Nadia Fusini |
Il senso della scrittura,
l’operazione che per suo tramite si compie, è la ricerca che Nadia
Fusini compie nel suo ultimo Nomi, sottotitolo Il suono
della vita di Karen Blixen, Emily Dickinson, Virginia Woolf,
Gertrude Stein, Charlotte ed Emily Bronte, Mary Shelley, Marguerite
Yourcenar (Feltrinelli, 1986, pp. 238, L. 20.000). Otto donne, otto
scritture, chissà quante letture. Perché in questa ricerca domina
la messa in guardia del continuo trasferimento: dal sé alla
scrittura, che non in tutti avviene con il medesimo segno, la stessa
intenzione e valenza, e dall’ulteriore trasferimento dello scritto
nel silenzio di chi legge, e ne rifa esperienza, ma per dircene la
cifra deve a sua volta trasferirlo in scrittura. Trasferimenti che
non sono semplicemente dislocazioni, trasposizioni, ma così diversi
«modi» da rendere il passaggio dall’uno all’altro sempre o
imperfetto o ridondante, come un cambiamento per somiglianza,
analogia, a volte allegoria: mai rispecchiamento.
Tanto che Nadia Fusini
inizia dalla bellissima leggenda del dio Theut che regala ad Ammone,
fra altre cose, l’alfabeto e invece di esserne ringraziato, provoca
la diffidenza del faraone, il quale non soltanto teme che gli uomini,
potendo affidare ai segni le cose, cessino di tenerle dentro di sé,
svalutando la memoria, ma perché in questo distacco dall’«in sé»
al segno le cose iscritte diventeranno altro dall’uomo, un perduto
e soltanto superficialmente ritrovato come informazione, diremmo
oggi; nozioni e non sapienza.
E poi tanto più fragili
appaiono del discorso vivente, il solo pregnante di tutto e solo il
suo significato; mentre chi potrà giudicare del vero o falso
dell’interpretazione del discorso scritto? In apparenza esso è
fissato per sempre; in realtà la lettura è già un terzo e
problematico passaggio dopo quella seconda «oggettivazione», presa
di distanza che consiste nel «dire in parole», anche se queste
partecipano ancora del vivente e sono ancora «vissuto».
Ma non è lo sfaccettarsi
dell’esperienza informa plurisignificante di chi parla, scrive,
legge — sempre lo stesso e sempre qualcos’altro — che interessa
a Nadia Fusini; ma piuttosto il contrario, la ricerca di quel quid
che resta univoco, del nocciolo del messaggio, dell’ineludibile da
qualsiasi interpretazione, del detto o scritto una volta per sempre,
quale che sia la scrittura o la lettura in cui cade. È questo che
lei chiama «il suono della vita», la nota, il registro delle otto
scrittrici, in ciascuna diversa e della quale in ciascuna cerca la
specificità. Cosi la preoccupazione di Ammone è in parte
vanificata: l’interiorità della cosa posseduta interiormente per
vera sapienza non sarà perduta nella fissità della scrittura; il
crittogramma permetterà sempre di ritrovarne la traccia. Anzi è la
sua decifrazione che ci rivela il nome, quel che dell’uomo resta.il
suo sigillo, la sua forma ultima, il senso.
Non a caso, penso, la
scelta delle scrittrici esaminate procede da Karen Blixen, nella
quale la fatidicità del nome è così forte da parerla garantire dal
crudele non senso della vita, che dovette avere provato nella prima
metà della sua esistenza. Tutto ciò che la vita lascia aperto,
elude, spreca o perde è concluso, affrontato, conquistato e
conservato per sempre nel racconto, nel quale sempre (ed è la
condizione per essere raccontato) si disegna «la cicogna», la forma
augurale che il narrato non vede, ma è chiara al narratore. Chi
diventa narratore trasformerà la sua vita in significante,
recupererà ogni perdita, trasformerà il destino in scelta,o
crederà, come scrive Nadia Fusini, di avere scelto il destino.
Meno consolatoria la
chiave della scrittura nelle altre, anche se per tutte (per tutti,
credo) essa è in qualche modo risarcimento. Ma nella Blixen
occorreva non soltanto scrivere, ma trovare quella che una volta si
sarebbe chiamata la «moralità» nel narrato, un significato che non
è nella parole ma servito da esse, una sorta di enigma rivelabile da
chi sa raccontare, perché lo ha risolto. Tutto il mondo è dunque
fatto di segni, nulla è senza senso: forse le occorreva questo per
sopportare il cadere di tutte le speranze, e la ferita insanabile nel
corpo. Ma Emily Dickinson? In lei la parola è il doppio
dell’inafferrabilità dell’altro, la cosa, il mondo, dio, unico
modo per sfiorarlo; mai lo si avrà, ma dandogli nome, parola lo si
vedrà prima di perderlo. La comprensione dell’oggetto comporta la
sua perdita; il suo diventare da «essere», «forma». E si può
capire perché in questo mettere in parola un altro da sé
perpetuamente sfuggente, quando non devastante o ingannevole, poco le
importasse comunicare, se non per lettera, e scrivesse per sé ;
traversare l’esistenza era decifrarla in parole, fatica estenuante
ma fine in sé, non diverso da quel possesso di Dio, del quale Emily
farà determinatamente a meno.
In Virginia, nelle due
Bronte, nella Stein, nella straordinaria Mary Shelley, nella
Yourcenar lo scrivere sarà esperienza diversa: non, come è ovvio,
diversa per come e quel che scrivono, ma per il senso che per
ciascuna di loro ha il fruire del dono di Theut. Così, all’opposto
della Blixen, per Virginia Woolf non è un riacquistare il perduto,
ma il rincorrere infinitamente e senza possibile raggiungimento le
cose, ciò che è reale e in qualche modo sembra il contrario di quel
cadere nel silenzio che è la sua malattia. Un reale peraltro del
tutto diverso da quello della Dickinson, che ha natura metafisica;
quello di Virginia è un reale che altri hanno, e non lei. Non Emily,
ma lei ne muore. Il suo è un dolore che dal quale la parola non
salva, perché la sua radice ultima, differentemente dalla Dickinson,
non è così astratta da lasciarsi mettere in forma.
Ma queste letture di
Nadia Fusini portano lontano, con sé e per cammini devianti:
invitano a tradire la sua lettura, che è un modo bellissimo di
moltiplicare le chiavi di interpretazione. Come se invitasse, nel
rincorrere «il suono della vita» di queste donne ad ascoltare più
volte una nota, annunciata e ritessuta in altre su una tastiera,
quella nota di quella donna che le pagine ti riportano accanto, e che
costituisce il filo che ne lega la problematicità, il segno, il
disegno ultimo. Quel «nome» nel quale si tocca l'irripetibilità
dell’altro, cosa o persona: e lo si tocca, ci ricorderà Nadia
Fusini alla fine, non per scienza ma in un improvviso schiarirsi
della conoscenza in illuminazione: è così, questa è la domanda, o,
più raramente, la risposta iscritta in quelle pagine. L’identità,
diremmo oggi fra donne; e non può sfuggire alla confessione neppure
la riluttante Gertrude Stein.
“la talpa giovedì il
manifesto”, ritaglio senza data, ma 1986
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