Vittorio Gassman nel film "Il sorpasso" (Dino Risi, 1962) |
“Ecco un grande attore
che non fu mai impallato”. Questa è l’epigrafe che un giorno
Gassman, scherzosamente, disse che avrebbe voluto sulla sua tomba.
«Impallare», nel gergo del cinema, significa mettersi tra qualcuno
e la macchina da presa. Impedendogli cioè di essere visto. Se quel
«qualcuno» è un grande attore, il malcapitato che lo ha impallato
può passare un brutto quarto d’ora. Se invece è un attore, o
un’attrice, di pari importanza, tra i due avviene una subdola lotta
a colpi di gomito, quale potrebbe verificarsi tra due ciclisti
durante un arrivo in volata. Gassman non fu mai impallato.
Questo la dice lunga
sulla sua continua voglia di vincere. Che l’ha portato, nei suoi
rapporti con il teatro, il cinema e le donne, qualche volta a tentare
un sorpasso azzardato. Io che lo conosco (o credo di conoscerlo) da
più di trent’anni (un’amicizia che dura grazie alla nostra
scarsa frequentazione) sapendolo poco incline ai bilanci, voglio
provare a tracciare un suo identikit, o ritratto o meglio
autoritratto, poiché mi servirò delle sue parole estrapolate dal
bel volume che lo riguarda, curato qualche anno fa da Giacomo
Gambetti per l’editore Gremese. Un identikit - poco affidabile e
sommario come tutti gli identikit - dal quale però emergono tre
belle componenti del carattere di Gassman: grande intelligenza,
morbosa sensibilità, spietata sincerità, qualità che spiegano
perché lo stimo ma soprattutto perché gli voglio bene.
La sua memoria mi ha
sempre sbalordito. Veniva sul set, dava un’occhiata al copione,
diceva: «Quando vuoi». Sua madre Luisa (attrice mancata) raccontò
che già a tre anni Vittorio aveva imparato a memoria una lunga
poesia che faceva parte del programma di scuola della sorella Mary,
avendogliela ascoltata ripetere non più di due volte. E sulla sua
nascita come attore Vittorio dice: «Credo di aver recitato la prima
volta quando accompagnai mio padre al cimitero. Un istintivo bi-sogno
di reagire al dolore mi condusse a una sorta di sdoppiamento, di
partecipante astrazione, in cui ancora oggi riconosco il primo germe
della mia vocazione di artista. Ricordo la precisa sensazione di quel
corteo, della gente che si scopriva al passaggio, di me desolato ma
cosciente protagonista dell’avvenimento».
A teatro Vittorio andò
dritto come una spada, al cinema invece faticò molto. «Vedevo ogni
tanto le proiezioni delle sequenze, questa mia faccia totalmente
marmorea, non riuscivo assolutamente a farle esprimere nulla» (il
film è Daniele Cortis di Mario Soldati). Il teatro lo
esaltava, il cinema lo faceva spesso vergognare. «Andai a vedere Il
cavaliere misterioso di Freda in un cinema romano. Nell’ultima
scena, quando io arrivo sulla piazza di Pietroburgo presso il palazzo
di Caterina, con una troika, c’era un primo piano di me che
frustavo i cavalli, che scendevo e chiedevo ”dov’è
l’imperatrice” o roba del genere: e lì un ragazzotto romano,
emblematico ma vero, dietro le mie spalle, si alzò e tendendo la
mano gridò “ma si stai a piazza Margana!”, ed era assolutamente
vero. Ero tra il pubblico, davanti a lui, e mi nascosi cercando di
non farmi vedere...». E dopo tanti anni vissuti da antipatico, ecco
che Monicelli, contro il parere di tutti, lo vuole in un ruolo
simpatico nei Soliti ignoti. È l’anno 1958. Gherardi, l’art
director, «mi combinò una ”faccia”, mi sbassò la fronte, mi
allargò le orecchie, mi allargò il naso, mi distrusse come idolo
marmoreo, storico, e fece di me un personaggio simpatico, usando,
certo, anche delle mie qualità di attore che indubbiamente credo
avessi». (...) Del Sorpasso dice: «Qui ebbi per la prima
volta la possibilità di presentarmi, con risultati felici, con la
mia faccia, finalmente distesa, finalmente liberata dai ghigni e
dalle maschere della trasformazione, della caratterizzazione».
Ma aggiunge, ed è una
spia dell’altro Gassman, del Gassman dietro la maschera: «Fu
un’operazione di totale naturalezza e disinvoltura, tanto più
apprezzabile in quanto, tutto sommato, il mio ruolo personale vero e
proprio era più vicino al personaggio di Trintignant. Cioè io
continuavo a portare i miei pesi, le mie introspezioni, le mie
complicazioni, le mie timidezze, i miei intellettualismi
eccetera...». (...) Ma, per finire questo breve schizzo, lascio
ancora la parola a Gassman, a una sua un po’ esoterica divertente
dichiarazione sullo sforzo mnemonico: «Mentre recito, c’è una
piccola zona del mio cervello che tiene conto di quanti respiri
prendo e che privilegia i gesti della parte sinistra che mi è più
simpatica di quella destra, che raffigurare il maggior numero di
coincidenze sul numero cinque, che mi è simpatico, o sul numero
nove, che per me è il nord sportivo e pionieri-stico o l’undici
che rappresenta i paesi scandinavi. È tutta una specie di piccola
selva mitologica, emblematica, che fa una rete, e che forse toglie
qualcosa alla banalità di prendere semplicemente una frase e di
dirla per rendere conto di cosa stia succedendo...».
Questo campione di prosa
un po’ schizofrenica mi ricorda una definizione della poesia che
citava spesso Montale: la poesia è l’arte di comunicare delle idee
per mezzo di parole che quelle idee non esprimono affatto...
"l'Unità”, 1 settembre
1992
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