GRAND HOTEL COLOSSEO, Superstudio, Monumento continuo, 1969 |
Chi
non ha idee ha anniversari da ricordare, lo scriveva già Giacomo
Leopardi. Tuttavia un’eccezione va senz’altro fatta per il 1966,
anno intenso e ricco come pochi altri del Novecento, almeno per
l’architettura e il design non solo italiani. Cinque anni or sono
Antoine Compagnon ha anticipato la celebrazione con un corso tenuto
al Collège de France (disponibile online) dal titolo appunto 1966:
Annus mirabilis, per evidenziare
come in quell’anno siano venuti alla luce i pilastri di quella che
poi, retrospettivamente, sarà chiamata la French Theory
(vale a dire una banda di pensiero internazionalmente nota e formata
da autori come Foucault, Derrida, Deleuze, oltre a cineasti, pittori
e scrittori). Compagnon però non è stato il primo a studiare un
singolo anno come un nodo storico posto in un luogo preciso e non
come momento di accumulazione di eventi.
Nel
2008 lo storico tedesco Karl Schlögel ha pubblicato un denso volume
(appena tradotto anche da noi, L’utopia e il terrore.
Mosca 1937. Nel cuore della Russia di Stalin,
da Rizzoli) dove mette a punto un’intuizione di Michail Bachtin, il
cronotopo: ovvero l’accelerazione e la radicalizzazione di eventi,
di processi intrecciati e già in atto e con esiti successivi
duraturi in un’unità di luogo, tempo e azione. Se gli anni
Sessanta costituiscono il decennio dell’apogeo della
modernizzazione su ogni piano – da quello infrastrutturale e
tecnologico, con la corsa allo spazio al suo massimo storico nella
rivalità fra Usa e Urss, fino al cinema che passava definitivamente
al colore – l’Italia gioca un ruolo del tutto particolare nel
1966.
Da
un lato perché ha una produzione cinematografica eccezionale
(Uccellacci e uccellini
di Pasolini, Blow up
di Antonioni, Il buono il brutto e il cattivo
di Leone, L’armata Brancaleone
di Monicelli sono tutti del ’66) dall’altro perché sono anni di
dominio di quel “demone della teoria” cui lo stesso Compagnon ha
dedicato un altro fortunato libro. La particolarità italiana però
consta nel delinearsi da subito di due anime che inizialmente non
sembrano contrapposte, anzi si riconoscono felicemente in alcune
affinità. Ma in seguito si allontaneranno inevitabilmente con la
contrapposizione ideologica inaspritasi dopo il ’68.
Catastrofi radicali
Per
Francesco Dal Co la storia dell’architettura italiana del secondo
Novecento è spezzata in due, manco a dirlo proprio nel 1966, a causa
di due catastrofi naturali come la frana di Agrigento e le alluvioni
eccezionali di Firenze e Venezia. La modernizzazione diventa sinonimo
di cieca speculazione edilizia (il libro omonimo di Italo Calvino e
Le mani sulla città
di Rosi sono entrambi del 1963), l’abbandono delle campagne e la
relativa negligenza in fatto di cura del territorio sfociano in
questi eventi traumatici che lasciano un segno indelebile anche a
livello popolare. Le immagini degli “angeli del fango” e Il
ragazzo della via Gluk di
Adriano Celentano inaugurano la criminalizzazione del cemento,
materiale dapprima simbolo di riscatto dalla miseria e d’ora in poi
metafora del crimine che dura fino ai giorni nostri, con buona pace
delle archistar internazionali dell’epoca, Pier Luigi Nervi e
Riccardo Morandi, maestri delle opere pubbliche in cemento armato.
Proprio
a Firenze l’alluvione fa avvicinare alcuni laureati o laureandi in
architettura che, avendo perduto i loro piccoli studi e disegni
precedenti, decidono di ripartire condividendo nuovi spazi e nuove
idee. Nascono dunque in parallelo Superstudio (Adolfo Natalini,
Cristiano Toraldo di Francia cui si aggiungono i fratelli Roberto e
Alessandro Magris, Gianpiero Frassinelli) e Archizoom (Andrea Branzi,
Gilberto Corretti, Paolo Deganello, Massimo Morozzi) e in seguito gli
altri gruppi fiorentini Ufo, 9999, Ziggurat oltre a Gianni Pettena e
Remo Buti. Superstudio e Archizoom restano però i gruppi di punta,
amici e rivali come i Beatles e i Rolling Stones dell’architettura
radicale, le cui opere sono oggi conservate nei musei di mezzo mondo.
I radicali esorcizzano il trauma dell’alluvione producendo
inusitati disegni e collage di superfici a sviluppo infinito che
inglobano dapprima parti di territorio e poi di città, amplificando
l’invasione di questa “supersuperficie” che diviene presto
anche metafora del consumismo e del sistema capitalistico portati
però fino all’eccesso, radicalizzati cioè fino al livello di una
distopia – alcuni membri di Archizoom erano vicini alle tesi
contenute in Mario Tronti, Operai e capitale
(Einaudi 1966). In generale però i radicali mostravano più
attenzione verso le periferie, irridendo apertamente i monumenti
nella serie di Superstudio chiamata “Italia vostra”, e i nuovi
luoghi di aggregazione giovanile come le discoteche di cui sono stati
i primi progettisti, lavori oggi osannati specie in Inghilterra.
Modernità spezzata
Se
da un lato i radicali rinverdivano l’anima futurista (e pop) della
cultura italiana in una città così conservatrice come Firenze,
dall’altro autori attivi nella ben più progressista Milano
infrangevano il tabù avanguardista della storia e del suo valore
studiando i monumenti come “fatti urbani” (Aldo Rossi) e usandoli
come “materiali progettuali” (Vittorio Gregotti) per dare forma a
intere parti di città in continuità con il contesto storico.
Continuità era appunto la parola aggiunta al titolo di Casabella da
Ernesto N. Rogers, maestro sia di Rossi sia di Gregotti, entrambi ex
redattori della rivista diretta dall’autore della Torre Velasca –
un edificio “very milanese” secondo Alvar Aalto, che ironizzava
così sullo storicismo neogotico e pre-postmoderno della torre dei
Bpr. Ecco allora che Gregotti e Rossi (che nel ’66 divideva lo
studio con Giorgio Grassi) rinverdivano una linea metafisica in
architettura, preoccupandosi prevalentemente dei centri storici o di
ricostruire una relazione con essi che non interessava affatto i
radicali – e agli antipodi di Giancarlo De Carlo: questi, il cane
sciolto del modernismo italiano, proprio allora pubblicava un primo
bilancio della sua articolata opera di ampliamento e ricostruzione di
Urbino in totale discontinuità formale (non a caso dieci anni prima
si era dimesso in polemica dal comitato di redazione di Casabella
Continuità).
Contrappunto
americano
Un logo di Vignelli |
Nel
1966 gli effetti del cronotopo italiano si riscontrano anche negli
Usa. Da un lato Robert Venturi, che è italoamericano di Filadelfia
(oggi fresco 90enne), pubblica un libro prodotto dal MoMA di New York
che è tutto un programma, Complessità e contraddizione in
architettura, originalissimo
manifesto di architettura moderna: in copertina ha un’opera di
Michelangelo, Porta Pia. Il volume combina liberamente edifici
storici, design pop e persino infrastrutture come gli asimmetrici e
mastodontici viadotti dell’autostrada del Sole – inaugurata nel
1964 con un slogan irriverente verso il minimalismo del Bauhaus: less
is a bore. Avevano giovato a Venturi i ripetuti soggiorni romani
nonché lo studio dell’amata cultura manierista. A New York, dove
nel 1966 Andy Warhol diventa il manager dei Velvet Underground,
arriva Massimo Vignelli che insieme ad altri fonda la Unimark, studio
grafico che teorizza l’immagine coordinata e si offre alle grandi
corporation dopo aver usato come prova generale la grafica della
linea 1 della metropolitana milanese (1965). Di lì a breve tutti i
prodotti e i grandi marchi americani vengono “svizzerizzati” da
una mano italiana, attraverso l’uso rigoroso dell’Helvetica,
tentativo riuscito di costruire un mondo perfetto ma chiuso che vive
indifferente e altero sopra le turbolenze del Vietnam, delle lotte
per i diritti civili e delle rivolte studentesche. Proprio come un
Monumento Continuo, appunto.
Pagina 99, 17 settembre 2016
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