quartiere popolare di Santiago e vive con distacco la sovraesposizione mediatica cui l'ha esposta il suo ruolo di leader studentesca. In Italia ospite di Tilt, la rete sociale cui partecipano singoli e associazioni «della sinistra diffusa», Camila è giunta in Italia e in Europa assieme a una delegazione di rappresentanti di altre realtà cilene, tra cui la Cut, la Centrale unitaria dei lavoratori cileni.

Riferendosi al fermento sociale cileno del 2011 si è parlato molto di proteste studentesche, mentre hai più volte sottolineato che si è trattato di una mobilitazione molto più ampia...
Il movimento cileno che ha riempito le strade a partire dal giugno scorso ha coinvolto diversi blocchi sociali. Gli studenti hanno aperto un varco nel sentimento di rassegnazione che si era impadronito dei cileni, ma da subito sindacati, lavoratori, ambientalisti, e migliaia di cittadini si sono uniti alle proteste dando vita a un enorme movimento non solo rivendicativo ma che ha saputo elaborare proposte concrete. Come studenti abbiamo da subito posto richieste precise: un sistema di educazione pubblico, gratuito e di qualità e il riconoscimento dell'istruzione come diritto e non come "bene di consumo". A ciò si sono unite rivendicazione di altri settori: quello che è avvenuto è parte di un lento processo di ricomposizione dei movimenti cileni messi a ferro e a fuoco durante la dittatura.

Si parla spesso del "miracolo cileno", un paese che sarebbe il giaguaro del continente. Come si coniuga questo con la situazione di enorme disuguaglianza sociale e cos'è cambiato dopo le mobilitazioni?
In Cile come altrove il modello di sviluppo non ha prodotto che disuguaglianze. Se il pil cresce, continuamente e costantemente, cresce anche il divario tra i pochi ricchi e i moltissimi poveri. La classe media che prima era la fascia maggioritaria della popolazione si va assottigliando sempre di più. Le ultime statistiche dell'Ocse indicano che il Cile è uno dei paesi con il maggior indice di disuguaglianza sociale mentre i meccanismi di democrazia diretta praticamente non esistono. Nonostante le mobilitazioni e le richieste avanzate, non vi è stato alcun cambiamento materiale nelle politiche del governo Piñera. Il grande risultato che abbiamo raggiunto è stato quello di produrre un vero cambiamento culturale, profondo, nelle coscienze individuali come nella coscienza collettiva del paese. Attualmente stiamo lavorando alla costruzione di un Tavolo di coordinamento sociale che articoli in un processo unitario tutte le realtà che si sono mobilitate durante l'anno passato. Le priorità sono chiare: una riforma tributaria che faccia pagare chi detiene la ricchezza; una riforma educativa che fondi la nostra democrazia sull'accesso libero e garantito all'istruzione considerata un diritto; una riforma che metta fine al saccheggio di risorse di cui siamo vittima; una riforma del sistema elettorale che smonti il duopolio politico esistente e infine un processo costituente che riscriva la carta costituzionale. Dal ritorno della democrazia il Cile non ha mai avuto una costituzione democratica, ha ereditato quella scritta durante la dittatura e da lì bisogna ripartire per costruire un nuovo patto sociale inclusivo.

Quali punti in comune possono rilevarsi con le mobilitazioni che hanno scosso l'Europa e gli Stati uniti negli ultimi mesi?
Quanto accade in Cile è strettamente connesso con le mobilitazioni cui assistiamo in altre regioni del mondo: la crisi del capitalismo è una crisi mondiale e ovunque restringe diritti e causa sempre più povertà e distruzione. Le battaglie vanno combattute in ciascun paese perché ogni situazione ha le sue peculiarità, ma il quadro di riferimento è globale ed è per tutti noi lo stesso: la necessità di cambiare modello di sviluppo.

A giugno a Rio de Janeiro si terrà la conferenza Onu sulla sostenibilità, nota come Rio+20. Un appuntamento a cui tutti i movimenti sociali stanno guardando partendo dal presupposto che le reti che rivendicano giustizia ambientale e difendono i beni comuni sono ormai parte integrante del discorso verso un altro modello economico. Anche il Cile sta vivendo una convergenza tra le lotte per i diritti sociali e quelle per la giustizia ambientale?
Assolutamente sì. Le rivendicazioni per il diritto al lavoro, il diritto all'educazione, il diritto alla salute sono rivendicazioni che ovunque marciano assieme perché la crisi sistemica che viviamo li erode indistintamente. Il Cile è ricchissimo di risorse, ma vengono rapinate da grandi gruppi economici che lasciano solo contaminazione e non creano nessuna redistribuzione. La scintilla che ha fatto scoppiare il malcontento l'anno scorso nasceva in verità attorno a questioni ambientali. Se le prime mobilitazioni visibili sono state quelle studentesche, ancor prima lo sciopero contro l'aumento del gas a Punta Arenas e la battaglia contro le mega-dighe in Patagonia hanno contribuito in maniera sostanziale a riattivare un fermento sociale che non c'era da anni. Questo dimostra che i due campi sono strettamente connessi e discendono dal grande tema generale che è il modello di sviluppo, le sue implicazioni tanto ambientali quanto sociali e l'assoluta urgenza di guardare assieme ad un orizzonte diverso.

“il manifesto” 15.02.2012

La poesia del lunedì. Uno stornello popolare di Lanciano, Abruzzo


Comacchio, Ferragosto 1953, Foto di Pietro Donzelli
Che belle fà l'amor'a li vind'anne!
Bbellezze nghe bbellezze se cunfonne.

Che bello far l'amore sui vent'anni! / Bellezza con bellezza si confonde. 


da Canzoniere italiano (a cura di Pier Paolo Pasolini), Garzanti, 1972 (I ed. Guanda, 1955)


Verità nascoste: bocciature in prima elementare (di Sarantis Thanopulos)

C’è un forte ritorno di fiamma delle bocciature nella scuola dell’obbligo. In omaggio alla “meritocrazia”, prima della Gelmini poi dei professori e dei tecnici e nel clima di “riscossa” antiegualitaria che caratterizza l’ideologia dominante e di darwinismo sociale (“uno su mille ce la fa”). L’anno scorso a Ischia bocciarono perfino in prima elementare: è probabile che sia accaduto anche quest’anno, ma non si è saputo niente. Sul “manifesto” nel luglio 2011 ho trovato e conservato il commento che segue. L’impianto del ragionare è psico-pedagogico e l’ideologia che lo sorregge democratica e libertaria. E’ acuto e si imparano tante cose. Tuttavia – è anche questo un sintomo, per “il manifesto” se non altro – manca qualsiasi accenno di interpretazione classista. Eppure le vicende che si raccontano, le frasi che si citano si comprenderebbero meglio nel quadro della lotta di classe. (S.L.L.)

A Ischia un'alunna della prima elementare è stata bocciata e i suoi genitori denunciano la mancata assegnazione di un insegnante di sostegno. La dirigente scolastica ribatte che all'alunna, certificata da una visita psicologica sana, non spettasse un sostegno: è solo una "bambina immatura", alla quale è stato concesso del tempo per il "necessario recupero".
Delle due l'una: o le difficoltà di apprendimento sono dovute a difficoltà psicologiche, collegate o meno a un deficit intellettivo, e in questo caso il sostegno era dovuto, o la scuola ha fallito nel suo compito educativo. Gli insegnanti possono a volte fallire nel loro lavoro, spesso si trovano a operare in condizioni difficili. Dei fallimenti non devono fare una colpa, ne devono piuttosto assumere, nella parte che li riguarda, la responsabilità.
Ciò che colpisce nella reazione della scuola, così come è riportata sui giornali, è il suo lavarsene le mani, come se la bocciatura di una bambina alla prima elementare fosse un atto di gestione normale privo di implicazioni serie. Essere bocciati a sei anni è, invece, un'esperienza traumatica. I bambini si trovano in una fase di trasformazione degli impulsi e delle passioni della prima parte, poco
educabile, della loro infanzia in sentimenti e propositi che tengano conto dei principi e dei valori che regolano la convivenza nella loro comunità. I loro conflitti con l'ambiente circostante si interiorizzano, favorendo la creazione di istanze "morali", e il buon andamento di questo processo è determinante per uno sviluppo cognitivo sufficientemente sereno e equilibrato.
Un certo grado di frustrazione interiorizzata può aiutare il bambino a conoscere meglio la realtà in cui vive, ma se l'ambiente educativo non mostra disponibilità e accoglienza questa realtà non diventerà mai qualcosa da amare, qualcosa in cui riconoscersi.
La bocciatura è una frustrazione poco "intelligente", non interiorizzabile, che colpisce grossolanamente dinamiche delicate diventando un'interferenza tanto dannosa quanto illogica.
La sua presentazione come concessione benevola di recupero è la proiezione su di lei di un bisogno dei suoi insegnanti in debito di ossigeno, come si intuisce dalle affermazioni della dirigente scolastica: «Se la scuola italiana riprendesse a bocciare nelle scuole primarie, al liceo non ci sarebbero tanti bocciati, anzi in molti non arriverebbero proprio al liceo».
L'idea di bocciare bambini di sei anni per rendere meno affollati i licei, è molto più che una provocazione, probabilmente involontaria. Riflette una mentalità sempre presente, a volte dominante, che vede la scuola come luogo di formazione di soggetti efficienti, selezionati per far cose che funzionano bene, a prescindere dal significato che queste cose hanno per loro.
Una scuola che fatica a farsi carico dello sviluppo emotivo dei suoi allievi, che non li aiuta a diventare persone capaci di essere soggettivamente presenti nelle cose che fanno e di goderne. C'è più interesse autentico per la vita in alcune persone emarginate ,"fallite", che in tanti automi socialmente riusciti, impegnati come sono a funzionare, per cause non scelte da loro, nel modo più adeguato possibile.

"il manifesto" 16 luglio 2011

Sanguineti. Il primo e l'ultimo (di Gilda Policastro)

Recensione e memoria di un grande, forse grandissimo. Commovente. (S.L.L.)
Ludico e funebre
Laborintus di Edoardo Sanguineti dovevamo studiarlo in biblioteca o in fotocopie, all'università: ovviamente introvabile la princeps dell'editore veronese Magenta, e fuori dal catalogo Feltrinelli quel Segnalibro. Poesie 1951-1982 che a distanza di quasi trent'anni lo aveva riproposto diacronicamente in chiave incipitaria. Adesso si ristampa opportunamente (dopo l'indispensabile edizione commentata, alcuni anni addietro, da Erminio Risso per Manni), entro quella remota raccolta originaria, Segnalibro, appunto, da decenni fuoriuscita dai cataloghi, che solo ora invade le librerie, negli ultimi anni scarsamente ospitali - o ospitali per un tempo assai fuggevole - delle opere del nostro (spesso uscite per piccoli ma pregevoli editori come Il melangolo di Genova), insieme ad altre due uscite sanguinetiane semipostume, ossia licenziate a pochi mesi di distanza dalla morte dell'autore, e dunque evidentemente col beneficio del suo «si stampi».
Si tratta del volume di saggi sparsi e talvolta inediti Cultura e realtà, uscito per Feltrinelli e approntato grazie alla curatela dell'ancora una volta prezioso testimone Risso, e le poesie ultime, dagli anni Novanta agli Zero (con la felice eccezione del preliminare, giovanilissimo travestimento donchisciottesco, già proposto da «Repubblica» vivo l'autore, in una occasione non remota). Varie ed eventuali, questo il titolo scelto da Sanguineti (così sappiamo dalla nota in calce al testo di Niva Lorenzini, e né ci meraviglia, abituati ai titoli all'apparenza «provvisori» o paratestuali, da Glosse a Fuori Catalogo, dell'autore), di quel momento poetico iniziale/iniziatico (per lo sforzo esegetico che richiedeva al lettore, mischiandosi in esso le lingue le forme le fonti) reca più d'una traccia, anche diretta ed esplicita (come ne Il suono del teatro, nelle due versioni «primo getto» e «variante», dove ritornano le «paludi», i «labirinti» e le «complessioni strutturali» di quell'esordio choc, ma anche, e, in modo ancor meno scontato, le «paludi di putredini» della serie mantovana su Mantegna) sebbene sia per forza di ventura un'opera incontestabilmente terminale.
Terminale perché in più d'un tratto sente di morte («viene la morte, allora:/devi trovarti a portata di mano», come nell'imitazione da Breytenbach), morte come leitmotiv del resto già ben sviscerato altrove, con piglio ostentatamente e coerentemente giullaresco (lo ricordava qualche anno fa un saggio di Andrea Cortellessa intitolato Morire per Sanguineti, titolo ambivalente che, mentre riecheggiava uno slogan editoriale degli anni Sessanta - in ogni città d'Italia c'è un giovane disposto a morire per Sanguineti -, consentiva di ripercorrere dagli esordi a Novissimum Testamentum l'attitudine ludicamente funebre della poesia sanguinetiana), e perché come in un ultimo passaggio della vita (poetica) dinanzi agli occhi, vi si ripresentano, alla maniera delle maschere dell'amatissimo teatro, tutti i personaggi già noti ai suoi lettori, dalla «moglie» o meglio «mia moglie», alla «figlia», al «figlio», quasi tutti e quasi sempre senza nome, a parte il nuovo nato Luca, il nipotino destinatario delle filastrocche che chiudono la raccolta (con recupero della modalità già cara a Sanguineti del «saltimbanco», qui raddoppiato in «cantimbanco»).
Oltre a qualche non ben identificabile apparizione, come quella delle solite «passanti» sanguinetiane, qui ad esempio la ragazza Deborah (entro un contesto ospedaliero, forse un'infermiera). E tornano, insieme ai personaggi, i modi e le forme della poesia sanguinetiana così come l'abbiamo conosciuta in oltre cinquant'anni di attività: dall'occasione o dalla commissione, come amava dire lui, alla contrainte formale (con assoluta prevalenza del sonetto, variato dal «sonnetuzzo» al «sonetto combinatorio» e quasi sempre ulteriormente complicato dalla presenza dell'acrostico o della coda), all'invenzione verbale che mescola il cultismo (dal «s'inselva» al «prósopon») al neologismo arditissimo («ratzingherofilando», «ultrultrultrultrultrosi»), alla sintassi «sbalordita» delle prime uscite in prosa alla ridondanza pronominale, vera marca autoriale dalla poesia autonoma alle ormai inquantificabili traduzioni (di cui in questo libro si ripropongono campioni dall'atteso Lucrezio, ma anche dai meno scontati Neruda e Saramago). E come per il libro di saggi il nucleo più consistente si compone di scritti d'arte, anche in questo caso è agli artisti che la poesia è maggiormente diretta, fino a farsi vera e propria ecfrasis nei due nuclei centrali dedicati alla mostra mantovana e nella sezione per Dürer. Seconda solo a quella per la musica, la passione per l'arte.
E, tra le Varie ed eventuali, il threnos per Berio è il momento che più tocca e commuove: Sanguineti vi si chiede se l'amico abbia potuto ritrovare, nelle stanze in cui adesso abita, la sua musica: «(di musica tua, voglio dire): (di te,/ che sei stato la musica, per me, per tutti, per anni e anni, qui»). Superfluo replicare la domanda, e rivolgerla a lui, sulla sua poesia: con sollievo lo pensiamo almeno «inesistere» in eccesso" (dal sonetto Duplex), finalmente, negli scaffali delle librerie. Se non ci sono più giovani disposti a morirne, che possano continuare a leggerlo.

“il manifesto” 19-2-2011

Mutamenti climatici. Il tè in Inghilterra (di Giorgia Fletcher)

Dalla rubrica "Terraterra" del "manifesto" una notizia curiosa e una riflessione preoccupante. (S.L.L.)
La prima piantagione di tè è in Cornovaglia, nel sud-ovest dell'Inghilterra. «Abbiamo avuto questa opportunità quando abbiamo visto che le temperature erano diventate più calde e abbiamo cominciato a coltivarlo nel 1999. Abbiamo fatto il primo raccolto nel 2005 e ora la resa aumenta anno dopo anno», dice Johathan Jones, direttore commerciale dell'azienda agricola Tregothnan estate: nelle tenute ora coltivano 22 varietà di tè e quest'anno si aspettano un raccolto record, anche oltre le 10 tonnellate, dichiara all'agenzia Reuter.
Cosa c'è di straordinario? Beh, che il tè non era mai cresciuto nella fredda campagna inglese. E neppure le olive, le pesche, le albicocche, i peperoni del Szechuan, o tantomeno le viti da uva - tutta roba che i britannici importano dall'Europa meridionale se non da più lontano ancora - il tè ad esempio da Sri Lanka, dalle alture del Darjeeling in India o dalle colline del Kenya...
Il riscaldamento del clima sta trasformando l'aspetto della campagna inglese - la comparsa di coltivazioni una volta inadatte alle temperature di qui è uno dei sintomi. La «migrazione delle specie» è da tempo evocata dagli scienziati che descrivono i possibili impatti del riscaldamento delle temperature terrestri: dove per migrazione si intende che specie proprie di certi climi vanno a colonizzare latitudini più alte (o più in alto sul livello del mare) via via che diventano più calde. Certo, per in paese come la Gran Bretagna il risultato non è necessariamente negativo - al contrario. Le regioni più vicine ai tropici rischiano la desertificazione o sono spazzate dagli uragani, ma nelle isole britanniche nessuno si lamenterà se la campagna fiorisce prima. La Gran Bretagna diventa «più tiepida e più umida», dice il governo. Robert Watson, capo del comitato scientifico presso il ministero dell'ambiente e dell'agricoltura: dice (sempre all'agenzia Reuter) che il suo dipartimento sta monitorando da vicino l'impatto del cambiamento del clima sull'agricoltura e i raccolti. «Non c'è dubbio che è un impatto significativo. Il cambiamento del clima può avere effetti benefici per il regno unito, se non altro perché avremo un periodo vegetativo più lungo con inverni più brevi e primavere più precoci», dice Watson. Molti agricoltori hanno cominciato a trarne le conseguenze. La Cornovaglia, la zona meridionale più calda dell'inghilterra, è al centro di una grande sperimentazione di nuove coltivazioni. Mark Diacono, coltivatore del vicino Devon, scrive nel suo sito web che la sua «fattoria del cambiamento del clima» ora cresce olivi, noci americane, peperoni, albicocche e ora sta tentando con le viti.
David Leaver, professore emerito già preside del Royal Agricoltural College, fa notare che la possibilità di impiantare nuove coltivazioni in Gran Bretagna dipende non solo dal riscaldamento del clima ma anche dalla capacità di selezionare le specie adatte. Mentre Robert Watson avverte: «Per l'agricoltura l'impatto prevedibile al 2050 sarà per lo più positivo, ma dipende da dove guardiamo in Gran Bretagna». E più in generale, «se guardiamo al pianeta nel suo complesso, un aumento di 2 o 3 gradi medi complessivi sarà negativo». Allora, anche se il Regno unito (o altre regioni nordiche che ugualmente beneficeranno del clima più tiepido) potrà divertirsi a far crescere vigne e olivi, non servirà certo a risolvere i suoi problemi di paese che dipende in modo pesante dalle importazioni di cibo (oggi la Gran Bretagna importa il 35% dei suoi consumi alimentari). Perché finora gli approvvigionamenti sono garantiti: i supermercati britannici non mancano certo di frutta e verdura provenienti per lo più da paesi meridionali. «Ma il mercato internazionale continuerà a essere una fonte sicura», si chiede Watson, in un clima sempre più insostenibile?

il manifesto "9 luglio 2011

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